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“DECRETO DIGNITÀ”: UN PROVVEDIMENTO DIRIGISTA

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“DECRETO DIGNITÀ”:

UN PROVVEDIMENTO DIRIGISTA

 (*) Professore ordinario di diritto del lavoro – Università di Modena e Reggio Emilia

- Articolo pubblicato sul quotidiano "l'Opinione della libertà" del 05/07/2018 -

L’anima dirigista e antiliberale della componente pentastellata del Governo giallo-verde emerge con prepotenza nel primo provvedimento di natura economica licenziato dal Consiglio dei ministri lo scorso 2 luglio. Su un tema a forte connotazione simbolica e a intensa carica ideologia, come quello del lavoro, il neo ministro dello Sviluppo economico, del Lavoro e delle Politiche sociali, Luigi Di Maio, scopre subito le carte. A difettare, beninteso, non sono né l’onestà (il provvedimento è in linea con quanto promesso in campagna elettorale) né la chiarezza degli obiettivi perseguiti bensì, e forse è peggio, una visione matura del mondo del lavoro e la comprensione delle sue dinamiche.

Premesso che un cambio continuo delle regole spiazza imprese, professionisti e operatori pubblici e privati, creando incertezza e che quindi dopo anni di riforme e controriforme (dalla Legge Biagi, passando per la Legge Fornero sino al Jobs act) nessuno sentiva la necessità di un nuovo intervento, per di più “a gamba tesa” e senza un’adeguata riflessione, le novità introdotte con la bozza di decreto legge recante “Disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese” appaiono abbastanza semplici ma allo stesso tempo cariche di significato.

Sul piano lavoristico la novella interviene su quattro fronti: contratti a tempo determinato, somministrazione di lavoro, licenziamenti, limiti alla delocalizzazione e tutela dell’occupazione nelle imprese beneficiarie di aiuti di stato. Per i contratti a tempo determinato si prevede innanzitutto la riduzione della durata massima, che passa da trentasei a ventiquattro mesi e, quel che è peggio, si reintroduce la causale giustificativa. In particolare, le imprese continuano a essere libere di stipulare un primo contratto a tempo indeterminato di durata non superiore a dodici mesi, senza obbligo si spiegare i motivi per cui vi ricorrono. Ma se decidono di stipularne fin da subito uno di durata superiore, di prorogarlo (se con la proroga si superano i dodici mesi) o di rinnovarlo (a prescindere dalla durata complessiva del rapporto) dovranno indicare le “esigenze temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività per esigenze sostitutive di altri lavoratori” (probabilmente nel testo manca una “o”, dopo la parola “attività”) o “connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili dell’attività ordinaria”. E le nuove regole, si badi bene, valgono anche in caso di rinnovo o proroga dei contratti in corso.

L’inversione di marcia rispetto al Jobs act è dunque nettissima. Pur senza ripescare il sistema delle ipotesi tassative della legge del 1962, il Decreto dignità introduce comunque un requisito causale molto più rigoroso e restrittivo rispetto al “causalone” introdotto con il decreto 368 del 2001 (e successivamente alleggerito nel 2008), che richiedeva generiche “ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo”, per giunta anche “riferibili alla ordinaria attività del datore di lavoro”. Ricordando che in caso di mancata, imprecisa o insufficiente indicazione o di rilevata insussistenza delle esigenze previste il giudice dichiara nulla l’apposizione del termine e la sussistenza fra le parti di un contratto a tempo indeterminato, con le conseguenze sanzionatorie previste dalla legge, è facile prevedere che la nuova norma, poco chiara e infarcita di aggettivi (“temporanee”, “oggettive”, “estranee”, “ordinaria”, “non programmabili”, “significativi”) suscettibili delle più varie interpretazioni, produrrà come primo effetto quello di riportare in vita quell’imponente contenzioso giudiziario e di ricreare quel clima di incertezza che la soppressione del “causalone” aveva spazzato via. La novella prevede poi un’ulteriore stretta, abbassando il numero massimo delle proroghe da cinque a quattro. Viene inoltre allungato da centoventi a centottanta giorni dalla cessazione del rapporto il termine di decadenza per impugnare il contratto che si ritenga illegittimo. Previsione scarsamente comprensibile se si pensa che per l’impugnazione dei licenziamenti la legge prevede soli sessanta giorni, pacificamente considerati più che sufficienti allo scopo (essendo richiesto un semplice atto scritto, anche stragiudiziale).

A un analogo giro di vite si assiste anche per la somministrazione di lavoro. Il Decreto dignità, infatti, in caso di assunzione a termine da parte dell’agenzia (situazione che rappresenta la regola) dichiara applicabile al rapporto di lavoro la stessa e il lavoratore tutta la disciplina relativa al contratto a tempo determinato, inclusa quella relativa alle causali, alla durata massima, ai rinnovi, alle proroghe e alla trasformazione del rapporto, con la sola eccezione del numero massimo dei contratti e del diritto di precedenza.

Infine, si rende più costoso il ricorso al contratto a termine e alla somministrazione attraverso un aumento di 0,5 punti percentuali della contribuzione in caso di rinnovo. Sul fronte licenziamenti, l’indennità prevista in caso di licenziamento ingiustificato viene elevata, passando dalle attuali 4 mensilità e 24 massime, a 6 minime e 36 massime. A tal riguardo vale la pena di fare alcune precisazioni. Il riferimento è alle cosiddette “Tutele crescenti” introdotte dal Governo Renzi. Non viene toccato l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, che rimane così com’è, nella versione post Fornero. La novella si applica dunque solo agli assunti dal 7 marzo 2015. E per di più solo agli occupati nelle imprese di grandi dimensioni (con oltre 15 dipendenti nell’unità produttiva o 60 in totale). Per le altre cambia solo il minimo (che passa da 2 a 3 mensilità), ma non il massimo (che resta fissato a 6). Non muta poi l’importo dell’indennità per i vizi formali (da 2 a 12 mensilità, ovvero da 1 a 6 per le piccole imprese). Inoltre, resta da osservare che siccome le tutele crescenti funzionano attraverso un meccanismo di incremento automatico del risarcimento in relazione all’anzianità di servizio (2 mensilità per ogni anno di servizio), la norma esplicherà in concreto i suoi effetti (quanto al massimale) solo a partire dal 2027. In ogni caso, se la novella può anche essere comprensibile per quanto attiene all’elevazione del minimo, portare il tetto massimo a 36 mensilità è esorbitante. Innanzitutto perché, come si accennava, il meccanismo opera automaticamente, in base all’anzianità di servizio e il giudice non può discostarsene, modulando l’importo del risarcimento in relazione alla gravità del vizio del licenziamento (per cui anche per un vizio lieve il datore di lavoro potrà essere condannato a risarcire 36 mensilità di retribuzione). E inoltre perché in tal modo si finisce per prevedere, in prospettiva, una tutela indennitaria più consistente per gli assunti a tutele crescenti rispetto ai lavoratori più anziani, cui si applica l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. E il tutto quando, per riportare equità e organicità al sistema, basterebbe rivedere le tutele previste dalla norma statutaria, rimodulandole in relazione alla effettiva gravità del vizio del licenziamento e alle dimensioni del datore di lavoro, distinguendole in quattro fasce (micro, piccole, medie e grandi imprese) secondo i parametri previsti dall’Unione europea (numero di dipendenti, fatturato e bilancio), ma rendendole omogenee per tutti i lavoratori, senza distinzione tra vecchi e nuovi assunti.

Solo un cenno, infine, agli articoli relativi ai limiti alla delocalizzazione e alla tutela dell’occupazione nelle imprese beneficiarie di aiuti di Stato. A parte i dubbi su come sarà in concreto possibile ripetere gli aiuti concessi a un’impresa che delocalizzi interamente la propria attività, l’articolo 5 prevede, in capo alle imprese “che beneficiano di misure di aiuto di Stato” “che prevedono la valutazione dell’impatto occupazionale”, la decadenza dal beneficio in misura proporzionale in presenza di una riduzione superiore al 10 per cento, ma “al di fuori dei casi riconducibili a giustificato motivo oggettivo”, che peraltro è proprio lo strumento con cui si realizzano le riduzioni di personale (in forma di licenziamento individuale, individuale plurimo o collettivo). Probabilmente si tratta di un refuso. Se così non fosse, la norma sarebbe da un lato inutile e dall’altro paradossale nel momento in cui non esclude, invece, i licenziamenti disciplinari.

Volendo trarre qualche conclusione, può dunque dirsi che nel complesso si ha l’impressione di un ritorno a un passato in cui si pretende di indirizzare le scelte economiche mediante imperativi normativi, ignorando almeno due aspetti fondamentali. Il primo è che per dare vera dignità al lavoro occorre fare in modo che ogni lavoratore, subordinato o no, possa godere di un compenso adeguato (obiettivo perseguibile innanzitutto attraverso un abbattimento strutturale e non episodico del cuneo fiscale) e di un sistema che gli consenta un rapido passaggio da un posto di lavoro all’altro. Solo così si favorisce l’occupazione, si rende meno traumatica l’eventuale cessazione di un rapporto di lavoro, si asseconda la propensione delle imprese ad assumere ogni volta che ne hanno bisogno, anche per poco tempo, in un mercato altalenante e dall’andamento incerto ma, anche, si favorisce la possibilità di scelta, di cambiamento e di crescita dei lavori. Il secondo è che il mondo è cambiato. Lo dicono i numeri.

Negli ultimi anni il mercato del lavoro è diventato più dinamico, connotato da più cessazioni ma allo stesso tempo più assunzioni (Boeri, Garibaldi, WorkINPS Papers, n. 10, febbraio 2018). Secondo le ultime rilevazioni Istat a maggio l’occupazione è aumentata, e la disoccupazione è compensata da un calo degli inattivi. Ma da lungo tempo ormai i nuovi posti sono sempre di più di natura temporanea. Mettere un freno alle assunzioni a termine e in somministrazione, che sono il motore del trend positivo dell’occupazione dell’ultimo periodo e che, oltretutto, rappresentano sovente il primo gradino in vista di un’assunzione stabile, senza altra idea nuova ed efficace sul fronte delle politiche attive che non sia quella di dotare di più risorse gli ormai decotti centri per l’impiego, da anni ridotti a una funzione burocratica di meri passacarte, produrrà quale unico effetto quello di un calo generale dell’occupazione. Inoltre, penalizzare i contratti di durata superiore a 12 mesi, le proroghe e i rinnovi, rischia di spingere chi assume verso contratti più brevi e perciò rivelarsi un boomerang.

L’auspicio è dunque che venga accolto l’invito di tanti, Confindustria e Confcommercio in prima linea, a fare un passo indietro e che l’impianto del decreto venga rivisto in sede parlamentare.
Ultimo aggiornamento Lunedì 09 Luglio 2018 20:13  

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