La responsabilità sociale d’impresa in ambito giuridico internazionale

1.Premessa; 2. La responsabilità sociale di impresa tra legislazione ed autoregolamentazione; 3. L’attività delle multinazionali e gli strumenti di regolamentazione; 4. Il ruolo dell’Organizzazione Internazionale del lavoro; 5. La strategia di CSR nell’Unione Europea

  1. Premessa

Il dibattito internazionale ed interdisciplinare sulla Responsabilità Sociale d’Impresa (RSI) oCorporate Social Responsibility (CSR), secondo l’equivalente terminologia anglosassone, ha assunto negli ultimi anni connotati e dimensioni di particolare rilevanza. Il tutto è scaturito dalla crescente attenzione manifestata dai principali attori del mercato verso l’accoglimento di istanze sociali ed ambientali ed alla diffusione di politiche di Responsabilità Sociale di Impresa, adottate dalle istituzioni comunitarie e dalle organizzazioni internazionali. Tutto ciò ha stimolato il confronto tra punti di vista differenti in ordine alla definizione ed allo sviluppo del concetto di “responsabilità sociale”.

Si tratta di convincersi all’idea che l’impresa, nel mutato contesto economico odierno, debba assumersi precise responsabilità nei confronti della collettività, modificando le proprie strategie di mercato e realizzando comportamenti che vadano oltre la logica della mera massimizzazione del profitto, attraverso un’efficace gestione delle problematiche etiche e sociali.

  1. La responsabilità sociale d’impresa tra legislazione ed autoregolamentazione

Il dibattito relativo alla Responsabilità Sociale di Impresa ha avuto inizio intorno agli anni Trenta per poi risolversi nello scontro ideologico sugli interessi che i manager di una impresa dovrebbero perseguire. In pratica si è iniziato a pensare se l’impresa dovesse anche essere considerata un’istituzione al servizio della collettività e quindi dei vari stakeholder. Nel corso del tempo, con l’affermarsi di una concezione della libertà d’impresa e di concorrenza quali elementi fondanti dell’economia internazionale, si è assistito ad un processo evolutivo e culturale caratterizzato da una profonda penetrazione dell’etica nei rapporti economici, che è giunto sino a dirigerne l’azione.[1]

La necessità di inserire la questione etica nella dimensione imprenditoriale, nasce dalla considerazione, sempre più diffusa in ambito internazionale, secondo cui l’attenzione dell’impresa verso istanze sociali, etiche ed ambientali delle comunità, costituisca una condizione imprescindibile per uno sviluppo sostenibile e durevole. Pertanto si è giunti a ritenere  che la responsabilità sociale, rappresenta per una impresa uno strumento efficace per trovare una risposta adeguata e soddisfacente alle istanze che giungono dalla società civile.[2]

In questo contesto, le imprese sono chiamate a svolgere un ruolo chiave nei processi di tutela dei diritti umani e dell’ambiente, sviluppando la propria attività produttiva nel pieno rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo e delle comunità locali di riferimento. Questo significa attraverso la Responsabilità Sociale di Impresa si afferma quindi una teoria di impresa che concepisce la produzione dei beni non solo limitatamente alla loro funzione di strumento di profitto ma anche come opportunità di realizzazione del benessere sociale. In questo modo l’operato dell’impresa inizia ad essere valutato globalmente non solo in rapporto ai risultati economici raggiunti, ma anche in base alla qualità dell’ambiente lavorativo, al rispetto della natura ed alla qualità del prodotto, in ottemperanza alle linee metodologiche tracciate dalla scuola di pensiero del cosiddetto business ethics[3] secondo il quale le imprese devono necessariamente operare in modo da eliminare le diseguaglianze sociali, contribuendo alla promozione del benessere collettivo. Questa necessità è sorta in occasione di abusi commessi dalle imprese multinazionali che hanno causato danni ingenti alle comunità degli Stati ospiti dei loro stabilimenti. In mancanza di una definizione univoca ed unanimemente accettata di Responsabilità Sociale di Impresa, è possibile definirne i contenuti identificandola come un framework giuridico che include strumenti di natura legislativa riconducibili a diversi settori, inclusi quelli che regolamentano strutturalmente le società commerciali in termini di diritti proprietari, controllo degli organi gestionali, pubblicità degli atti o le normative nazionali di prevenzione e repressione dei fenomeni corruttivi senza dimenticare le normative finanziarie sulle borse valori e le discipline a tutela del lavoro, del consumatore e dell’ambiente. Negli Stati industrializzati la Responsabilità Sociale di Impresa si identifica con un sistema complesso di norme e principi idonei a disciplinare le molteplici sfaccettature dell’attività d’impresa. Invece nei Paesi in via di sviluppo, tali normative sono spesso frammentarie o completamente assenti, il che ha consentito alle multinazionali di avvantaggiarsi indebitamente dei vuoti legislativi.[4]

Il dibattito sulla Responsabilità Sociale di Impresa ha indotto le Nazioni Unite e l’Unione europea ad interessarsi della materia. Da una attenta analisi emerge che la definizione più completa di Responsabilità Sociale di Impresa è riportata proprio nel Libro Verde del 2001 redatto dall’UE, ove la stessa viene qualificata come investimento strategico nell’attuazione del proprio programma di sviluppo commerciale. Questo significa che per un’impresa la decisione di assumere comportamenti valutabili in termini di responsabilità sociale, significa andare oltre i normali obblighi giuridici del diritto interno, per dedicarsi alla cura del capitale umano, della salute e del progresso della società, rispettando l’ambiente e ponendo in essere programmi aziendali atti a produrre sensibili miglioramenti della qualità della vita. Questa impostazione è stata ribadita e confermata dalla Comunicazione della Commissione datata 25 ottobre 2001, che ha vincolato le imprese al rispetto della legislazione applicabile e degli accordi collettivi, cui si aggiunge l’impegno, scevro da ogni obbligo giuridico, ad attuare in autonomia processi di integrazione delle questioni sociali all’interno dell’ecosistema aziendale, al fine di creare un valore condiviso tra proprietari/azionisti e gli altri soggetti interessati.[5]

In ambito internazionale, la definizione di responsabilità sociale d’impresa, è affidata al lavoro del Rappresentante Speciale del Segretario dell’ONU su Business and Human Rights, John Ruggie, secondo cui le imprese sono tenute al rispetto dei diritti umani, evitando di infrangere i diritti degli altri e nell’imprimere un cambiamento di direzione nel caso in cui siano coinvolte in simili pratiche. Consapevole della labilità di un proposito privo dell’assistenza di qualsivoglia obbligo giuridico, al punto 12 della relazione, Ruggie chiarisce che tale responsabilità deve essere tenuta distinta da “legal liability and enforcement”, che rimangano affidate alle legislazioni nazionali.

La responsabilizzazione delle imprese, necessita di una compenetrazione tra legislazioni nazionali e codici di autoregolamentazione affinché possa spiegare i suoi effetti orientando l’attività delle stesse verso il monitoraggio, la prevenzione, la riduzione e la gestione dell’impatto sui diritti umani. Per raggiungere questo scopo, a partire dagli anni Settanta, i paesi promotori di un Nuovo ordine economico su scala internazionale, iniziarono a proporre standard di condotta da introdurre nelle imprese, in modo tale da bilanciare gli obiettivi da essere perseguiti; questi tentativi si fondavano sull’opportunità di favorire la collaborazione tra Stati e multinazionali, rendendo positivo il contributo offerto da queste ultime in termini di investimento nei Pesi ospiti. Tuttavia, in considerazione della rilevante incidenza sui mercati delle imprese multinazionali, quali operatori non statali del diritto internazionale, la Responsabilità Sociale di Impresa di cui necessita la comunità deve svilupparsi attraverso fonti e strumenti di natura internazionale. A riprova di questa evidenza, si pone l’ampia azione delle organizzazioni intergovernative quali ONU, OCSE ed OIL, facendo ricorso soprattutto a fonti di soft law.[6]

Questi strumenti, individuano i principi di Responsabilità Sociale di Impresa che negli ordinamenti nazionali risultano essere il prodotto di differenti regolamentazioni settoriali e sono deputati a controllare e promuovere l’attività delle imprese multinazionali in senso etico. Accanto al concetto di responsibility, la dottrina ha elaborato quello di accountability, in altre parole il fenomeno per il quale l’impresa multinazionale deve rendersi disponibile a sottostare a controlli e monitoraggi posti in essere da soggetti coinvolti nella sua attività e da parte della società civile.

Il quadro delineato, risulta purtroppo fragile dal punto di vista strettamente giuridico, essendo gli strumenti internazionali adottati, privi di una reale forza vincolante, anche se è innegabile come la questione di una responsabilità delle imprese multinazionali stia gradualmente catalizzando l’attenzione su di sé, quale tema fondamentale nell’ambito del diritto internazionale. Resta da stabilire se l’adozione di strumenti di soft law da parte di organizzazioni intergovernative sia sufficiente per ottenere la tutela di quei valori che caratterizzano la responsabilità sociale d’impresa.

  1. L’attività delle multinazionali e gli strumenti di regolamentazione

Il fenomeno della globalizzazione ha inciso in modo particolare sulle relazioni economiche, le quali hanno iniziato a manifestare una spiccata tendenza ad operare su scala internazionale, con conseguente intensificazione degli scambi di merci, capitali, servizi ed informazioni.

I grandi cambiamenti intervenuti nelle relazioni economiche ed internazionali a livello globale hanno comportato una spinta evolutiva non solo per quanto concerne la regolamentazione dei flussi finanziari, ma anche in ordine alla frequenza ed all’ampiezza degli stessi nonché relativamente alle attività economiche svolte dalle imprese multinazionali. Il ruolo svolto da tali imprese ha subito sensibili trasformazioni sin dagli anni Sessanta, ma la cui presenza sulla scena internazionale, risale a diversi secoli prima[7], in concomitanza con l’espansione mercantile europea, basato sul sistema delle “chartered companies”, ovvero società commerciali in possesso di una sorta di licenza idonea all’esercizio dell’attività mercantile, le quali, oltre al commercio, assunsero funzioni tipicamente pubbliche, come il controllo doganale e l’organizzazione di rappresentanze diplomatiche operanti in nome e per conto dello Stato di appartenenza[8], fino all’amministrazione delle colonie stesse.[9] Secondo gli studi effettuati dall’UNCTAD, attualmente opererebbero nel mondo più di 80.000 imprese multinazionali con più di 900.000 società in posizione sussidiaria con sede principale in Europa, Stati Uniti e Giappone.[10] Considerando l’aspetto occupazionale, le multinazionali generano oltre 80.000.000 di posti di lavoro, con un significativo aumento nel settore dei servizi e delle attività industriali tecnologiche. Le imprese multinazionali sulla scia dell’Agenda 21, la Dichiarazione di Johannesburg relativa allo sviluppo sostenibile[11] ed il Plan of Implementation[12], hanno tracciato un percorso di rinsaldamento dei principi di uguaglianza e sostenibilità a cui le multinazionali devono tendere costantemente.

A questo punto, appare evidente come le imprese multinazionali o transnazionali costituiscano la principale forza operante nel settore dell’integrazione economica, con il riconoscimento da parte dei Paesi ospiti, del beneficio apportato nel proprio tessuto economico dagli investimenti effettuati dalle stesse, in termini di lavoro, incremento del Prodotto Interno Lordo e trasferimento di conoscenze tecnologiche.

La comunità internazionale ha tentato di porre un argine allo strapotere delle multinazionali, elaborando standard etici di condotta da implementare negli assetti di corporate governance, senza tuttavia riuscire a dotarli di quella coattività necessaria ad assicurarne il rispetto e ad ostacolare la commissioni di gravi violazioni dei diritti umani ai danni della popolazione residente o dei diritti dei lavoratori impiegati negli stabilimenti delle multinazionali.

A tal proposito, sono divenuti tristemente famosi con ampio risalto nelle cronache di tutto il mondo, i casi Drummond[13] e Del Monte[14]accusate di complicità nella commissione di violazioni dei diritti sindacali dei lavoratori, senza dimenticare la Texaco, impresa petrolifera statunitense, condannata dai tribunali dell’Ecuador al maxi-risarcimento di 18 miliardi di dollari per la sua opera di deforestazione e sversamento di rifiuti industriali nelle falde acquifere. Questi casi citati, sono solo alcuni dei numerosi casi di aperte violazioni del diritto internazionale ed inosservanza degli standard posti a tutela dei lavoratori e dell’ambiente di cui le multinazionali si sono rese artefici o complici. Attribuire diritti  ed obblighi alle imprese multinazionali, rappresenterebbe il primo passo per il riconoscimento in capo alle stesse dello status di soggetto del diritto internazionale. Inoltre, la dottrina favorevole al riconoscimento di una soggettività internazionale, non ha mancato di portare a supporto della sua teoria, argomenti quali la circostanza che le imprese multinazionali siano costantemente destinatarie di linee guida, codici di condotta, raccomandazioni e rapporti elaborati da organizzazioni internazionali, la cui opera è espressamente dedicata alla regolamentazione della loro attività. Il fulcro del ragionamento è rappresentato dal fatto che, la soggezione delle multinazionali alle norme di diritto internazionale, soprattutto a quelle concernenti la tutela dei lavoratori e la difesa dell’ambiente, consentirebbe alle organizzazioni internazionali di dotare di forza vincolante le disposizioni rivolte direttamente alle multinazionali, riuscendo laddove fino ad ora, esse hanno sempre fallito.

  1. Il ruolo dell’’Organizzazione Internazionale del Lavoro

A partire dagli anni Settanta, l’impatto delle imprese multinazionali sulla politica sociale e sul lavoro è stato oggetto di analisi approfondite da parte dell’International Labour Organization (OIL).

Nel 1977, il Consiglio di Amministrazione dell’OIL adottò la Dichiarazione Tripartita di Principi sulle Imprese Multinazionali e la Politica Sociale[15], contenenti una serie di dichiarazioni di principio e convenzioni internazionali in materia di lavoro che le parti sociali sono espressamente invitate a rispettare e ad applicare in tutta la loro estensione applicativa. In particolare, un altro testo di rilievo adottato dall’OIL nel 1998, ovvero la Dichiarazione sui principi e i diritti fondamentali dei lavoratori[16], la quale enucleava quattro principi fondamentali nelle relazioni lavorative, quali la libertà di associazione ed il riconoscimento del diritto alla contrattazione collettiva, l’eliminazione di qualsiasi forma di lavoro forzato o obbligatorio, l’abolizione del lavoro minorile e l’eliminazione di ogni forma di discriminazione. Questi principi, vennero qualificati nel corso del Summit di Copenaghen del 1995 come “core labour standards” e furono recepiti nella Dichiarazione Tripartita, caratterizzata da portata universale, per essere destinati ad orientare la condotta delle imprese multinazionali, degli imprenditori e dei governi in temi assoluto rilievo quali l’occupazione, la formazione dei lavoratori, le condizioni di lavoro e di vita e le relazioni industriali.

Il preambolo della Dichiarazione Tripartita, esorta le imprese ad offrire il proprio contributo al progresso economico e sociale, nonché a ridurre e risolvere le difficoltà che le loro operazioni possono creare. Le imprese, infatti, grazie ai loro ingenti investimenti, possono apportare benefici agli home and host Countries, utilizzando in modo efficace il capitale, la manodopera e la tecnologia. Anche i principi contenuti nella Tripartita, sono applicabili esclusivamente su base volontaria da  parte dei governi e delle organizzazioni dei lavoratori cui sono destinati.

Dal punto di vista strutturale, la Dichiarazione consta di 59 paragrafi, suddivisi in un Preambolo e 5 sezioni speciali, la prima generale e le restanti dedicate a tematiche specifiche.

Nella Prima parte, intitolata Politica Generale, è contenuta la dichiarazione secondo cui le parti interessate sono tenute a rispettare la legislazione ed i regolamenti nazionali insieme ai diritti sovrani degli Stati, oltre ai principi della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’uomo e dei Patti delle Nazioni Unite. Inoltre viene consigliato ai governi di ratificare le Convenzioni OIL o di applicare in altro modo i principi in esse contenuti; mentre ai Paesi di origine delle multinazionali è riconosciuto un dovere di promozione delle best practices, ovunque esse operino. La seconda sezione, dedicata all’Occupazione, rinvia direttamente all’osservanza delle risultanze della Conferenza Mondiale Tripartita sull’occupazione, la ripartizione del reddito, il progresso sociale e la divisione internazionale del lavoro, che stabiliscono di incentivare la crescita occupazionale e lo sviluppo economico, elevando le condizioni di vita dei lavoratori attraverso una politica attiva tesa al raggiungimento del pieno impiego.

La terza sezione, relativa ai temi della Formazione, contiene l’invito rivolto alla multinazionali affinché intraprendano programmi di orientamento professionale, partecipando al finanziamento di fondi e progetti diretti ad acquisire ed accresce la qualificazione professionale. I principi stabiliti nella quarta sezione riguardano le Condizioni di vita e di lavoro, attraverso cui si raccomanda l’equiparazione del trattamento economico dei dipendenti dell’impresa a quello dei lavoratori di pari livello impiegati nelle aziende locali[17]. Nel caso in cui non esistano datori di lavoro da utilizzare come termine di paragone, dovrebbero essere accordati i salari più favorevoli e le migliori prestazioni economiche possibili, basandosi sulla situazione economica e finanziaria dell’impresa. Per quanto concerne l’età di accesso al mondo del lavoro, si invitano le imprese a rispettare le legislazioni nazionali adoperandosi per la definitiva eliminazione del lavoro minorile. Nell’ultima sezione, dedicata alle Relazioni Industriali, viene stabilito che l’impresa deve assicurare ai suoi dipendenti, standard di tutela dei diritti sociali in misura non inferiore a quelli vigenti a livello locale. Ai lavoratori, inoltre, deve essere riconosciuta la possibilità di aderire ad organizzazioni rappresentative senza temere ripercussioni discriminatorie nei loro confronti. La Dichiarazione Tripartita, stante la non vincolatività dei principi in essa espressi, prevede una procedura articolata di follow-up, idonea a verificare la conformità dei comportamenti adottati dalle multinazionali con gli standard stabiliti. Organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro, sono tenute a presentare dei rapporti periodici relativi all’attuazione dei principi della Tripartita a livello nazionale da parte dei Governi e delle imprese multinazionali, ponendo l’accento sulla necessaria cooperazione tra Governi, organizzazioni imprenditoriali e rappresentative dei lavoratori ed operando un rinvio alle leggi nazionali ed alle politiche sociali nazionali, in un’ottica di integrazione dell’impresa nel tessuto economico dello Stato in cui svolge la propria attività. Le criticità più evidenti, sono rappresentate dalla carenza di un efficace sistema di vigilanza e controllo oltre che dalla consueta assenza di vincoli giuridici. Tuttavia, la generale applicazione dei principi della Dichiarazione Tripartita sembra possa essere raggiunta non solo mediante procedure di monitoraggio, ma anche attraverso l’attività di promozione svolta dalle associazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro, tesa a creare obblighi per le imprese nei confronti dei loro dipendenti, senza dimenticare l’influenza esercitata sui Governi, che in molti casi ha portato gli stessi a riformulare radicalmente alcuni standard in conformità a quanto stabilito dalla Dichiarazione stessa.

  1. La strategia di CSR nell’Unione Europea

L’unione Europea ha iniziato ad occuparsi delle tematiche inerenti alla Responsabilità Sociale di Impresa, con colpevole ritardo, solo agli inizi degli anni Novanta[18], quando il Presidente della Commissione Jacques Delors presentò il Manifesto delle imprese contro l’esclusione sociale. Attraverso tale iniziativa le imprese manifestavano la propria volontà ad impegnarsi nel rafforzare la propria responsabilità sociale, combattendo l’emarginazione derivante dalla disoccupazione. Questo progetto, fu sottoscritto a Londra nel 1995 dagli Stati membri, richiamandosi esplicitamente al Libro bianco Crescita, competitività ed occupazione. La  pubblicazione del Libro Bianco determinò la nascita di CSR-Europe, un vero e proprio network di oltre settanta imprese multinazionali e trentasei organizzazioni partner, con lo scopo di assistere le compagnie operanti in Europa nello sviluppo di una competitività sostenibile, in ottemperanza ai diritti fondamentali della persona. Nel 1999 il Parlamento europeo adottò una Risoluzione denominata Howitt riguardanti le norme comunitarie applicabili alle imprese europee con stabilimenti situati in Paesi in via di sviluppo[19]. Attraverso tale Risoluzione si mirava  ad approvare ed incentivare iniziative volontarie di imprese ed associazioni rappresentative degli interessi dei vari stakeholder, dirette ad elaborare codici di condotta e meccanismi di controllo per garantirne l’attuazione. Tale atto, reca con sé elementi di assoluta unicità, come l’invito alla creazione di un organismo di controllo e monitoraggio imparziale ed autonomo, con il riconoscimento internazionale da parte di OCSE ed OIL, competente a ricevere reclami da parte di ONG, rappresentanti dei lavoratori ed associazioni di consumatori, circa le violazioni commesse dalle imprese in materia di diritti umani fondamentali. Per quanto innovativa, la proposta del parlamento, pecca di eccessiva genericità, in quanto non definisce il rapporto che doveva intercorrere tra questo organismo di controllo indipendente ed i tribunali nazionali, ingenerando confusione sotto il profilo della competenza giurisdizionale. Il tema della Responsabilità sociale tornò al centro del dibattito europeo nel corso del Consiglio di Lisbona del 2000, durante il quale fu sollevata da più parti la necessità di responsabilizzare le imprese come parte integrante del piano UE che prevedeva entro il 2010 di diventare l’economia più competitiva e dinamica nel mondo, capace di crescere in modo sostenibile, creando migliori condizioni di lavoro ed una maggiore coesione sociale.[20] Per il raggiungimento di questi obiettivi, fu avanzato il proposito di migliorare le legislazioni esistenti, inserendo un nuovo sistema di coordinamento idoneo a diffondere le best practices nel mondo imprenditoriale: una sorta di partnership tra gli Stati membri, gli organi dell’Unione e le parti sociali. Questo sistema di coordinamento, fu istituzionalizzato con l’introduzione del Titolo VIII all’interno del Trattato di Amsterdam.[21]

Il sistema di armonizzazione tra differenti regolamentazioni nazionali, subì un’accelerazione nella sua istituzionalizzazione a seguito dell’adozione del Trattato di Nizza, in particolare grazie all’art. 137, paragrafo 2, che attribuì al Consiglio il potere di adottare misure destinate ad incoraggiare la cooperazione tra Stati membri, stimolando gli scambi informativi e le valutazioni delle esperienze fatte. Si assiste così alla nascita di un approccio differente da parte dell’Unione nei confronti delle tematiche relative all’occupazione, una politica sociale di inclusione orientata a favorire una maggiore integrazione europea, attraverso interventi mirati e coordinati a livello normativo ed amministrativo senza dover necessariamente passare per una difficile, ed a tratti inattuabile, politica di armonizzazione legislativa complessiva. A partire dal vertice di Lisbona, l’UE ha incardinato le politiche nazionali verso la realizzazione di obiettivi comuni, riconoscendo l’importanza del ruolo delle imprese nell’attuazione degli stessi.

 

[1] F. BORGIA, La responsabilità sociale delle imprese multinazionali, cit., p. 70 e 71.

[2] Cfr. F. BORGIA, Strumenti internazionali in materia di responsabilità sociale d’impresa, Milano, 2012.

[3] C. COWTON, R. CRISP, Business Ethics, Oxford, 1998, p. 43 ss.

[4] F. MARRELLA, Regolamentazione internazionale e responsabilità sociale d’impresa nel diritto internazionale, in Diritti umani e diritto internazionale, 2009, p. 229, ha descritto questo fenomeno come <<shopping dei diritti umani>>

[5] COMMISSIONE DELLE COMUNITA’ EUROPEE, Libro Verde. Promuovere un quadro europeo per la responsabilità sociale delle imprese, COM (2001) 366 definitivo, Bruxelles, del 18 luglio 2001, p. 7

[6] Per soft law devono intendersi regole sociali elaborate dagli Stati o da altri soggetti di diritto internazionale che si caratterizzano per la loro non vincolatività, pur avendo uno speciale rilievo giuridico. Definizione di D. THURER, voce Soft Law, in The Max Planck Encyclopedia of Public International Law, Oxford, 2012, p. 269 ss.

[7] Sull’argomento, si veda P. J. MCNULTY, Predecessor of Multinational Corporations, in Columbia Journal of World Business, 1972, p. 73 ss.

[8] F. FRANCIONI, Imprese multinazionali, Protezione diplomatica e Responsabilità internazionale, op. cit., p. 9 e 10.

[9] Cfr. S. R. RATNER, Corporations and Human Rights: A Theory of Legal Responsibility, in Yale Law Journal, 2001 p. 453.

[10] Dati tratti da UNCATD, World Investment Report 2012. Towards a New Generation of Investment Policies

[11] UNITED NATIONS, Johannesburg Declaration on Sustainable Development, adottata in data 4 settembe 2002

[12] Cfr. Johannesburg Plan of Implementation of the World Summit on Sustainable Development

[13] UNITED STATES COURT OF APPEAL FOR THE ELEVENTH CIRCUIT, Locarno Baloco et al.  V. Drummond Company, Inc., No. 09-16216, del 3 febbraio 2011. La compagnia venne accusata di gravi violazioni dei diritti sindacali nelle proprie facilities colombiane, oltre che dell’uccisione di tre leaders sindacali

[14] UNITED STATES COURT OF APPEAL FOR THE ELEVENTH CIRCUIT, Villeda Aldana et al. V Del Monte Fresh Produce, Inc., 04-10234, dell’8 luglio 2005

[15] INTERNATIONAL LABOUR ORGANIZATION, Tripartite Declaration of Principles Concerning Multinational Enterprises and Social Policy, adottata a Ginevra in data 16 novembre 1997 ed emendata nel novembre del 2000 e del 2006, testo disponibile su www.ilo.org

[16] INTERNATIONAL LABOUR ORGANIZATION, Declaration on Fundamental Priciples and Rights to Work, adottata a Ginevra in data 18 giugno del 1998, testo reperibile in International Legal Materials, 1998, p. 1233 ss.

[17] Secondo A. BONFANTI, Imprese multinazionali, diritti umani e ambiente. Profili di diritto internazionale pubblico e privato, p. 179, tale disposizione potrebbe non risultare funzionale alla tutela dei lavoratori

[18] Per quanto riguarda le iniziative dell’UE in materia di Rsi, si vedano A. MEISLING, J. LUX, S. SKADEGARD, The European Initiatives, in R. MULLERAT (ed.), Corporate Social Responsibility. The Corporate Governance of the 21st Century, International Bar Association Series, The Hague, 2005

[19] PARLAMENTO EUROPEO, Risoluzione sulle norme comunitarie applicabili alle imprese europee che operano nei Paesi in via di sviluppo: verso un codice di condotta europeo, adottata in data 15 gennaio 1999, in GUCE, p. 180 ss

[20]CONSIGLIO EUROPEO DI LISBONA, Conclusioni della Presidenza, Lisbona, 23.24 marzo 2000

[21]Cfr. Art. 2 e Art. 127 TCE. Venne creato un comitato per l’occupazione con funzioni consultive