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Politica attiva del lavoro e contrasto alla povertà. Il Reddito di Cittadinanza

  1. Normativa, definizione, funzionamento del Reddito di Cittadinanza e della Pensione di Cittadinanza

Il Reddito di cittadinanza è stato presentato come una delle principali rivoluzioni sociali nelle strategie di sostegno al reddito e contrasto alla povertà.

Ormai a 4 anni dall’entrata in vigore di questa misura è interessante procedere ad una riflessione sull’istituto.

Se ci connettiamo utilizzando il seguente link https://www.redditodicittadinanza.gov.it/,  in apertura così si legge “Se sei momentaneamente in difficoltà, il Reddito di cittadinanza ti aiuta a formarti e a trovare lavoro permettendoti così di integrare il reddito della tua famiglia.
Il Reddito di cittadinanza ha inoltre l’obiettivo di migliorare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, aumentare l’occupazione e contrastare la povertà e le disuguaglianze.”

E ancora, in risposta alla domanda Cos’è il Reddito di cittadinanza?, si legge: “Integrazione al reddito: Il Reddito di cittadinanza è una misura di politica attiva del lavoro e di contrasto alla povertà, alla disuguaglianza e all’esclusione sociale. Si tratta di un sostegno economico ad integrazione dei redditi familiari; Patti per il lavoro: Il Reddito di cittadinanza è associato ad un percorso di reinserimento lavorativo e sociale, di cui i beneficiari sono protagonisti sottoscrivendo un Patto per il lavoro o un Patto per l’inclusione sociale. Percorsi personalizzati: Come stabilito dal DL 4/2019, i cittadini possono richiederlo a partire dal 6 marzo 2019, obbligandosi a seguire un percorso personalizzato di inserimento lavorativo e di inclusione sociale.”

Occorre prendere le mosse dal decreto legge n. 4 del 2019 che ha introdotto gli istituti del Reddito e della Pensione di Cittadinanza, quali “misure fondamentali di politica attiva del lavoro e di contrasto alla povertà, alla disuguaglianza e all’esclusione sociale, con decorrenza 1° aprile 2019”, andando in tal modo a prendere il posto della precedente misura nota come Reddito di inclusione (Rei).

Si presenta, quindi, come” uno strumento che mira non solo ad integrare il reddito”, ma anche “a garantire ulteriori finalità inclusive, quali ad esempio favorire il diritto all’informazione, all’istruzione, alla formazione e alla cultura, attraverso politiche volte al sostegno economico e all’inserimento sociale dei soggetti a rischio di emarginazione nella società e nel mondo del lavoro”.

La normativa precisa che se il nucleo familiare beneficiario della misura è composto esclusivamente da uno o più componenti di età pari o superiore a 67 anni la misura prende il nome di Pensione di Cittadinanza.

La legge di bilancio 2022 ha in parte modificato la previgente normativa, andando, fra le altre cose, a configurare il RdC come “sussidio di sostentamento per le persone comprese nell’elenco dei poveri, con la conseguente impignorabilità”.

Con riferimento ai requisiti, la legge prevede il possesso di requisiti legati alla residenza, requisiti reddituali e patrimoniali.

Entrando nello specifico, con riferimento ai Requisiti di cittadinanza, residenza e soggiorno, il richiedente deve essere cittadino maggiorenne in una delle seguenti condizioni:

  • italiano o dell’Unione Europea;
  • cittadino di Paesi terzi in possesso del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo, o apolide in possesso di analogo permesso;
  • cittadino di Paesi terzi familiare di cittadino italiano o comunitario – come individuato dall’articolo 2, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 6 febbraio 2007, n. 30 – titolare del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente;
  • titolare di protezione internazionale.

È, inoltre, necessario essere residente[1] in Italia per almeno 10 anni, di cui gli ultimi due in modo continuativo.

Con riferimento ai Requisiti economici, il nucleo familiare[2] deve essere in possesso di:

  • un valore ISEE inferiore a 9.360 euro (in presenza di minorenni, si considera l’ISEE per prestazioni rivolte ai minorenni);
  • un valore del patrimonio immobiliare in Italia e all’estero, diverso dalla casa di abitazione, non superiore a 30.000 euro;
  • un valore del patrimonio mobiliare non superiore a 6.000 euro per il single, incrementato in base al numero dei componenti della famiglia (fino a 10.000 euro), alla presenza di più figli (1.000 euro in più per ogni figlio oltre il secondo) o di componenti con disabilità (5.000 euro in più per ogni componente con disabilità e euro 7.500 per ogni componente in condizione di disabilità grave o di non autosufficienza);
  • un valore del reddito[3] familiare inferiore a 6.000 euro annui, moltiplicato per il corrispondente parametro della scala di equivalenza (pari ad 1 per il primo componente del nucleo familiare, incrementato di 0,4 per ogni ulteriore componente maggiorenne e di 0,2 per ogni ulteriore componente minorenne, fino ad un massimo di 2,1, ovvero fino ad un massimo di 2,2 nel caso in cui nel nucleo familiare siano presenti componenti in condizione di disabilità grave o di non autosufficienza, come definite ai fini dell’ISEE). Tale soglia è aumentata a 7.560 euro ai fini dell’accesso alla Pensione di cittadinanza. Se il nucleo familiare risiede in un’abitazione in affitto, la soglia è elevata a 9.360 euro[4].

La legge prevede altresì che “è’ causa ostativa al beneficio la condizione dell’essere sottoposto a misura cautelare personale, anche adottata a seguito di convalida dell’arresto o del fermo, nonché esser stato condannato in via definitiva, nei dieci anni precedenti la richiesta, per i delitti previsti dagli articoli 270-bis, 280, 289-bis, 416-bis, 416-ter, 422 e 640-bis del codice penale, per i delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto articolo 416-bis ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo.”.

Il Legislatore ha precisato che il RdC è “compatibile con il godimento della NASpI (Nuova Assicurazione Sociale per l’Impiego), DIS-COLL (indennità di disoccupazione per i lavoratori con rapporto di collaborazione coordinata) e di altro strumento di sostegno al reddito per la disoccupazione involontaria. L’importo dell’assegno è determinato tenendo conto attraverso una scala di equivalenza del numero di componenti il nucleo familiare”[5].

La legge stabilisce  l’importo[6]  del beneficio e precisa che lo stesso possa essere percepito per un periodo di diciotto mesi, rinnovabile a condizione che lo stesso venga sospeso[7] per un mese.  Si prevede, inoltre, la sospensione dell’erogazione del reddito o della pensione di cittadinanza a seguito di specifici provvedimenti dell’autorità giudiziaria penale.

 Lo strumento di erogazione del beneficio economico è la cd. Carta[8] Rdc , che può essere utilizzata “sia  per soddisfare le esigenze previste per la carta acquisti,  sia per prelevare contante entro un limite mensile non superiore a 100 euro per un individuo singolo, sia per effettuare il bonifico mensile in favore del locatore indicato nel contratto di locazione ovvero dell’intermediario che ha concesso il mutuo nel caso delle integrazioni previste dal presente provvedimento per i nuclei familiari residenti in abitazione in locazione o in proprietà”.

Il Ministero precisa che “l’erogazione del Reddito di cittadinanza è subordinata alla dichiarazione, da parte dei componenti[9] il nucleo familiare maggiorenni, di immediata disponibilità al lavoro – che, come specificato dalla legge di bilancio 2022, si configura anche in caso di domanda da parte dell’interessato all’INPS -, nonché alla sottoscrizione, da parte dei medesimi, di un Patto per il lavoro ovvero di un Patto per l’inclusione sociale (nel caso in cui, rispettivamente, i bisogni del nucleo familiare e dei suoi componenti siano prevalentemente connessi alla situazione lavorativa ovvero siano complessi e multidimensionali). La legge di bilancio 22 specifica che tali Patti prevedano necessariamente la partecipazione periodica dei beneficiari ad attività e colloqui da svolgersi in presenza”.

E ancora “tra gli obblighi in capo al beneficiario vi è quello di accettare almeno una di due offerte di lavoro[10] congrue (come disposto dalla legge di bilancio 2022, in luogo delle tre originariamente previste), definite tali sulla base di criteri temporali e di distanza (che diventano meno selettivi in relazione al numero di offerte rifiutate).  La legge di bilancio 2022 ha specificato che “la ricerca attiva del lavoro – condizione necessaria per la fruizione del RdC – è verificata presso il centro per l’impiego in presenza, con frequenza almeno mensile; in caso di mancata presentazione senza comprovato giustificato motivo si applica la decadenza dal beneficio”.

Nelle ipotesi di violazione degli obblighi che scaturiscono dal riconoscimento e godimento del RdC  il Legislatore ha disciplinato diverse sanzioni, graduate in base alla natura della violazione sino a configurare, nei casi più gravi, la pena della reclusione fino a sei anni.

Il Legislatore per incentivare l’occupazione dei percettori di RdC ha previsto diversi  incentivi[11] “(consistenti nell’esonero dal versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali a carico del datore di lavoro e del lavoratore fino ad un massimo di 780 euro mensili) a favore dei datori di lavoro privati e degli enti di formazione accreditati per le assunzioni, come disposto dalla legge di bilancio 2022, a tempo indeterminato, pieno o parziale, o determinato o anche mediante contratto di apprendistato, di soggetti beneficiari del Reddito di cittadinanza, nonché in favore dei beneficiari del Rdc che avviano un’attività lavorativa autonoma o di impresa individuale o una società cooperativa entro i primi 36 mesi di fruizione del RdC”.

La legge di bilancio 2022 riconosce alle Agenzie per il lavoro il 20 per cento dell’incentivo previsto per ogni soggetto assunto a seguito di specifica attività di mediazione.  

L’art. 8, comma 4, del D.L. 4/2019 riconosce ai beneficiari del Rdc “un beneficio addizionale (in un’unica soluzione) corrispondente a sei mensilità di RdC (nel limite massimo di 780 euro mensili) nel caso di avvio di un’attività lavorativa autonoma o di impresa individuale o una società cooperativa entro i primi 12 mesi di fruizione del RdC. In attuazione della citata disposizione, il DM 12 febbraio 2021 ha disciplinato le modalità di richiesta e di erogazione ai beneficiari del reddito di cittadinanza di tale beneficio addizionale”.

Il Ministero in materia di compatibilità del RdC con altri istituti di supporto al reddito del nucleo familiare (si pensi alla NASpI e alla DIS-COLL) ha previsto che “non vi è incompatibilità mentre in linea di massima comportano un taglio dell’importo del RdC tutti i benefici già percepiti che richiedono la prova dei mezzi (il calcolo dell’ISEE o la valutazione del reddito) e che quindi aumentano il reddito disponibile del nucleo familiare. Per espressa previsione normativa, il cd bonus bebè rimane escluso dalle prestazioni che comportano la suddetta riduzione”.

Sembrerebbe dalla lettura della normativa che l’istituto del reddito di cittadinanza sia uno strumento di rafforzamento delle politiche attive del lavoro, valorizzando il reinserimento occupazionale e la premialità nei casi di avvio di una attività lavorativa autonoma o di una impresa individuale o una società cooperativa entro i primi 36 mesi di fruizione del Reddito di Cittadinanza.

Da qui, proprio per  favorire il reinserimento occupazionale dei beneficiari di Rdc, si prevede l’adozione di un Piano straordinario di potenziamento dei centri per l’impiego e delle politiche attive del lavoro, triennale e aggiornabile annualmente, che “individua specifici standard di servizio per l’attuazione dei livelli essenziali delle prestazioni in materia e i connessi fabbisogni di risorse umane e strumentali delle regioni e delle province autonome, nonché obiettivi relativi alle politiche attive del lavoro in favore dei beneficiari del RdC”[12].

E’ importante in questa sede fare un accenno alle risorse impiegate per mettere a fuoco la portata del Reddito e della Pensione di Cittadinanza:  la legge di bilancio 2020 (art. 1, c. 479-481) ha stanziato un importo complessivo pari a 40 milioni di euro dal 2020[13], stanziamento ulteriormente incrementato di 1.210 mln di euro per il 2021 (di cui 1.010 mln dall’art. 11 del D.L. 41/021 e 200 mln dall’art. 11, c. 13, del D.L. 146/2021)[14].

Si può concludere che si è trattato sicuramente di un importante investimento nel welfare e che le aspettative generate dall’istituto del Reddito e della Pensione di Cittadinanza sono state sicuramente alte, non solo in termini di integrazioni del reddito delle famiglie, ma anche e soprattutto in termini di reinserimento lavorativo.

C’è da chiedersi se e in che misura ha avuto luogo il reinserimento lavorativo e il supporto dato con gli strumenti per affrontare le varie vulnerabilità, al fine di valutare le misure attivate in maniera complessiva.

  1. Osservazioni

Molto si è detto sul reddito di cittadinanza. L’intervento di sostegno, soprattutto se visto alla luce degli ultimi eventi mondiali quali la Pandemia Covid-19, sicuramente deve essere considerato uno strumento che ha sostenuto e supportato nuclei familiari resi maggiormente vulnerabili dalle conseguenze della Pandemia.

Tuttavia, non è possibile non metter in evidenza alcuni rilievi.

Il primo: i cosiddetti PUC “Progetti di Utilità Collettiva”[15], strumento pensato affinchè il nucleo percettore, salvo i casi di esonero possa contribuire alla utilità collettiva, aderendo ai progetti promossi dai Comuni di residenza o da soggetti del terzo settore e svolgere attività a beneficio della comunità per un monte ore compreso far 8 e 16 settimanali.

L’intuizione è positiva. Tuttavia la realtà ne tradisce le finalità e le aspettative.

Andando nel concreto, il PUC può essere attivato dall’Ambito Territoriale Sociale, in caso di delega da parte dei Comuni aderenti, ovvero dai Servizi Sociali o, ancora, dai Centri per l’Impiego.

In primo luogo si osserva un ritardo generalizzato nello svolgimento dei colloqui con i beneficiari, il che ha comportato che l’abbinamento dei beneficiari ai Puc, in molti casi, è avvenuto e avviene quando il beneficio è già percepito da diversi mesi e, in alcuni casi, è persino in scadenza.

Inoltre, si è registrata una tendenza diffusa da parte dei beneficiari a produrre giustificativi che comportano l’esonero dallo svolgimento del Puc.

Pertanto, a fronte di numerosi nuclei che beneficiano della misura nelle comunità, di fatto è possibile affermare che solo una minima parte dei nuclei percettori ha contribuito e contribuisce alla utilità collettiva.

E questo dato ha generato un doppio effetto boomerang: da un lato chi percepisce e contribuisce con il PUC si chiede perché solo in pochi lo facciano; dall’altro la misura viene percepita dalla sensibilità collettiva come un dare un sostegno economico a singoli, senza che la collettività ne benefici.

Bisognerebbe probabilmente rivedere il meccanismo di funzionamento dei PUC, per esempio riconoscendo direttamente ai Comuni la possibilità di effettuare l’abbinamento ai propri progetti dei cittadini residenti che percepiscano il Reddito di Cittadinanza e non rientrino nella casistica di esonero.

Regione Puglia ha sostenuto nuclei tramite la misura del RED “Reddito di Dignità”[16], che si basa sullo svolgimento di un tirocinio da parte del beneficiario documentato e rendicontato al fine di ottenere l’erogazione del beneficio economico, prevedendo delle ipotesi di esonero dallo svolgimento del tirocinio, ma solo in casi particolari.

Di fatto, nel caso del RED, la maggior parte dei percettori ha svolto il tirocinio al fine di ottenere il beneficio, cosa che ha generato soddisfazione in chi ha percepito il beneficio, in quanto valorizzato nelle sue abilità e, al contempo, ha generato feedback positivi nella comunità che vede il contributo dato dai percettori della misura al bene comune.

Senza correre il rischio di cadere in sterili generalizzazioni, è significativo esaminare alcuni numeri pubblicati dall’Osservatorio Inps sul Reddito di cittadinanza non è possibile non fare alcune considerazioni.

L’Osservatorio Inps ha riportato i dati aggiornati al 15 aprile 2022, relativi ai nuclei percettori di RdC e PdC negli anni 2019-2022.

“I dati relativi ai primi tre mesi del 2022 riferiscono di 1.473.045 nuclei percettori di almeno una mensilità di RdC/PdC, con 3.267.007 persone coinvolte e un importo medio erogato a livello nazionale di 559,09 euro.

Tra gennaio e marzo 2022 è stato revocato il beneficio a 18.369 nuclei e sono decaduti dal diritto 144.586 nuclei.

marzo 2022 i nuclei beneficiari di Reddito di Cittadinanza sono 1.054.375 (91%) mentre i nuclei beneficiari di Pensione di Cittadinanza sono 98.845 (9%), per un totale di 1.153.220 nuclei.

Tale composizione varia in virtù della zona geografica: i nuclei percettori di RdC, rispetto ai nuclei percettori di PdC, hanno un peso minore nelle regioni del Nord, maggiore al Centro e soprattutto nel Sud e Isole.”.

Di fatto, osservando le percentuali di distribuzione di numero di nuclei richiedenti RDC/PDC per anno e per Regione, emergono i seguenti dati:

AREA GEOGRAFICA

ANNO 2019

ANNO 2020

ANNO 2021

ANNO 2022

NORD

28,2%

25,8%

27,1%

22%

CENTRO

16,3%

16,3%

17,3%

16%

SUD E ISOLE

55,5%

58%

55,6%

62%

Non si rileva invece molta differenza nell’importo medio mensile che di fatto per l’Italia si attesta sui €.553,68, come da Tavola 1.2 del dossier Reddito/pensione di cittadinanza- Osservatorio Statistico, pubblicato dall’Inps lo scorso 14.06.2022[17], come da Tavola sottostante che si riporta qui di seguito:

Regione e
Area geografica

Anno 2021
(Gennaio – Dicembre)

Anno 2022
(Gennaio – Maggio)

Numero
nuclei

Numero persone coinvolte

Importo
medio
mensile

Numero
nuclei

Numero persone coinvolte

Importo
medio
mensile

Piemonte

98.248

195.481

513,68

82.390

160.497

521,92

Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste

1.560

3.035

415,24

1.159

2.111

426,87

Lombardia

157.991

324.081

472,75

121.022

246.320

480,69

Trentino-Alto Adige/Südtirol

6.395

14.759

384,15

5.149

11.524

415,81

Veneto

48.292

97.252

436,79

38.571

74.158

454,07

Friuli-Venezia Giulia

15.764

28.385

427,63

13.167

22.528

433,30

Liguria

37.117

70.724

491,88

30.230

56.217

494,05

Emilia-Romagna

58.045

119.995

447,58

47.402

93.333

462,58

Toscana

60.285

124.562

464,73

49.176

97.159

476,31

Umbria

17.389

35.953

501,10

14.227

28.623

502,35

Marche

22.838

48.415

464,37

18.603

37.914

479,01

Lazio

187.475

378.786

526,21

165.620

327.252

530,16

Abruzzo

33.916

69.623

516,20

29.617

59.030

523,73

Molise

9.282

18.949

522,94

7.948

16.105

527,27

Campania

360.178

922.584

618,34

329.564

831.982

620,29

Puglia

157.090

362.634

551,12

142.679

324.817

553,97

Basilicata

14.362

28.662

490,81

12.960

25.398

507,11

Calabria

111.369

249.934

542,19

101.007

224.719

550,73

Sicilia

308.198

733.419

595,09

285.620

670.774

599,94

Sardegna

65.741

128.918

515,04

58.924

113.301

517,69

Italia

1.771.535

3.956.151

546,17

1.555.035

3.423.762

553,68

Nord

423.412

853.712

473,75

339.090

666.688

483,59

Centro

287.987

587.716

507,28

247.626

490.948

514,13

Sud e Isole

1.060.136

2.514.723

581,61

968.319

2.266.126

586,14

​Il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali [18] ha reso noto che “sono 198mila i percettori di Reddito di cittadinanza che nell’ambito del Programma Garanzia Occupazione Lavoro (GOL) sono stati instradati verso percorsi di inserimento lavorativo e di aggiornamento o riqualificazione delle competenze. Si tratta di circa due terzi del totale dei percettori convocati e che hanno aderito al programma GOL. Sono oltre 47mila invece, i fruitori del reddito per cui è stata individuata e concordata un’attività formativa da svolgere”[19].

Il Ministero ha altresì chiarito[20] che i dati relativi ai beneficiari del Reddito di cittadinanza (RdC) indirizzati ai Servizi per il lavoro al 31 dicembre 2022 si riferiscono ai beneficiari che risultano ancora percepire il beneficio al 31 dicembre 2022 . “Si tratta di una popolazione complessiva di oltre 998mila beneficiari, ovvero oltre 78mila in più rispetto al primo semestre 2022 ma 194mila in meno rispetto a dicembre dell’anno 2021 . Dei 998mila beneficiari al 31 dicembre 2022, il 72,6%, pari a più di 725mila individui, è soggetto alla sottoscrizione del Patto per il lavoro4 . La Tabella 1 indica i dati complessivi e per ripartizione territoriale, mentre i dati per singola regione sono riportati nella Tavola 1 dell’Allegato statistico.”[21].

 Il numero dei beneficiari complessivamente transitati ai Servizi per l’impiego dall’entrata in vigore della legge è pari a poco più di 2milioni 215mila.

“La parte restante di beneficiari si suddivide fra gli esonerati dagli obblighi di condizionalità (il 9,2%), i rinviati ai Servizi sociali (2,4%) e gli individui con una occupazione attiva5 . La quota maggiore di beneficiari si registra nella ripartizione meridionale (46,3%) cui fa seguito l’area delle Isole della quale fa parte un quarto degli individui in misura. Percentuali simili si rilevano anche considerando i soli soggetti al Patto per il lavoro, per i quali, anzi, si rileva una ulteriore accentuazione dei valori: nel Sud sono infatti il 49,3% (oltre 357mila) gli individui che devono sottoscrivere il Patto, mentre nelle Isole tale quota si assesta al 26,8%, valore corrispondente a oltre 194mila beneficiari. Campania e Sicilia sono i due territori che raccolgono la percentuale maggiore di beneficiari con valori rispettivamente del 26,7% e del 22,3%. Nell’insieme, le due Regioni assommano dunque il 49% del totale degli individui in misura ed un altro 23,9% risiede in Puglia, in Calabria e nel Lazio. Il restante 27,1% di beneficiari si suddivide fra le altre 14 Regioni e 2 Province Autonome”[22] .

Tante le riflessioni possibili sul Reddito di Cittadinanza, sia in positivo che in negativo.

Recenti le criticità emerse in sede di Commissione UE con riferimento al requisito previsto dei 10 anni di residenza per i cittadini UE, i lundosoggiornanti extraUE  e i titolari di protezione internazionale, requisito che secondo la Commissione EU “discriminerebbe cittadini Ue, lungosoggiornanti extraUe e titolari di protezione internazionale”, ragion per cui è stata avviata una procedura d’infrazione contro l’Italia, per le motivazioni che si leggono nella  nota della Commissione[23].

E’ evidente che attivare misure di politica attiva di contrasto alla povertà non è facile né immediato.

Tuttavia, non possiamo non rilevare che l’italia si è munita di specifici strumenti ultima insieme alla Grecia[24] per contrastare la povertà, molti anni dopo l’Inghilterra[25], primo Paese a dotarsi di misure in tal senso.

Questo è un primo dato su cui riflettere: il ritardo di anni comporta una situazione molto più complessa da affrontare, peggiorata dalla recente Pandemia Covid e Guerra nella vicina Ucraina.

Il ritardo, tuttavia, non può rappresentare una giustificazione e richiede, al contrario, maggiore prontezza nella misurazione dei risultati concreti che gli strumenti normativi in atto stanno dando, nella consapevolezza che non tutti sono misurabili nel breve tempo.

Se prendiamo in prestito dal premio Nobel Lèvinas il concetto di POVERTA’ il discorso diventa ancora più articolato: dobbiamo misurare non solo i risultati in termini di effettivo inserimento lavorativo dei beneficiari al fine di raggiungere una autonomia tale da non cadere nella trappola dell’assistenzialismo; ci dobbiamo preoccupare di misurare anche i risultati che puntano al superamento delle vulnerabilità e alla possibilità di superare la POVERTA’ intesa in senso lato.

Lo scorso 4 maggio è stato approvato il decreto legge n. 48, recante “Misure urgenti per l’inclusione sociale e l’accesso al mondo del lavoro”.

Urge che i correttivi siano misurati sui reali impatti degli istituti adottati, nello spirito di migliorare le politiche, stante già il ritardo di partenza dell’Italia, evitando il rischio di mettere in atto cambi di strategie dettati talvolta da ragioni che poco hanno a che fare con l’impatto reale sui beneficiari.

Al concetto di POVERTA’  bisogna approcciarsi in maniera multidimensionale e integrata, nella consapevolezza che solo con un approccio di questo tipo si parte dal presupposto che la povertà è la difficoltà di accedere a 4 ordini di beni comuni: materiali, sociali e di salute, educativi ed esistenziali.

Non è errato, come hanno invitato a fare di recente diversi studiosi, rapportarsi alla povertà con un approccio che vede le persone oltre la loro vulnerabilità.

Affrontare la povertà in un binomio indissolubile con il concetto di vulnerabilità permette di spostare il problema sulle interazioni fra la persona e il contesto, e non invece di identificare la povertà con la persona, commettendo l’errore di identificare il problema con la persona in quanto tale.

In tal modo la partecipazione del soggetto vulnerabile al processo di cambiamento diventa l’unica via possibile per il superamento dello stato di povertà: il contributo economico diventa il mezzo degli istituti che il Legislatore introduce, ma il fine resta il cambiamento della singola persona o della famiglia che beneficiano delle misure.

E non sarebbe male, come suggerisce il prof. Andrea Petrella[26], applicare anche alle politiche attive del lavoro  le 6 caratteristiche che Italo Calvino suggerisce nel suo capolavoro “Lezioni americane”: leggerezza, concretezza, molteplicità, visibilità, esattezza e rapidità.

Tradotto in termini semplici una Politica del welfare e del lavoro che sia attenta ad adottare strumenti normativi leggeri (la sottrazione spesso è più efficace dell’addizione), rapidi (capaci di intervenire senza impiegare tempi troppo lunghi di reazione che rischiano di essere anacronistici), esatti (tramite un linguaggio preciso, un disegno ben definito e lungimirante), visibili (adottando azioni di promozione, riconoscimento e informazione), molteplici (avendo a cuore la multidisciplinarità, la multidimensionalità e la multiprofessionalità), concreti, con un ancoraggio ai territori e capaci di cogliere le peculiarità delle diverse realtà.

E’ del 4 settembre u.s. il decreto n.272 che prevede, fra le altre disposizioni, che “le coperture assicurative per la partecipazione ai PUC sono state estese ai beneficiari Rdc che abbiano terminato il periodo di erogazione del Reddito di cittadinanza nel 2023 che aderiscono volontariamente ai PUC per un periodo massimo di sei mesi e ai beneficiari del Supporto formazione lavoro che partecipino volontariamente ai PUC nelle more della definizione del decreto di cui all’articolo 6 comma 5-bis del decreto-legge 4 maggio 2023, n. 48[27].”.

La nuova misura SFL (Supporto Formazione e Lavoro) prevista dall’art. 6, comma 5 bis del DL 48/23 mette il contributo economico in stretta correlazione allo svolgimento di attività di qualificazione e formazione, compresa la partecipazione ai PUC.

Sarà il tempo che ci permetterà di osservare gli effetti e le ricadute che i nuovi istituti avranno sulla realtà nella lotta alla povertà intesa come vulnerabilità non solo economica ma anche sociale e, conseguentemente, esistenziale.

Nel frattempo ricordiamo di avere 2 pilastri infallibili cui ispirarci sempre: l’art. 1 e l’art. 3 della nostra Carta Costituzionale. Il lavoro come pilastro della democrazia e l’uguaglianza perché tutti possano contribuire alla crescita economica e spirituale della nostra democrazia.

Ripartire dalle fondamenta della nostra Costituzione è una garanzia perché il Legislatore abbia a cuore la crescita della comunità e della democrazia, spesso messe a dura prova in questi tempi.

 

[1] Con riferimento alla verifica dei requisiti di residenza e di soggiorno da parte dei comuni, la legge di bilancio 2022 prevede che “essi effettuino a campione, all’atto della presentazione dell’istanza, verifiche sostanziali e controlli anagrafici sulla composizione del nucleo familiare dichiarato nella domanda per l’accesso al Rdc e sull’effettivo possesso dei requisiti; si prevede una procedura di raccordo tra INPS, Comuni e Anagrafe nazionale della popolazione residente, al fine di incrociare i dati a disposizione di ciascun ente nella fase di verifica delle domande per l’accesso al beneficio”.

[2] In relazione alla definizione di nucleo familiare, si specifica che “il figlio maggiorenne non convivente con i genitori fa parte del nucleo familiare ricorrendo determinate condizioni (minore di 26 anni, a loro carico, non è coniugato e non ha figli) e che i coniugi permangono nel medesimo nucleo anche a seguito di separazione o divorzio, qualora continuino a risiedere nella stessa abitazione. Se la separazione o il divorzio sono avvenuti successivamente al 1° settembre 2018, l’eventuale cambio di residenza deve essere certificato da apposito verbale della polizia locale”.

[3] Per il 2021, il decreto Sostegni (art. 11 del D.L. 41/2021) ha previsto “la possibilità di stipulare uno o più contratti a termine senza che il reddito di cittadinanza venga perso o ridotto se il valore del reddito familiare risulta comunque pari o inferiore a 10.000 euro annui (in luogo dei 6.000 previsti dalla normativa generale, moltiplicati per la scala di equivalenza); in tali casi si dispone non la decadenza dal beneficio, ma la sua sospensione per una durata corrispondente a quella dei contratti a tempo determinato stipulati dal percettore, fino ad un massimo di sei mesi.”.

[4] “Relativamente ai requisiti economici appena elencati, i cittadini di Paesi extracomunitari devono produrre apposita certificazione rilasciata dalla competente autorità dello Stato estero, tradotta in lingua italiana e legalizzata dall’autorità consolare italiana. Non è richiesta tale certificazione:

  • ai cittadini di Stati non appartenenti all’Unione europea aventi lo status di rifugiato politico;
  • qualora convenzioni internazionali dispongano diversamente;
  • ai cittadini di Stati non appartenenti all’Unione europea dove è oggettivamente impossibile acquisire le certificazioni. L’elenco dei Paesi rientranti in questa casistica sarà definito in un apposito decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale.

Inoltre è espressamente previsto che per accedere alla misura nessun componente del nucleo familiare possieda:

  • autoveicoli immatricolati la prima volta nei 6 mesi antecedenti la richiesta, o autoveicoli di cilindrata superiore a 1.600 cc oppure motoveicoli di cilindrata superiore a 250 cc, immatricolati la prima volta nei 2 anni antecedenti (sono esclusi gli autoveicoli e i motoveicoli per cui è prevista una agevolazione fiscale in favore delle persone con disabilità);
  • navi e imbarcazioni da diporto (art. 3, c.1, D.lgs. 171/2005)”.

[5] La scala di equivalenza non tiene conto dei componenti in una delle seguenti condizioni:

  • disoccupati a seguito di dimissioni volontarie avvenute nei dodici mesi precedenti, fatte salve le dimissioni per giusta causa;
  • in stato detentivo o sono ricoverati in istituti di cura di lunga degenza o altre strutture residenziali a totale carico dello Stato o di altra P.A.;
  • componenti il nucleo sottoposti a misura cautelare personale, nonché a condanna definitiva intervenuta nei 10 anni precedenti la richiesta per i delitti previsti dagli artt. 270-bis, 280, 289-bis, 416-bis, 416-ter, 422 e 640 bis del codice penale.

[6] Il Ministero precisa che il “beneficio economico del Reddito di cittadinanza è costituito da un’integrazione del reddito familiare, fino ad una soglia, su base annua, di 6.000 euro, moltiplicata, in caso di nuclei con più di un componente, per il corrispondente parametro di una determinata scala di equivalenza il quale è pari ad 1 per il primo componente del nucleo familiare ed è incrementato di 0,4 per ogni ulteriore componente di età maggiore di anni 18 e di 0,2 per ogni ulteriore componente di minore età, fino ad un massimo di 2,1, o di 2,2 nel caso in cui nel nucleo familiare siano presenti componenti gravemente disabili o non autosufficienti.  A tale soglia si aggiunge, nel caso in cui il nucleo risieda in un’abitazione in locazione, una componente pari all’ammontare del canone annuo stabilito nel medesimo contratto di locazione, fino ad un massimo di 3.360 euro annui. Nel caso della Pensione di cittadinanza la suddetta soglia base è pari, anziché a 6.000 euro, a 7.560 euro, mentre la misura massima dell’integrazione per il contratto di locazione è pari a 1.800 euro. Qualora il nucleo risieda in un’abitazione di proprietà, per il cui acquisto o per la cui costruzione sia stato contratto un mutuo da parte di membri del medesimo nucleo, l’integrazione suddetta (del Reddito o della Pensione di cittadinanza) è concessa nella misura della rata mensile del mutuo e fino ad un massimo di 1.800 euro annui”.

[7] La sospensione non opera nel caso della Pensione di cittadinanza.

[8] Cfr. Decreto interministeriale del 19 aprile 2019 , pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 26 giugno 2019, con cui il legislatore definisce gli utilizzi della Carta RdC.

[9]  Si precisa che alcuni soggetti sono esclusi dai suddetti obblighi  (a titolo meramente esemplificativo i componenti con disabilità, i quali  possono comunque manifestare la loro disponibilità al lavoro ed essere destinatari di offerte di lavoro secondo le modalità stabilite in materia di collocamento obbligatorio. Resta ferma la possibilità per il componente con disabilità di richiedere la volontaria adesione ad un percorso personalizzato di accompagnamento all’inserimento lavorativo e all’inclusione sociale, che tenga conto delle condizioni specifiche dell’interessato).

[10] Con riferimento alla “congruità dell’offerta”, la legge di bilancio 2022 dispone che “essa non sia più determinata anche in funzione della durata di fruizione del beneficio del Rdc, come originariamente previsto, e che essa sia definita tale se avvenga entro ottanta chilometri di distanza (in luogo dei cento previsti in precedenza) dalla residenza del beneficiario o comunque raggiungibile nel limite temporale massimo di cento minuti con i mezzi di trasporto pubblici, se si tratta di prima offerta (tale disciplina è applicabile anche nel caso specifico di rapporto di lavoro a tempo determinato o a tempo parziale), o ovunque collocata nel territorio italiano se si tratta di seconda offerta”. Inoltre il Ministero ha precisato che “ai fini della valutazione della congruità della distanza, rileva anche la circostanza che nel nucleo familiare siano presenti componenti con disabilità oppure figli minori”. Si precisa che la congruità dipende anche dall’importo della retribuzione, che deve essere superiore almeno del 10 per cento rispetto alla misura massima del beneficio fruibile dal beneficiario del Rdc e, come specificato dalla legge di bilancio 2022, non inferiore ai minimi salariali previsti dai contratti collettivi. Da ultimo la legge di bilancio a tal proposito specifica che “il rapporto di lavoro deve essere a tempo pieno, o con un orario di lavoro non inferiore al 60% dell’orario a tempo pieno previsto nei medesimi contratti collettivi, e a tempo indeterminato oppure determinato o di somministrazione di durata non inferiore a tre mesi”.

[11] Il Legislatore ha precisato che “sono esclusi dai suddetti incentivi i datori di lavoro che non siano in regola con gli obblighi di assunzione relativi alle categorie protette”.

[12] “ANPAL Servizi S.p.A ha proceduto alla stipulazione, previa procedura selettiva pubblica, di contratti con le professionalità necessarie ad organizzare l’avvio del RdC, nelle forme del conferimento di incarichi di collaborazione, per la selezione, la formazione e l’equipaggiamento, nonché per la gestione amministrativa e il coordinamento delle loro attività, al fine di svolgere le azioni di assistenza tecnica alle regioni e alle province autonome e per la stabilizzazione del personale a tempo determinato. Sempre nell’ottica di potenziare il reinserimento lavorativo, le regioni, le province autonome, le agenzie e gli enti regionali, le province e le città metropolitane (se delegate all’esercizio delle funzioni con legge regionale), sono state autorizzate ad assumere personale da destinare ai centri per l’impiego, con relativo aumento della dotazione organica. Sono state altresì pensate nuove figure presenti presso i CPI per affiancare i beneficiari del Rdc nel reinserimento lavorativo: i navigator, con il compito specifico di supportare con una funzione di assistenza tecnica gli operatori dei Cpi.”.

[13]La somma stanziata è così ripartita: “35 milioni di euro per consentire la presentazione delle domande per il Reddito e la Pensione di cittadinanza, anche attraverso i centri di assistenza fiscale (CAF) in convenzione con l’INPS, nonché per le attività legate all’assistenza nella presentazione delle dichiarazioni sostitutive uniche (DSU) ai fini della determinazione dell’indicatore della situazione economica equivalente (ISEE), affidate ai medesimi CAF; incremento di 5 milioni di euro del Fondo per gli istituiti di patronato”.

[14] Cfr. https://temi.camera.it/leg18/temi/d-l-4-2019-introdzione-del-reddito-di-cittadinanza-e-di-forme-di-pensionamento-anticipato-cd-quota-100.html#:~:text=Il%20beneficio%20economico%20del%20Rdc,il%20valore%20del%20reddito%20familiare.

[15] Cfr. https://www.lavoro.gov.it/redditodicittadinanza/mobile/PUC/Pagine/default.aspx, dove il Ministero delle Politiche Sociali precisa che “Sono tenuti ad offrire la propria disponibilità allo svolgimento delle attività nell’ambito dei Progetti utili alla collettività i beneficiari del Reddito di Cittadinanza che abbiano sottoscritto un Patto per il Lavoro o un Patto per l’Inclusione Sociale. La partecipazione ai progetti è facoltativa per le persone non tenute agli obblighi connessi al Reddito di Cittadinanza, le quali possono aderire volontariamente nell’ambito dei percorsi concordati con i servizi sociali dei Comuni/Ambiti Territoriali.”.

[16] Cfr. https://por.regione.puglia.it/-/red-reddito-di-dignita-pugliese “Attraverso il ReD, la Regione Puglia stringe un patto di inclusione tra le persone e i nuclei familiari beneficiari, i Servizi Sociali e la comunità. Il Reddito di Dignità pugliese permette a persone in difficoltà economica, anche temporanea, di accedere a una integrazione del reddito e a opportunità di formazione. ReD, infatti, non si limita a contrastare la povertà attraverso il sostegno al reddito, ma anche promuovendo l’inserimento sociale e lavorativo, offrendo indennità per la partecipazione a tirocini o ad altri progetti di sussidiarietà.”.

[17] Per maggiori approfondimenti cfr. https://www.inps.it/dati-ricerche-e-bilanci/osservatori-statistici-e-altre-statistiche/dati-cartacei-rdc .

[18] Per approfondimenti è possibile vedere https://www.lavoro.gov.it/stampa-e-media/comunicati/pagine/reddito-di-cittadinanza-il-primo-bilancio-sui-corsi-di-formazione.aspx/

[19] “Il Ministero ha anche precisato che la Legge Finanziaria per il 2023 prevede per i beneficiari del Reddito il coinvolgimento obbligatorio in iniziative di aggiornamento o di riqualificazione formative. Il Ministero si è impegnato a estendere l’attività obbligatoria prevista per i percettori a tutti gli interventi di inclusione lavorativa e di rafforzamento dell’occupabilità stabiliti dalla legge e proseguirà il lavoro di un tavolo di monitoraggio e valutazione con le Regioni per raggiungere il target previsto dal PNRR, dando la prevalenza ai beneficiari del reddito di cittadinanza nella presa in carico e nell’avvio a formazione o a percorsi di occupabilità.”

[20] Cfr. https://www.lavoro.gov.it/stampa-e-media/comunicati/pagine/reddito-di-cittadinanza-il-primo-bilancio-sui-corsi-di-formazione.aspx/ .

[21]Cfr. file:///C:/Users/W10_5/Desktop/Reddito%20di%20cittadinanza%20-%20nota%20n.%2010-2023%20(Collana%20Focus%20Anpal%20n.%20150).pdf .

[22]Cfr. file:///C:/Users/W10_5/Desktop/Reddito%20di%20cittadinanza%20-%20nota%20n.%2010-2023%20(Collana%20Focus%20Anpal%20n.%20150).pdf .

[23] Cfr. https://integrazionemigranti.gov.it/it-it/Ricerca-news/Dettaglio-news/id/3055/Reddito-di-cittadinanza-Commissione-Ue-apre-procedura-di-infrazione-per-i-10-anni-di-residenza.

[24] L’Italia è intervenuta solo nel 2012 con le prime sperimentazioni della social card; poi nel 2015 con l’istituzione del Fondo delle Politiche Sociali, quindi nel 2016 con l’introduzione del Fondo di Contrasto della Povertà e del REI a mezzo del D.Lgs. 147/2017, momento in cui si esce finalmente dalla sperimentazione, sino ad approdare al D.Lgs. 4/2019 con cui viene introdotto il RDC.

[25] Beveridge (1879/1963) ha teorizzato il contrasto alla povertà riconducibile a 5 mali da estirpare: Miseria, Malattia, Ignoranza, Squallore, Ozio. La teoria che si sviluppa è che esiste un dovere del cittadino come un diritto da parete dello stesso alle prestazioni. Negli anni ’70, con il boom della disoccupazione di massa, si preoccupano di inserire misure di contrasto alla povertà la Finlandia, il Belgio, la Danimarca e l’Irlanda. Negli anni ’80 interviene la Francia che introduce nuove misure innovative di politica attiva. Già nel 1989 si afferma a livello comunitario il principio per cui il contrasto alla povertà è una misura fondamentale su cui intervenire. Nel 1992 il Consiglio d’Europa introduce il Reddito Minimo. Gli ultimi Paesi europei che si adeguano sono la Grecia e l’Italia. L’Italia parte con le prime sperimentazioni nel 2012 fino ad arrivare al 2019 con l’introduzione del Reddito di Cittadinanza, mentre la Grecia si adegua solo nel 2017.

[26] Per maggiori approfondimenti cfr. Petrella A., Milani P. (a cura di), 2020, Il Quaderno della formazione. Materiali del corso per Professionista esperto nella gestione degli strumenti per l’analisi multidimensionale del bisogno e per la progettazione degli interventi rivolti alle famiglie beneficiarie della misura di contrasto alla povertà e sostegno al reddito, Padova University Press, Padova, http://www.padovauniversitypress.it/publications/9788869382055.

[27] Cfr. circolare del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali n. 12462 del 12.09.2023 avente ad oggetto “estensione polizza assicurativa Inail in favore di ex beneficiari del reddito di cittadinanza per la partecipazione ai Progetti Utili alla Collettività (PUC) nelle more del decreto previsto dall’articolo 6, comma 5 bis del DL 48/2023.Precisazooni e chiarimenti.

 

Crescita a ogni costo o priorità del fattore lavoro al centro dello sviluppo? La scelta decisiva del futuro prossimo

Nell’articolo pubblicato a mia firma nel numero della rivista di settembre 2018 dal titolo “IL LAVORO AL TEMPO DELLA SHARING ECONOMY E DELLA GIG ECONOMY” è stato affrontato il grande tema delle diseguaglianze indotte dalle innovazioni tecnologiche e le possibili soluzioni per ridurre l’indice di Gini[1], unico fattore numerico che fotografa le diseguaglianze. Il focus era mostrare come stesse cambiando il mondo dl lavoro, quali conseguenze avessero le innovazioni tecnologiche sulle varie professioni e in conclusione proporre un paio di soluzioni come il “lavorare meno, lavorare tutti” e il reddito universale non a carico delle fiscalità generale ma a carico, tramite un fondo comune in cui convogliare quota parte del pacchetto azionario, dei grandi player di Internet, le famose FAGA (Facebook, Apple, Google e Amazon). Ora cerchiamo di allargare lo sguardo. Cerchiamo di capire dove trovare il nuovo punto di equilibrio tra l’uomo e le macchine, dove per macchine si intendono sia le macchine fisiche ma anche l’Intelligenza artificiale e tutto il mondo tecnologico immateriale che gravita intorno all’uomo. È chiaro che in questo caso la politica scende in campo prepotentemente. È un po’ come se fossimo alla vigilia dello “Statuto dei Lavoratori” del 1970. Allora il lavoro nelle aziende, industriali in particolare, in vorticoso sviluppo con automazione ed informatizzazione appena introdotte ed alle prime esperienze, era più semplice e certamente non risentiva delle spinte fortissime della globalizzazione di oggi. Tuttavia la spinta all’emancipazione dei lavoratori e il bisogno di affermazione dei loro diritti era altrettanto impetuosa e necessitava di una risposta. I politici dell’epoca “fecero entrare la Costituzione nelle fabbriche” si pensò che con i suoi 41 articoli della Legge 300 del 1970 si potesse dare una esaustiva risposta al mondo del lavoro. Regolamentazione che ha funzionato fino a quando le esigenze neo-liberiste di dividere il mondo del lavoro, mercificando il lavoro stesso, non sono diventate così forti per massimizzare i profitti, da trovare valide sponde nel mondo politico. Tutto ciò ha portato ad un allargamento delle diseguaglianze economiche e sociali così che il sistema sta andando eccessivamente sotto tensione. Senza contare che il fattore sostenibilità sta diventando un imperativo, se solo vogliamo usare il termine futuro nei nostri ragionamenti.

Ora, se dal 2010 si sta verificando un fenomeno mai visto prima, e cioè sta aumentando la produttività a livello globale e sta diminuendo l’occupazione e pertanto bisogna decidere a cosa dare priorità: alla crescita a ogni costo o priorità del fattore lavoro. Privilegiare la crescita senza preoccuparsi di sostenibilità e conseguenze occupazionali dovute all’automazione può essere frutto della convinzione che il sistema troverà da solo – come quasi sempre accaduto in passato – un nuovo punto di equilibro. Ma un tale approccio può non essere compatibile con i numerosi vincoli di sostenibilità. Favorire la centralità dell’uomo non significa rifiutare il progresso. Al contrario, questa scelta richiede la prefigurazione di un sistema nel quale l’uomo interagisca con la tecnologia senza però arrendersi alle macchine, che persegua la crescita ma in modo sostenibile, che aumenti la ricchezza prodotta ma ripartendola equamente, che migliori la produttività ma anche la qualità di vita e lavoro.

Mettere la persona al centro è il punto di partenza che fa del sistema valoriale la bussola da seguire per trovare la giusta rotta ed operare alcune scelte imprescindibili. Bussola alla mano, ci accingiamo allora a formulare qualche proposta per affrontare in modo socialmente equilibrato e sostenibile, anche dal punto di vista finanziario, il mondo rivoluzionato dalle innovazioni.

Occorre innanzitutto un nuovo quadro normativo che regoli alcune criticità – legali, fiscali, etiche – relative alle nuove tecnologie e che aiuti a inserire i vincoli di sostenibilità nel modello di crescita economica. È necessaria una politica economica che renda economicamente vantaggioso un comportamento sostenibile e una politica del lavoro che concili la tutela di quello esistente con la creazione di quello nuovo. Gli interventi redistribuivi, come quelli evidenziati nel mio precedente articolo, sono importanti ma “difensivi”. Non sono sufficienti. Bisogna rafforzare il sistema economico e sostenere le attività ad alta intensità di lavoro anche nei settori tradizionali investendo in ricerca e stimolando attività in cui la qualità del capitale umano sia centrale.

1. Obbiettivo sostenibilità: rottamazione o aggiustamento del modello di crescita tradizionale?[2]

All’approccio ideologico della “rottamazione” è preferibile quello più pragmatico dell’”aggiustamento” anche perché tra le possibili alternative al modello tradizionale nessuna sembra completa per sostituirlo interamente. Il riassestamento è facile a dirsi ma complicato da realizzarsi: consiste nell’inserire nel processo decisionale volto a massimizzare il risultato economico nel presente anche una variabile che tenga conto delle generazioni future. L’obbiettivo è allineare il valore economico con quello sociale. A tal fine occorre considerare due aspetti.

Il primo è il livello di intervento che può essere internazionale o locale.

Se vogliamo incidere sui cambiamenti climatici, deforestazione, gestione dei flussi migratori, dobbiamo agire a livello planetario.[3]

In altri casi come il dissesto idrogeologico, inquinamento di fiumi, modello di sfruttamento del suolo, serve agire a livello nazionale e locale coinvolgendo settore pubblico, imprese i cittadini.

Il secondo aspetto riguarda la modalità degli interventi che possono essere:

  • coercitivi,
  • sanzionatori,
  • incentivanti,
  • disincentivanti
  • persuasivi, con conseguente consenso ed accettazione generale.

Una sesta modalità potrebbe essere investire in ricerca e sviluppo per aumentare la sostenibilità.

Qualunque sia il mix di meccanismi prescelti per migliorare il modello tradizionale di crescita, la diffusione di una cultura della sostenibilità è essenziale. E all’aggiustamento del modello deve seguire l’introduzione di un metodo di misurazione dei risultati che dia un peso ai tanti fattori che contribuiscono al benessere delle persone, senza dimenticare che crescita economica e innovazioni non sono nemiche della sostenibilità ma possono essere i migliori strumenti per perseguirla.

2. Oltre la responsabilità sociale d’impresa

A livello microeconomico, la sostenibilità sta faticosamente entrando nel mondo delle imprese e nelle preferenze dei consumatori. Alcune aziende l’hanno solo incorporata nella comunicazione. Le più lungimiranti hanno adattato il modello di business rendendola parte integrante della strategia e un vantaggio competitivo.

I risultati sono tangibili: le imprese con un programma per la sostenibilità tendono a essere più produttive, le linee di prodotti eco-solidali hanno risultati migliori. Il trend è forte nei settori alimentare e bevande, cosmetico e prodotti per l’igiene, abbigliamento e calzature ed è in crescita per auto, mezzi di trasporto, grande distribuzione, imballaggi, elettrodomestici ed elettronica di consumo. Anche la comunità finanziaria accanto ai bilanci d’esercizio pone sempre maggiore attenzione a quelli di sostenibilità, in quanto è dimostrato da diversi studi che le organizzazioni più virtuose tendono a fornire nel lungo periodo ritorni superiori alla media. I fattori Environmental, Social and Governance [4](ESG) sono ormai decisivi nelle scelte di portafoglio dei fondi: a fine 2018 circa 31mila miliardi di dollari, pari al 40% delle masse gestite nel mondo, erano allocati a investimenti sostenibili. La crescente attenzione del risparmio gestito verso il cambiamento climatico – con la diffusione di fondi low carbon o carbon neutral – spingerà le aziende a dotarsi di procedure per misurare l’inquinamento generato.

Quando l’impresa investe in modo intelligente e lungimirante nel proprio territorio ne trae vantaggio competitivo e ritorno economico. Il concetto di territorio va oltre il luogo fisico di produzione e comprende dipendenti, clienti e fornitori, scuole, università e centri di ricerca, istituzioni e comunità. Il sostegno che l’impresa dà al territorio, nelle sue molteplici dimensioni, è un investimento che crea valore sociale ma anche economico. Un territorio in salute crea condizioni favorevoli allo sviluppo dell’impresa. [5]

3. Il rapporto uomo-macchina: sostituzione o collaborazione?

In realtà il futuro del rapporto uomo-macchina dipende ancora in gran parte dalle nostre scelte. Che tuttavia sono complesse e ineludibili. E ritorniamo al bivio evidenziato innanzi: crescita ad ogni costo o Uomo al centro?

L’approccio sostitutivo rappresenta in un certo senso un’accettazione della superiorità delle macchine, in nome di produttività ed efficienza. Uno scenario in cui i robot lavorano aumentando la produttività e l’uomo si dedica ad attività culturali e ricreative grazie al reddito universale è considerato da alcuni desiderabile, ma ciò implica concepire il lavoro solo come mezzo per generare reddito e significa rinunciare alla preminenza dell’uomo sulla macchina. Come già detto è un approccio “difensivo”.

Con l’approccio collaborativo, invece, le macchine sono al servizio dell’uomo, che fa valere le peculiarità che lo rendono insostituibile: pensiero critico, empatia, creatività. La collaborazione tra uomo e macchina consente al primo di estendere le proprie abilità grazie all’uso della seconda, aumentare la produttività senza perdere centralità, migliorare la qualità di vita senza che la tecnologia prevalga e la gestisca.

L’approccio sostitutivo richiede massicci investimenti di capitale, come si dice in gergo “attività ad alta intensità di capitale”, rischia di condurre a una crescita non sostenibile e di creare una rilevante disoccupazione, rende necessario un enorme sforzo re-distributivo. La via dell’approccio collaborativo è più tortuosa: richiede riforme del mercato del lavoro, nuove politiche per l’occupazione e consistenti investimenti in istruzione e formazione, ma consente all’uomo di non perdere il controllo dello sviluppo.

La rivoluzione tecnologica in atto rende attuale una contrapposizione storica nel rapporto uomo-lavoro: catena di montaggio o persone pensanti? [6]

Nel saggio del 1933 “I problemi umani di una civiltà industriale”, Elton Mayo dimostra che la motivazione dei lavoratori deriva in larga misura dalla dimensione sociale, perché la relazione tra persone e la partecipazione attiva al lavoro migliorano la produttività. Secondo lo psicologo australiano, la prestazione sul lavoro è strettamente connessa al grado di soddisfazione, benessere psicologico, riconoscimento sociale e senso di appartenenza dell’individuo. In quest’ottica le persone sono il vero capitale dell’impresa. Perciò sottomettere i lavoratori alle macchine rinunciando alla loro intelligenza e centralità è un errore, anche economico. Lo stesso dilemma si presenta anche oggi. Come asserisce Mauro Magatti ( v. articolo del Corriere Della Sera[7]), la mera sostituzione dell’uomo con la macchina risponde a «una visione neo-tayloristica che si limita a esaltare la potenza di efficientamento delle nuove tecnologie […]. In tale prospettiva, il miglioramento dei risultati si ottiene attraverso la diffusione di protocolli semplificati e addestrando gli operatori a eseguire senza pensare […]. Per questa strada, però, si finisce per impoverire la società, concentrare il potere, indebolire la democrazia. Creando cittadini-produttori sempre più soli e isolati, incapaci di capire (e quindi criticare) quello che accade attorno».

L’alternativa è investire in educazione e formazione, per far crescere le persone. «Con l’obiettivo», suggerisce Magatti, «di sviluppare un’intelligenza collettiva che […] sostiene e diffonde competenze, capacità, responsabilità autonome» oltre che aiutare a contrastare tendenze verso forme concentrate e autoritarie di potere. Quindi come vediamo esiste una relazione molto forte tra come affronteremo questo dilemma e le implicazioni sociali e politiche conseguenti.

4. Nuove regole

Le nuove tecnologie offrono enormi opportunità ma nascondono grandi rischi. Molto dipende da come sono utilizzate. I robot possono essere programmati per fare del male, le tecnologie digitali sfruttate per esercitare controllo sociale sugli individui, un algoritmo in grado di apprendere può commettere reati. Per questo sono necessarie regole adeguate.

Diversi sono gli aspetti da affrontare. Un primo tema riguarda la definizione dello stato giuridico delle macchine, con relativi diritti e obblighi. L’Arabia Saudita ha riconosciuto la cittadinanza, e quindi lo status di persona giuridica, a un robot.[8] L’Estonia si avvia ad attribuire personalità giuridica alle macchine[9]. Ma questo tema è destinato a riproporsi con attenzione critica nuova.

Stato giuridico e responsabilità delle macchine, protezione della privacy, tutela della libera concorrenza, prevenzione di pratiche discriminatorie, adeguato trattamento fiscale, definizione di principi etici, norme che indirizzano un comportamento sostenibile, sono tutti temi urgenti da affrontare. Un ripensamento delle regole è passaggio imprescindibile per governare il progresso tecnologico.

5. Politiche per l’occupazione, tutela del lavoro e nuovo welfare

Finora abbia esposto come il mondo del lavoro si sia modificato sotto la spinta inarrestabile delle innovazioni tecnologiche, le scelte che è chiamato a fare e gli aspetti normativi che dovrebbero essere presi in considerazione per evitare la balcanizzazione del mondo del lavoro. Ora cerchiamo di offrire qualche spunto dal punto di vista delle politiche attive sul lavoro, in modo da salvaguardare le tutele già acquisite dai lavoratori e di estenderle anche ai cosiddetti lavoratori “precari” che altrimenti sarebbero in balia dei tumultuosi cambiamenti del mondo del lavoro e soggetti a sfruttamento come già accade nella GIG Economy. In altre parole: rafforzare la locomotiva di crescita e occupazione ma anche aiutare i vagoni di coda per evitare che si stacchino. A tal proposito segnaliamo la proposta N. 12 delle 15 proposte messe in campo dal Forum Diseguaglianze Diversità (FDD)[10] di cui Fabrizio Barca è il coordinatore. Questa proposta rilancia con forza il ruolo della contrattazione collettiva incardinata su tre punti non separabili.

Il primo è la piena attuazione dell’Art. 39 Della Costituzione. Gli accordi tra sindacati e datori di lavoro devono valere per tutte le categorie, senza lasciare lavoratori e lavoratrici esclusi e intrappolati in contratti ‘pirata’. Deve essere sancita per legge la validità “erga omnes” dei contratti Nazionali.

Questo primo passo rende possibile compiere il secondo passo, che è quello di introdurre un salario orario minimo, che stabilisca ad un livello non penalizzante la soglia minima legale, economica e morale, al di sotto del quale a nessun lavoratore e a nessuna lavoratrice può essere chiesto di lavorare.

Il terzo passo necessario affinché entrambe le due precedenti norme non restino lettera morta è rafforzare in modo massiccio, unificandoli, tutti gli strumenti ispettivi volti ad accertare ogni forma di irregolarità, al fine di rendere ben visibile e chiaro a tutti che non saranno più permesse irregolarità.

6. Investire in conoscenza: scuola e formazione per ridurre lo skill gap

Nell’epoca con maggiore intensità d’innovazione della storia le parole chiave sono due: istruzione e formazione continua. Ciò coinvolge diversi ambiti: istruzione tecnico-scientifica, formazione classica, sviluppo di soft skill e flessibilità.

 1 istruzione tecnico-scientifica

È necessario, in primo luogo, porre maggiore enfasi sull’insegnamento delle materie tecniche e scientifiche, le cosiddette STEM (Science, Techology, Engineering, Mathematics), sia a livello universitario sia di scuola superiore, competenze di cui vi è carenza e una forte richiesta in tutti i settori. 

 2 formazione classica

       E’ importante una buona formazione classica e umanistica, con conoscenze di storia, filosofia, arte, teologia, antropologia, per consentire all’uomo di usare la tecnologia senza esserne sopraffatto e di affrontare le complesse questioni etiche poste dallo sviluppo tecnologico. Con l’inserimento della A di Arts STEM diventa STEAM. La convergenza tra sapere scientifico e competenze umanistiche – che potremmo definire umanesimo industriale – è una tendenza in atto ai livelli più alti del sistema educativo. Sia gli scienziati che gli umanisti debbono combattere un unico pericolo: l’utilitarismo. La scuola e l’università devono formare donne e uomini liberi, colti, capaci di utilizzare il senso critico. Senza il senso critico si costruiscono consumatori passivi che,  convinti dell’importanza del guadagno, abbassano il tasso etico. Il tema del lavoro non è una priorità è l’effetto di una buona educazione. Se consideriamo la scuola e l’università solo alla luce d’un sapere pratico, di un sapere in funzione di una professione, abbiamo fallito.

       Il terzo elemento cruciale è valorizzare e potenziare le caratteristiche umane che computer, software e algoritmi non possono rimpiazzare (le cosiddette soft skill): pensiero critico e creativo, capacità di risolvere problemi e prendere decisioni, empatia e altre dimensioni dell’intelligenza emotiva, attitudini relazionali, sociali e comunicative. In quest’ottica il sistema scolastico deve ripensare sia i metodi d’insegnamento sia i criteri di valutazione. Noi come Centro Studi “Diritto dei lavori, Ambiente e Sicurezza” nell’ambito della formazione somministrata nell’anno scolastico 2017-2018 ai docenti del Liceo Scientifico Galileo Galilei di Bitonto (BA), per prepararli ad affrontare la cosiddetta “Alternanza Scuola-Lavoro” prevista dalle legge 107/2015 (La Buona Scuola), abbiamo stressato molto questo aspetto, convinti come siamo che per approcciare nel migliore dei modi il mondo del lavoro i soft skills siano fondamentali.

 3 Flessibilità

       Questo aspetto viene molto trascurato nel mondo della scuola che risulta purtroppo ancora molto rigido e non idoneo ad affrontare i cambiamenti in atto nel mondo del lavoro.

      Flessibilità, adattabilità, versatilità sono decisive per affrontare un mondo del lavoro in continua trasformazione. La scuola deve insegnare a imparare. L’aumento di flessibilità deve partire dai modelli d’insegnamento, anche evitando che studenti con competenze e interessi diversi siano inquadrati in percorsi troppo rigidi.

In ogni caso, a prescindere dai cicli scolastici d’istruzione, la formazione deve essere permanente.

Diventa quindi indispensabile che la formazione sia disponibile per tutto il corso della vita professionale: per facilitare il reinserimento di chi perde il lavoro e per il costante aggiornamento di chi è occupato.

Questo aspetto deve assumere maggior peso nella contrattazione collettiva perché risulta essere decisivo sia per il mantenimento del posto di lavoro ma anche per una ri-occupabilità del lavoratore perdente posto.

Per agevolare questo aspetto sarebbe utile introdurre incentivi fiscali per persone e aziende che investono in formazione, diffondere l’uso di tecnologia per accedere a piattaforme di long life learning, prevedere interventi pubblici mirati per l’alfabetizzazione digitale delle fasce più deboli.[11] La formazione deve occuparsi dei talenti, allargandone le competenze, ma anche dei tanti che hanno meno abilità. Perché oggi la formazione professionale tende ad aumentare le disuguaglianze anziché ridurle. L’Ocse rileva che i lavoratori più qualificati hanno una probabilità tre volte superiore di ricevere formazione rispetto a quelli meno capaci.

La formazione continua è utile anche per ruoli di leadership e deve comprendere temi di apertura (comprensione di scenari internazionali, quadro macroeconomico, responsabilità sociale) e di frontiera (quali fin-tech e blockchain). L’obiettivo è aggiungere alla tradizionale capacità di gestire un’organizzazione quella di introdurvi e utilizzare al meglio le innovazioni.

Infine, per un paese è importante investire in conoscenza ma cruciale è saper trattenere i talenti formati e attrarne altri. Il costo economico di un saldo negativo di mobilità intellettuale (brain drain) è enorme.

Ovviamente l’investimento in istruzione e formazione è un investimento a lungo termine. Difficilmente potrà avere un impatto a breve termine sulle diseguaglianze compresa quella legata alla concentrazione della proprietà delle macchine, che invece peggiorerà.

7. Nuovo modello di distribuzione ( o di pre-distribuzione)

Un nuovo modello di Pre-distribuzione potrebbe essere la combinazione di tre misure, ognuna a sostegno di una fase della vita:

  • istruzione di base gratuita e obbligatoria (per la scuola),
  • prestito universale (per formazione universitaria o professionale)
  • capitale di dotazione (per il periodo lavorativo e della pensione).

Questo pacchetto di misure rappresenta un tentativo di predistribuzione dei mezzi che produrranno la ricchezza. Con l’obiettivo di dotare tutti di un capitale iniziale – sia di conoscenze sia di risorse finanziarie – che consenta a chi lo saprà sfruttare di partecipare ai benefici del progresso tecnologico. L’idea di fondo non è molto diversa da ciò che genitori e nonni spesso fanno per figli e nipoti, provvedendo alla loro istruzione e formazione, aiutandoli ad acquistare un’abitazione o a iniziare un’attività.

Su questo terreno ancora chi ha proposto qualcosa di concreto è stato Fabrizio Barca che attraverso il suo FDD, in un articolo pubblicato dal Corriere della Sera del 10 Gennaio 2020, ha proposto una eredità universale: «Diamo 15 mila euro ai ragazzi neo maggiorenni»[12] Una misura per restringere il gap di opportunità tra chi nasce in una famiglia del ceto forte e chi in una del ceto debole. Per evitare, insomma, che il figlio di operai resti un operaio. Insomma per rimettere in moto quello che una volta si chiamava “Ascensore sociale”. Questa misura costerebbe 8,8 Miliardi di euro e avrebbe come destinatari circa 580 mila neo maggiorenni. Come si finanzia? Chi riceve trasferimenti di ricchezza che lo collocano nel 5% più ricco degli italiani pagherà la tassa, che si azzera al di sotto dei 500 mila euro. «Il numero di persone — si legge nel documento del Forum — attualmente soggette all’imposta ogni anno è di circa 110 mila. Con questa nuova imposta i paganti verrebbero ridotti a circa 30 mila». La critica a questa misura è presto detta: «qualcuno potrebbe usare l’eredità come una “maxi paghetta” dimenticando la crescita personale»

Il Forum suggerisce quindi di promuovere servizi che aiutino i 18enni ad avere una bussola per progettare il futuro, senza sperperare. Spazio allora a sportelli di assistenza nelle scuole e a consulenti ad hoc. Per il team di Barca non occorre infatti mettere paletti sull’utilizzo dei 15 mila euro, il tutto in nome della libertà e della responsabilizzazione degli adolescenti. Chiamati così a una prova di maturità molto più complicata di quella tra i banchi di scuola. Quindi l’eredità universale copre il secondo punto e lo allarga poiché ci potrebbe essere anche chi decide di investire quei soldi per avviare una attività imprenditoriale e non un percorso universitario. Un attento, severo ed accurato sistema di controllo di questo intero percorso, sin dall’inizio e, successivamente, a regime, anche con la previsione di sanzioni, amministrative e/o penali, per i “furbetti” dovrà evitare sprechi e scandali, anche di recente, verificatisi in finanziamenti di simile, ma di più basso profilo, così come finora in corso.

Sul primo e sul terzo punto la discussione è ancora aperta. Si potrebbe finanziare il primo punto con la Web Tax. Il terzo potrebbe essere alimentato costruendo un fondo pubblico di investimento in cui fare confluire quota parte dei pacchetti azionari delle grandi aziende quotate in borsa, come già proposto nel  mio precedente articolo.

8. Conclusioni

Tornado alle considerazioni di partenza dove si è descritta la situazione attuale come simile a quella della vigilia della nascita delle Statuto dei lavoratori, penso che si evinca chiaramente la estrema complessità in termini di quantità e qualità dei parametri che incidono sul mondo del lavoro. La mia opinione personale è che per consentire al mondo del lavoro nella sua interezza, con la presenza sempre più massiccia delle macchine al fianco delle persone, di ritrovare un punto di equilibrio, si debba agire su due fronti:

  • quello legislativo con le proposte accennate nei precedenti capitoli 5 e 7
  • quello educativo come accennato nel capitolo 6.

In quest’ultimo capitolo vengono evidenziati anche aspetti legati al Long life learning  che chiamano in causa i Sindacati che nelle loro contrattazioni dovrebbero pretendere di più su questo aspetto, decisivo sia per i lavoratori che risulterebbero essere più spendibili anche in caso di uscita dall’azienda e sia per le aziende che solo così possono risultare competitive sul mercato. Giusto a titolo esemplificativo, nello scorso rinnovo del contratto dei metalmeccanici, FIM FIOM e UILM sono riuscite ad ottenere da Federmeccanica la possibilità per i lavoratori di avere 3 giorni di formazione retribuita nell’arco dei tre anni di vigenza del contratto, riprendendo un, allora innovativo, istituto contrattuale nato dall’Autunno Caldo (le 150 ore). Mi sembra decisamente poco ma è un campo da coltivare con maggior impegno, adeguato alle attuali esigenze del mercato del lavoro intra ed extra aziendale. 

[1]      Indice introdotto dallo statistico italiano Corrado Gini (1884-1965) per misurare le diseguaglianze https://it.wikipedia.org/wiki/Coefficiente_di_Gini

[2]      Nel saggio di Serge Latouche del titolo “Breve trattato sulla decrescita serena“ si sostiene che “siamo a bordo di un bolide senza pilota, senza marcia indietro e senza freni, che sta andando a fracassarsi contro i limiti del nostro pianeta”. In realtà siamo ancora in tempo per frenare. Vediamo come.

[3]      Lo asserisce anche Papa Francesco nella sua  enciclica Laudato Si’ << L’interdipendenza ci obbliga a pensare a un mondo con un piano comune>>

[4]      https://www.ilsole24ore.com/art/gli-investimenti-sostenibili-sfiorano-31mila-miliardi-dollari-ABbHxpjB

[5]      Sul tema sia permesso rinviare ad un mio precedente articolo dal titolo “Città Policentrica Bari-Taranto: Un esempio concreto di economia di aggregazione” pubblicato nel numero di questa Rivista di Aprile 2019 che rappresenta un esempio di istanziazione di questo concetto.

[6] Ne “L’organizzazione scientifica del lavoro” (1911), Frederick Taylor intuisce i vantaggi di efficienza di una produzione centralizzata e ispira la catena di montaggio. Il principale obiettivo è l’incremento di produttività e, di conseguenza, la crescita. Tuttavia, per ottenerla i lavoratori devono eseguire procedure standardizzate, parcellizzate e ripetitive. Come perfettamente rappresentato da una scena di Tempi moderni di Charlie Chaplin, l’uomo ha un ruolo passivo e la macchina è in controllo

[7] Articolo del Corriere della Sera:  https://www.corriere.it/opinioni/19_gennaio_02/era-digitalizzazione-formazione-che-serve-3cf82068-0ead-11e9-81e4-4ae8cf051eb7.shtml

[8]      https://www.iusinitinere.it/responsabilita-civile-dei-robot-risoluzione-parlamento-europeo-art-2043-cc-6626#_ftn1

[9]      https://www.altalex.com/documents/news/2019/06/07/intelligenza-artificiale-applicata-alla-giustizia-giudici-robot

[10]    https://www.forumdisuguaglianzediversita.org/proposte-per-la-giustizia-sociale/

[11]    Circa la metà dei lavoratori dei paesi Ocse ha competenze digitali basse o nulle. Per invertire la tendenza si potrebbe introdurre la “Patente Digitale”obbligatoria per chi accede al mercato del lavoro, indipendentemente dalla funzione. Si noti che anche la alfabetizzazione digitale e semplificazione della tecnologia possono offrire alla terza età straordinarie opportunità di lavoro ( e di inclusione sociale).

[12]    https://www.corriere.it/sette/attualita/20_gennaio_10/fabrizio-barca-diamo-15-mila-euro-ragazzi-neo-maggiorenni-f5c8dcb0-2fbb-11ea-8ee1-1d9fce076d0e.shtml

Dalla carta all’algoritmo: l’evoluzione digitale della P.A

Premessa

Le potenzialità dei sistemi di intelligenza artificiale in tutti i suoi campi stanno rivoluzionando il modo in cui pensiamo, studiamo, lavoriamo, compriamo, usufruiamo di servizi, e così via.

Nel settore privato l’utilizzo di questa tecnologia è già ampiamente utilizzato, perché le imprese riescono a fornire prodotti e servizi in grado di soddisfare ogni richiesta. Nel settore pubblico, invece, i timori e i rischi connessi ad uno uso improprio e smodato rendono l’avanzamento molto più lento. Tutelare la certezza del diritto e dell’azione pubblica rivestono un carattere di primaria importanza.

Per Intelligenza Artificiale, c.d. Artificial Intelligence (A.I.), s’intende un insieme di processi intellettivi compiuti da un sistema algoritmico, in grado di creare un vero e proprio “pensiero” artificiale autonomo.

In buona sostanza, l’A.I. è l’abilità di una macchina di mostrare capacità umane quali il ragionamento, l’apprendimento, la pianificazione e la creatività. Alla base dell’Intelligenza Artificiale vi è, infatti, l’apprendimento automatico, il c.d. machine learning, che consente di acquisire in modo automatizzato strategie risolutive e previsionali in base all’esperienza[1].

L’intelligenza artificiale (IA) non è fantascienza: fa già parte delle nostre vite. Si pensi all’utilizzo dell’assistente personale virtuale per organizzare la nostra giornata lavorativa, oppure a viaggiare in un veicolo a guida autonoma o avere un telefono che ci suggerisce le canzoni o i ristoranti che potrebbero piacerci. Ormai l’IA è una realtà fatta di sistemi che mostrano un comportamento intelligente che acquisisce informazioni, analizza il proprio ambiente e compie azioni, con un certo grado di autonomia, per raggiungere specifici obiettivi.

I sistemi basati sull’IA possono consistere solo in software che agiscono nel mondo virtuale (per esempio assistenti vocali, software per l’analisi delle immagini, motori di ricerca, sistemi di riconoscimento vocale e facciale), oppure incorporare l’IA in dispositivi hardware (per esempio in robot avanzati, auto a guida autonoma, droni per il controllo del territorio, o applicazioni dell’Internet delle cose).[2] Utilizziamo l’IA quotidianamente, per esempio per tradurre le lingue, generare sottotitoli nei video o bloccare lo spam delle email ed è per questo che si è ritenuto fondamentale, a livello europeo, dotarsi di un Regolamento.

A giugno di quest’anno, il Parlamento europeo ha approvato in sede plenaria il c.d. Artificial Intelligence Act (o “AI Act”), primo testo di legge per regolamentare l’uso dell’intelligenza artificiale a livello globale. Tale approvazione dà il via alla negoziazione con il Consiglio dell’Unione europea sul testo definitivo.

L’intelligenza artificiale è diventata argomento estremamente controverso. Da un lato, può diventare uno strumento utilissimo nella cura di alcune malattie; dall’altro può essere facilmente sfruttata dai regimi autoritari o anche delle aziende senza scrupoli. L’intelligenza artificiale ha consentito tra le altre cose di recuperare una canzone inedita dei Beatles, ricreando ex novo la voce di John Lennon. Al tempo stesso applicazioni quali Midjourney[3] permettono di creare dal nulla false fotografie. Tuttavia l’uso dell’intelligenza artificiale comporta rischi  e solleva molte questioni di ordine etico e socio-economico.

Per questi motivi e per i timori che l’applicazione dell’IA danneggi la vita dell’essere umano, invece che migliorarla, la Commissione europea ha presentato, circa due anni fa, un testo legislativo nell’intento di catalogare l’uso dell’intelligenza artificiale a seconda dei rischi.

Tra la classificazione ad alto rischio, molti deputati vorrebbero includere i sistemi di intelligenza artificiale che procurano danni significativi alla salute, alla sicurezza, ai diritti fondamentali delle persone e all’ambiente o che sono capaci di influenzare l’esito delle elezioni. Si vorrebbe vietare, soprattutto negli spazi accessibili al pubblico, l’uso di sistemi di identificazione biometrica non solo in tempo reale, ma anche a posteriori (a meno che non ci sia in questo secondo caso autorizzazione giudiziaria). Nel contempo, vuole vietare sistemi di categorizzazione biometrica basati su caratteristiche sensibili (per esempio il genere, la razza, l’etnia, la cittadinanza, la religione, l’orientamento politico); così come sistemi di polizia predittiva.[4]

Questo saggio, partendo dalla novazione, di cui è portatrice l’intelligenza artificiale, vuole evidenziare anche e soprattutto come impatta con la burocrazia amministrativa che dovrà farsi trovare pronta per questa sfida, riuscendone a cogliere opportunità e vantaggi senza precedenti, a fronte di cambiamenti che vanno ben al di là della mera necessità di adattare la Pubblica Amministrazione al passaggio da un’amministrazione della “carta” a una amministrazione che gestisce files e firma digitali, usa il web o i social network, in luogo della “vecchia” documentazione cartacea.

Si tratta di un cambiamento epocale che agisce direttamente sull’organizzazione amministrativa, sul sistema delle regole, sul procedimento amministrativo nella sua struttura e nella sua disciplina; sia sul sistema di imputabilità delle decisioni amministrative (e della responsabilità amministrativa rispetto a tali decisioni che necessariamente ne consegue) e che pertanto non può portare benefici se non è accompagnato da una “rivoluzione culturale” dei fruitori e dei produttori del diritto e che interessa anche la formazione dei giuristi all’interno degli istituti di ricerca, per evitare che tutta questa innovazione sia prerogativa dei tecnici informatici che nulla hanno a che fare con il diritto e la scienza giuridica.[5]

Un processo di cambiamento interpretato unicamente dalla tecnica informatica o dalla conservazione dell’immagine giuridica tradizionale rischia infatti di determinare incomprensioni e ritardi nell’accesso dell’AI nelle PPAA, generando l’allargamento del divario in termini di produttività ed efficienza tra settore privato e settore pubblico.

L’algoritmo e la procedura automatizzata tra dottrina e giurisprudenza

L’algoritmo applicato alla funzione pubblica rappresenta una pietra miliare nell’evoluzione dell’attività della pubblica amministrazione. Per la prima volta, potrebbe essere avviato un percorso di gestione dei dati e dei documenti in possesso degli uffici pubblici finalizzato ad automatizzare il processo decisionale applicando l’Intelligenza Artificiale a vaste aree di attività di routine, ripetitive e standardizzate che, dopo tutto, di solito si traducono in un’attività amministrativa ampiamente standardizzata e senza margine di discrezionalità alcuno.[6]

Quando si pensa alla produzione di un atto amministrativo con una procedura automatizzata è inevitabile chiedersi se un provvedimento amministrativo che viene fuori attraverso l’utilizzo di sistemi elettronici sia compatibile con il concetto di provvedimento amministrativo tradizionale.[7]

Il provvedimento amministrativo è l’atto conclusivo di un procedimento amministrativo, con cui si manifesta la volontà di una pubblica amministrazione, ancorché nell’ordinamento italiano non viene fornita una vera e propria definizione di provvedimento amministrativo. Esprime la volontà della PA e incide unilateralmente nella sfera giuridica del destinatario, attraverso la costituzione, modificazione o estinzione di situazioni giuridiche attive o passive.

Da tale definizione non si rileva alcun impedimento all’uso dell’intelligenza artificiale nell’attività amministrativa, in quanto non vi è un divieto nella scelta del modo da utilizzare per realizzare tale atto. Un provvedimento amministrativo in linea teorica può essere posto in essere sia da una persona fisica, sia da un algoritmo.

Negli anni, l’uso della tecnologia e dell’informatica alla pubblica amministrazione si è tradotto nell’adozione di strumenti altamente automatizzati, quali appunto la programmazione algoritmica, particolarmente utile nelle procedure seriali o standardizzate implicanti l’elaborazione di ingenti quantità di istanze e dati oggettivamente comprovabili. Con questo tipo di programmazione algoritmica, i criteri normativi sottesi alle procedure vengono trasformati in algoritmi che conducono alla decisione finale, attraverso una sequenza predeterminata logica e condizionata predeterminata dal programmatore, ossia dall’amministrazione.[8]

Sin dalla Legge 241/90 il legislatore esprimeva la volontà di incentivare l’utilizzo delle tecnologie informatiche nell’attività amministrativa, per conseguire maggiore efficienza nei procedimenti[9]. Anche con il Codice dell’amministrazione digitale, l’intento è stato quello di incentivare l’uso dell’automazione e degli strumenti digitali, stabilendo che le pubbliche amministrazioni nell’organizzare autonomamente la propria attività utilizzano le tecnologie dell’informazione e della comunicazione per la realizzazione degli obiettivi di efficienza, efficacia, economicità, imparzialità, trasparenza, semplificazione e partecipazione nel rispetto dei principi di uguaglianza e di non discriminazione, nonché per l’effettivo riconoscimento dei diritti dei cittadini e delle imprese di cui al presente Codice in conformità agli obiettivi indicati nel Piano triennale per l’informatica nella pubblica amministrazione”.[10]

Anche l’attuale “nuovo” Codice dei contratti pubblici, D.lgs 36/2023, prevede espressamente all’art. 30, rubricato, Uso di procedure automatizzate nel ciclo di vita dei contratti pubblici, che “per migliorare l’efficienza le stazioni appaltanti e gli enti concedenti provvedono, ove possibile, ad automatizzare le proprie attività ricorrendo a soluzioni tecnologiche, ivi incluse l’intelligenza artificiale e le tecnologie di registri distribuiti, nel rispetto delle specifiche disposizioni in materia”. L’introduzione della disposizione si è resa necessaria in ragione del criterio di delega di cui alla lettera t), primo comma, della legge n. 78/2022 in cui si prevede, per le stazioni appaltanti, la possibilità di ricorrere anche ad automatismi nella valutazione delle offerte e alla possibilità, non più remota, che siano appunto le macchine ad effettuare la valutazione del pregio tecnico delle offerte dei concorrenti e non già l’uomo in seno alla Commissione giudicatrice.

Si consolidano, quindi, non solo i principi, che si sono da tempo affermati in ambito europeo sul tema dell’utilizzo di soluzioni di intelligenza artificiale ma anche i principi, enunciati dai giudici amministrativi, secondo cui le stazioni appaltanti, in sede di acquisto o sviluppo delle soluzioni tecnologiche, si assicurano la disponibilità, sempre dalla relazione tecnica, “del codice sorgente e di ogni altro elemento utile a comprenderne le logiche di funzionamento; che la decisione assunta all’esito di un processo automatizzato deve considerarsi imputabile alla stazione appaltante” di pari passo, ovviamente, con i principi per cui il processo decisionale non deve essere lasciato interamente automatizzato dovendo assicurarsi il contributo umano per controllare, validare ovvero smentire la decisione automatica e per cui la decisione algoritmica non comporti discriminazioni di sorta.

Da qui la previsione per cui le pubbliche amministrazioni sono tenute ad adottare ogni misura tecnica e organizzativa idonea a garantire che siano rettificati i fattori che comportano inesattezze dei dati e sia minimizzato il rischio di errori, nonché a impedire effetti discriminatori nei confronti di persone fisiche sulla base della nazionalità o dell’origine etnica, delle opinioni politiche, della religione o delle convinzioni personali, dell’appartenenza sindacale, dei caratteri somatici o dello status genetico, dello stato di salute, del genere o dell’orientamento sessuale. La norma chiosa, in un modo non irrilevante, sul modo perentorio che le pubbliche amministrazioni sono tenute a pubblicare sul sito istituzionale, nella sezione “Amministrazione trasparente”, quindi a rendere conoscibile, l’elenco delle soluzioni tecnologiche utilizzate ai fini dello svolgimento della propria attività amministrativa.[11]

Il ricorso alle procedure automatizzate con gli algoritmi, per i processi decisionali della PA, ha interessato fortemente anche la giustizia amministrativa che ha cercato di delineare i criteri e le modalità per l’adozione di questi nuovi strumenti digitali, il cui utilizzo si sostanzia nella metodologia prescelta nel procedimento amministrativo, quindi come una modalità organizzativa dell’attività amministrativa.[12]

Però, il procedimento amministrativo informatico per essere conforme ai principi di buon andamento imparzialità ed economicità della Pubblica Amministrazione, deve garantire la possibilità di conoscere e di sindacare l’algoritmo utilizzato.[13]

Solo così, secondo il giudice amministrativo, è possibile sostenere che tali procedure costituiscano una doverosa declinazione dell’art. 97 Cost., coerente con l’evoluzione tecnologica, volta a conseguire riduzione dei tempi del procedimento, interferenze dovute alla negligenza e/o imperizia dei funzionari pubblici.

In ognicaso, il ricorso alle procedure automatizzate, in grado  di giustificare e motivare la decisione assunta dal punto di vista sostanziale, cioè del contenuto, che della forma, cioè del procedimento,[14] non deve essere motivo di elusione dei principi posti alla base dello svolgimento dell’attività amministrativa, perché la regola tecnica che sovraintende l’algoritmo resta pur sempre una regola amministrativa dettata dalla prescrizione della norma da attuare e creata dall’uomo e non arbitrariamente dalla macchina, che è semplicemente lo strumento per applicarla.

E’ così che l’algoritmo continua a possedere valenza giuridica e amministrativa, anche se declinata, appunto, in forma matematica. Per tale ragione, anche la regola tecnica fondata sugli algoritmi continua a soggiacere ai principi generali dell’attività amministrativa di pubblicità e trasparenza, nonché di ragionevolezza e di proporzionalità, ai sensi della normativa sul procedimento amministrativo

Quindi se da una parte, i giudici amministrativi incoraggiano, dunque, l’ingresso delle tecnologie informatiche nei procedimenti amministrativi, incluso l’utilizzo di algoritmi che consentono alla pubblica amministrazione di meglio conformarsi ai canoni di efficienza ed economicità dell’azione amministrativa, nonché di ottemperare al principio costituzionale del buon andamento, che impone di utilizzare i minori mezzi e risorse possibili per il raggiungimento dei fini individuati dalla legge consentendo anche l’esclusione dell’intervento del funzionario purché siano rispettati i principi dell’attività amministrativa; dall’altra risulta chiaro che l’utilizzo di procedure “robotizzate” non può rappresentare una modalità atta a porre in essere pratiche elusive delle norme di legge, perché l’uso dell’automazione nella p.a. non può mai sostituirsi all’attività cognitiva e di giudizio, cioè alla composizione di interessi che solo un’istruttoria affidata ad un funzionario persona fisica è in grado di svolgere.[15]

Per questo, secondo copiosa giurisprudenza amministrativa, l’utilizzo del procedimento automatizzato nella p.a. è sempre possibile a condizione che si possa individuare il centro di imputazione e di responsabilità, e che non assuma carattere discriminatorio, e che l’algoritmo sia conoscibile, comprensibile e sindacabile.[16] E cioè che l’algoritmo applicato al procedimento amministrativo:

  • sia conoscibile ex ante in tutti i suoi aspetti e da chiunque ne abbia interesse e per cui il principio di trasparenza deve, quindi, essere declinato in maniera più rigorosa, posto che è in gioco un linguaggio differente da quello giuridico; che è necessario verificare se gli esiti del procedimento informatico, le modalità e le regole con cui è stato impostato sono conformi alle prescrizioni e alle finalità stabilite dalla legge o dalla amministrazione. Pertanto, il procedimento amministrativo è illegittimo se il funzionamento dell’algoritmo non è conoscibile e comprensibile;
  • sia comprensibile nel senso che l’algoritmo sia soggetto ex post alla piena cognizione e al pieno sindacato del giudice. Si tratta di garantire non solo il diritto di difesa dei cittadini, così come sancito dall’articolo 24 della Costituzione, ma anche un principio di uguaglianza: al giudice deve essere consentito di sindacare la logicità e la ragionevolezza della decisione amministrativa robotizzata. La stessa deve permettere al giudice di valutare la correttezza delle prescrizioni che la stessa amministrazione si è data a monte del procedimento, in specie quando si tratta di un’attività amministrativa di tipo discrezionale.

Con l’intelligenza artificiale, l’algoritmo non si sostituisce al pubblico funzionario responsabile del procedimento, ma è quest’ultimo che rende il procedimento celere efficace ed efficiente l’azione amministrativa servendosi dell’algoritmo.[17]

Opportunità e rischi. La costruzione di un’intelligenza artificiale affidabile

Se è vero che l’intelligenza artificiale è foriera di innumerevoli opportunità di applicazione di questo tipo di tecnologia a diversi settori come la scienza, la medicina, il diritto e la sicurezza pubblica, è altresì vero che una siffatta tecnologia così potente, incute timore e paure per i rischi e gli effetti negativi che potrebbe avere sulla vita dell’uomo, per il cattivo utilizzo, soprattutto se applicate per la diffusione di contenuti falsi o pericolosi.

Da una parte le opportunità per i cittadini come una migliore assistenza sanitaria, automobili e altri sistemi di trasporto più sicuri e anche prodotti e servizi su misura, più economici e più resistenti. E ancora, l’intelligenza artificiale potrà essere usata come strumento predittivo, nella prevenzione dei reati e come ausilio nella giustizia penale, perché premetterebbe di elaborare più velocemente grandi volumi di dati, valutare con più accuratezza i rischi di fuga dei detenuti, prevedere e prevenire crimini e attacchi terroristici. Oppure vantaggi per le imprese come lo sviluppo di una nuova generazione di prodotti e servizi, anche in settori in cui le aziende europee sono già in una posizione di forza come l’economia circolare, l’agricoltura, la moda e il turismo, attraverso percorsi di vendita più fluidi e ottimizzati, migliorare la manutenzione dei macchinari, aumentare sia la produzione che la qualità, migliorare il servizio al cliente e risparmiare energia.

Dall’altra, però i rischi risultano piuttosto elevati. Risulta assai fondata la minaccia ai diritti fondamentali e alla democrazia, visto che molto dipende dalla capacità di progettare l’algoritmo e dai dati che vengono immessi. Ad esempio, alcuni aspetti importanti potrebbero non essere programmati nell’algoritmo o potrebbero essere programmati per riflettere e perpetuare delle distorsioni strutturali. Infatti, se non bene programmata l’IA potrebbe condurre a decisioni riguardo a un’offerta di lavoro, all’offerta di prestiti e anche nei procedimenti penali, influenzate dall’etnia, dal genere, dall’età. Un altro pericolo è dato dall’uso per creare immagini, video e audio falsi ma estremamente realistici che possono essere utilizzati per ingannare, raggirare, per truffare, rovinare la reputazione e mettere in dubbio la fiducia nei processi decisionali.

E’ anche l’abuso dell’intelligenza artificiale esprime un grande rischio, come l’utilizzo per problemi per cui non è adatta, come per spiegare o risolvere complesse questioni sociali.[18]

Per affrontare le ansie e la paure che l’uso dell’intelligenza artificiale procura, la Commissione europea ha istituito nel 2019 l’Alleanza per l’IA[19], formata da 4.000 stakeholders (cittadini, imprese, studiosi) di discutere delle implicazioni tecnologiche, sociali, economiche e scientifiche dell’IA, con l’obiettivo di individuare i requisiti fondamentali che le applicazioni di intelligenza artificiale dovrebbero soddisfare per ritenersi affidabili, perché solo in questo modo può portare molti benefici, quali migliori cure sanitarie, trasporti più sicuri e puliti, processi di produzione più efficienti ed energia più economica e sostenibile.

Per essere considerati affidabili i sistemi di intelligenza artificiale devono tradursi in strumenti utili alle persone e come tali devono essere rispettosi dei diritti fondamentali dell’essere umano. Ancora, devono garantire l’utilizzo di algoritmi sufficientemente sicuri da essere resilienti sia agli attacchi palesi sia a tentativi subdoli di manipolazione dei dati.[20] Strettamente connessa alla gestione delle informazioni c’è la necessità di garantire una corretta riservatezza e protezione dei dati utilizzati dai sistemi in tutte le fasi di vita dell’IA e registrare e documentare tutte le decisioni adottate dai sistemi, in modo tale da rendere spiegabile il processo decisionale sviluppato dall’algoritmo.

La Commissione propone nuove norme per garantire che i sistemi di IA utilizzati nell’UE siano sicuri, trasparenti, etici, imparziali e sotto il controllo umano. Pertanto, ai fini dei diritti e della sicurezza dei cittadini, i sistemi di IA si ritengono affidabili secondo una scala graduale di rischi, secondo la classificazione di inaccettabile, alto, limitato e minimo.

Agli esordi dell’utilizzo della intelligenza artificiale nella P.A. in Italia

L’obiettivo che l’Italia si propone è quello di potenziare il sistema, attraverso la creazione e il potenziamento di competenze, programmi di sviluppo e messa in opera dell’IA, al fine di rendere il nostro Paese un centro sull’intelligenza artificiale competitivo a livello globale, rafforzando la ricerca e incentivando il trasferimento tecnologico. [21]

L’uso dell’automazione nella p.a., tuttavia, ha dimostrato casi di successo ed evidenti clamorosi insuccessi dovuti spesso a una errata costruzione del modello o a una scelta sbagliata dei dati sulla base dei quali opera l’algoritmo per la produzione di un determinato risultato.

A titolo esemplificativo, ricordiamo il caso di qualche tempo fa, in cui fu utilizzato un algoritmo per attribuire le cattedre nel concorso degli insegnanti, e che fu però oggetto di ricorso al TAR e al Consiglio di Stato. [22]

Un uso molto praticato dell’IA è quello relativo alla presenza di software che interagiscono con l’essere umano per suggerire azioni ed erogare servizi, o accompagnarlo nella compilazione assistita di un modulo, di una richiesta. L’input recepito ed elaborato dall’algoritmo è in linguaggio naturale, scritto o parlato. E’ il caso dei c.d. “assistenti virtuali” o anche “chatbot”.

Molti Comuni producono certificazioni attestati, dichiarazioni attraverso l’assistente virtuale che guida il cittadino nella istanza da comporre per il servizio richiesto.

L’obiettivo di questi strumenti è quello di rendere più accessibili i servizi pubblici da remoto, senza recarsi fisicamente negli uffici, attraverso l’interazione con il cittadino, l’utente del servizio, gli stakeholder della PA, imprese e professionisti, fornendo risposte veloci a domande semplici o ripetitive, e stimolando anche la proattività e l’arricchimento virtuoso della conoscenza.

L’INPS, per esempio, ha dimostrato come l’uso dell’algoritmo ha permesso di lavorare da remoto senza alcun cartaceo accelerando i tempi di evasione di una istanza anche durante il periodo del Covid. Infatti, l’Istituto di previdenza ha utilizzato e applicazioni di Intelligenza Artificiale per funzioni di “back office”, con il protocollo automatico delle istanze ricevute per PEC, generando così efficienza nell’azione pubblica  e ricadute ampiamente positive nell’erogazione dei servizi.

Il tutto può riassumersi in una amministrazione pubblica che dà risposte più velocemente ai cittadini, la fine delle lunghe code agli sportelli, l’elevato risparmio di carta, e ancora non di poco conto è l’opportunità dei dipendenti di non ridursi a smistare e protocollare documenti ma ad investire sulle proprie competenze in attività a più valore aggiunto, per un lavoro più qualificante a risparmio anche di tempo.

Conclusioni

L’analisi si sforza di dimostrare il potenziale beneficio che l’intelligenza artificiale può apportare alla funzione e all’attività pubblica, seppur con cautela, attenzione e affidabilità nell’uso dell’algoritmo nel procedimento amministrativo.

La macchina intelligente è in grado di stravolgere il modo in cui i cittadini/utenti pensano la pubblica amministrazione e come questa sarà in grado di semplificare i procedimenti per una fruizione di prodotti e servizi precipui per la collettività. Tanto è vero  che l’uso dell’I.A. nella burocrazia e nell’attività della pubblica amministrazione apre alla “nuova rivoluzione delle macchine”[23], che determina un ripensamento anche degli istituti giuridici classici dei principi dell’azione amministrativa e delle regole di funzionamento della p.a., oltre che dell’intero procedimento amministrativo.

L’I.A. può essere strumento di soluzione dei problemi di efficienza ed efficacia nelle procedure amministrative e possono ridurre tempi e costi e migliorare i servizi forniti dalle pubbliche amministrazioni.

Tuttavia, molte perplessità permangono. Il cittadino, a ragione, teme gli possa essere negata la possibilità di far valere i propri diritti di fronte all’asettico oggettivo e categorico processo decisionale algoritmico.

E ancora, dall’uso dell’algoritmo, emerge il difficile rapporto tra intelligenza artificiale e diritto, che dovrà essere ben governato e guidato dall’uomo con fermezza, specie nell’approccio etico di trasparenza e legalità.

Invero, l’uso della macchina intelligente crea un nuovo rapporto tra le dinamiche del procedimento amministrativo e i principi di legalità, in considerazione di questa commistione tra norma giuridica e algoritmo, modificando il rapporto tra amministrazione e funzionario intriso dell’uso delle macchine incidenti nella decisione finale e nell’assunzione di determinazioni nell’interesse della p.a.

Si tratta di un passaggio, di cui nessuno sa valutarne con precisione la portata di benefici e rischi, epocale da un sistema giuridico amministrativo incentrato sull’essere umano e sul rapporto intuitus personae e di fiducia tra amministrazione e funzionario, a nuovo rapporto tra p.a. funzionario, algoritmo e macchine intelligenti[24]

Per questo resta irrisolta la questione di quale e quanto spazio possa e debba occupare l’intelligenza artificiale nell’attività amministrativa a garanzia di una buona amministrazione non più incentrata sui dipendenti, funzionari ed impiegati, ma bensì su formule, algoritmi ed artifizi intelligenti.

La questione è tutt’altro che definita, il dibattito resta aperto.

[1] G. Orsoni, E. D’Orlando, “Nuove prospettive dell’amministrazione digitale: Open Data e algoritmi” in Istituzioni del Federalismo – Rivista di studi giuridici e politici, n. 3/2019, pag. 603.

[2] Comunicazione della Commissione, L’intelligenza artificiale per l’Europa, Commissione Europea, COM(2018) 237 final, Bruxelles, 25.4.2018.

[3] Si tratta di una piattaforma online di intelligenza artificiale, autofinanziata e indipendente, in grado di creare immagini a partire da un input, un testo. “ Midjourney” è un laboratorio di ricerca indipendente che esplora nuovi mezzi di pensiero ed espande i poteri immaginativi della specie umana.

[4] Articolo integrale pubblicato su Il Sole 24 Ore del 15 giugno 2023

[5] Cfr, L. Bennett Moses, The Need for Lawyers, in The Future of Australian Legal Education, Thomson Reuters, 2018, cap. 22.

[6] Cfr. Diana-Urania Galetta, Juan Gustavo Corvalán, Intelligenza Artificiale per una Pubblica Amministrazione 4.0? Potenzialità, rischi e sfide della rivoluzione tecnologica in atto, sta online www.federalismi.it num. 3/2019, 6 febbraio 2019, pag. 11.

[7] Cfr. I.M. Delgado, Automazione, intelligenza artificiale e pubblica amministrazione: vecchie categorie concettuali per nuovi problemi?, sta in  Istituzioni del federalismo n. 3 (2019), pag. 643.

[8] Cfr. L. Viola, L’intelligenza artificiale nel procedimento e nel processo amministrativo: lo stato dell’arte, sta in “Federalismi.it”, Rivista di diritto pubblico italiano e comparato, europeo del 7.11.2018.

[9] L’art. 3 bis della legge 241/90 per una maggiore efficienza prevede che “le amministrazioni pubbliche agiscono mediante strumenti informatici e telematici, nei rapporti interni, tra le diverse amministrazioni e tra queste e i privati”.

[10] Cfr. Decreto legislativo n. 82 del 7 marzo 2005, art. 12.

[11] Cfr. Relazione agli articoli e agli allegati del Codice dei contratti pubblici, art. 30, pagg. 48-49.

[12] Cfr. TAR Lazio-Roma, Sez. III-bis, 22/03/2017, n. 3769.

[13] Cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 08.04.2019, n. 2270.

[14] Cfr. Diana-Urania Galetta, Juan Gustavo Corvalán, Intelligenza Artificiale per una Pubblica Amministrazione 4.0? Potenzialità, rischi e sfide della rivoluzione tecnologica in atto, sta online www.federalismi.it num. 3/2019, 6 febbraio 2019, pag. 14.

[15] Cfr. Consiglio-di-Stato, Sez. VI, 8 aprile 2019 n. 2270.

[16] Cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 13.12.2019, n. 8472.

[17] Cfr. Diana-Urania Galetta, Juan Gustavo Corvalán, Intelligenza Artificiale per una Pubblica Amministrazione 4.0? Potenzialità, rischi e sfide della rivoluzione tecnologica in atto, sta online www.federalismi.it num. 3/2019, 6 febbraio 2019, pag. 17.

[18] Cfr. Quali sono i rischi e i vantaggi dell’intelligenza artificiale ?, sta in Articolo del 28/06/2023, Parlamento europeo, Direzione generale della Comunicazione, online Quali sono i rischi e i vantaggi dell’intelligenza artificiale? | Attualità | Parlamento europeo (europa.eu)

[19] Cfr. https://digital-strategy.ec.europa.eu/it/policies/european-ai-alliance

[20]Cfr. https://commission.europa.eu/strategy-and-policy/priorities-2019-2024/europe-fit-digital-age/excellence-and-trust-artificial-intelligence_it.

[21] Cfr. Giuliana Maragno, Intelligenza Artificiale e pubblica amministrazione, a che punto siamo? L’indagine, 27 Gennaio 2021, sta online https://www.agendadigitale.eu/cittadinanza-digitale/intelligenza-artificiale-nella-pa-applicazioni-ed-esempi-da-seguire/.

[22] Cfr. Consiglio-di-Stato, Sez. VI, 8 aprile 2019 n. 2270.

[23] Cfr. Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee, La nuova rivoluzione delle macchine. Lavoro e prosperità nell’era della tecnologia trionfante, Feltrinelli, 2017

[24] Cfr. Diana-Urania Galetta, Juan Gustavo Corvalán, Intelligenza Artificiale per una Pubblica Amministrazione 4.0? Potenzialità, rischi e sfide della rivoluzione tecnologica in atto, sta online www.federalismi.it num. 3/2019, 6 febbraio 2019, pag. 21.

 

La responsabilità sociale d’impresa in ambito giuridico internazionale

1.Premessa; 2. La responsabilità sociale di impresa tra legislazione ed autoregolamentazione; 3. L’attività delle multinazionali e gli strumenti di regolamentazione; 4. Il ruolo dell’Organizzazione Internazionale del lavoro; 5. La strategia di CSR nell’Unione Europea

  1. Premessa

Il dibattito internazionale ed interdisciplinare sulla Responsabilità Sociale d’Impresa (RSI) oCorporate Social Responsibility (CSR), secondo l’equivalente terminologia anglosassone, ha assunto negli ultimi anni connotati e dimensioni di particolare rilevanza. Il tutto è scaturito dalla crescente attenzione manifestata dai principali attori del mercato verso l’accoglimento di istanze sociali ed ambientali ed alla diffusione di politiche di Responsabilità Sociale di Impresa, adottate dalle istituzioni comunitarie e dalle organizzazioni internazionali. Tutto ciò ha stimolato il confronto tra punti di vista differenti in ordine alla definizione ed allo sviluppo del concetto di “responsabilità sociale”.

Si tratta di convincersi all’idea che l’impresa, nel mutato contesto economico odierno, debba assumersi precise responsabilità nei confronti della collettività, modificando le proprie strategie di mercato e realizzando comportamenti che vadano oltre la logica della mera massimizzazione del profitto, attraverso un’efficace gestione delle problematiche etiche e sociali.

  1. La responsabilità sociale d’impresa tra legislazione ed autoregolamentazione

Il dibattito relativo alla Responsabilità Sociale di Impresa ha avuto inizio intorno agli anni Trenta per poi risolversi nello scontro ideologico sugli interessi che i manager di una impresa dovrebbero perseguire. In pratica si è iniziato a pensare se l’impresa dovesse anche essere considerata un’istituzione al servizio della collettività e quindi dei vari stakeholder. Nel corso del tempo, con l’affermarsi di una concezione della libertà d’impresa e di concorrenza quali elementi fondanti dell’economia internazionale, si è assistito ad un processo evolutivo e culturale caratterizzato da una profonda penetrazione dell’etica nei rapporti economici, che è giunto sino a dirigerne l’azione.[1]

La necessità di inserire la questione etica nella dimensione imprenditoriale, nasce dalla considerazione, sempre più diffusa in ambito internazionale, secondo cui l’attenzione dell’impresa verso istanze sociali, etiche ed ambientali delle comunità, costituisca una condizione imprescindibile per uno sviluppo sostenibile e durevole. Pertanto si è giunti a ritenere  che la responsabilità sociale, rappresenta per una impresa uno strumento efficace per trovare una risposta adeguata e soddisfacente alle istanze che giungono dalla società civile.[2]

In questo contesto, le imprese sono chiamate a svolgere un ruolo chiave nei processi di tutela dei diritti umani e dell’ambiente, sviluppando la propria attività produttiva nel pieno rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo e delle comunità locali di riferimento. Questo significa attraverso la Responsabilità Sociale di Impresa si afferma quindi una teoria di impresa che concepisce la produzione dei beni non solo limitatamente alla loro funzione di strumento di profitto ma anche come opportunità di realizzazione del benessere sociale. In questo modo l’operato dell’impresa inizia ad essere valutato globalmente non solo in rapporto ai risultati economici raggiunti, ma anche in base alla qualità dell’ambiente lavorativo, al rispetto della natura ed alla qualità del prodotto, in ottemperanza alle linee metodologiche tracciate dalla scuola di pensiero del cosiddetto business ethics[3] secondo il quale le imprese devono necessariamente operare in modo da eliminare le diseguaglianze sociali, contribuendo alla promozione del benessere collettivo. Questa necessità è sorta in occasione di abusi commessi dalle imprese multinazionali che hanno causato danni ingenti alle comunità degli Stati ospiti dei loro stabilimenti. In mancanza di una definizione univoca ed unanimemente accettata di Responsabilità Sociale di Impresa, è possibile definirne i contenuti identificandola come un framework giuridico che include strumenti di natura legislativa riconducibili a diversi settori, inclusi quelli che regolamentano strutturalmente le società commerciali in termini di diritti proprietari, controllo degli organi gestionali, pubblicità degli atti o le normative nazionali di prevenzione e repressione dei fenomeni corruttivi senza dimenticare le normative finanziarie sulle borse valori e le discipline a tutela del lavoro, del consumatore e dell’ambiente. Negli Stati industrializzati la Responsabilità Sociale di Impresa si identifica con un sistema complesso di norme e principi idonei a disciplinare le molteplici sfaccettature dell’attività d’impresa. Invece nei Paesi in via di sviluppo, tali normative sono spesso frammentarie o completamente assenti, il che ha consentito alle multinazionali di avvantaggiarsi indebitamente dei vuoti legislativi.[4]

Il dibattito sulla Responsabilità Sociale di Impresa ha indotto le Nazioni Unite e l’Unione europea ad interessarsi della materia. Da una attenta analisi emerge che la definizione più completa di Responsabilità Sociale di Impresa è riportata proprio nel Libro Verde del 2001 redatto dall’UE, ove la stessa viene qualificata come investimento strategico nell’attuazione del proprio programma di sviluppo commerciale. Questo significa che per un’impresa la decisione di assumere comportamenti valutabili in termini di responsabilità sociale, significa andare oltre i normali obblighi giuridici del diritto interno, per dedicarsi alla cura del capitale umano, della salute e del progresso della società, rispettando l’ambiente e ponendo in essere programmi aziendali atti a produrre sensibili miglioramenti della qualità della vita. Questa impostazione è stata ribadita e confermata dalla Comunicazione della Commissione datata 25 ottobre 2001, che ha vincolato le imprese al rispetto della legislazione applicabile e degli accordi collettivi, cui si aggiunge l’impegno, scevro da ogni obbligo giuridico, ad attuare in autonomia processi di integrazione delle questioni sociali all’interno dell’ecosistema aziendale, al fine di creare un valore condiviso tra proprietari/azionisti e gli altri soggetti interessati.[5]

In ambito internazionale, la definizione di responsabilità sociale d’impresa, è affidata al lavoro del Rappresentante Speciale del Segretario dell’ONU su Business and Human Rights, John Ruggie, secondo cui le imprese sono tenute al rispetto dei diritti umani, evitando di infrangere i diritti degli altri e nell’imprimere un cambiamento di direzione nel caso in cui siano coinvolte in simili pratiche. Consapevole della labilità di un proposito privo dell’assistenza di qualsivoglia obbligo giuridico, al punto 12 della relazione, Ruggie chiarisce che tale responsabilità deve essere tenuta distinta da “legal liability and enforcement”, che rimangano affidate alle legislazioni nazionali.

La responsabilizzazione delle imprese, necessita di una compenetrazione tra legislazioni nazionali e codici di autoregolamentazione affinché possa spiegare i suoi effetti orientando l’attività delle stesse verso il monitoraggio, la prevenzione, la riduzione e la gestione dell’impatto sui diritti umani. Per raggiungere questo scopo, a partire dagli anni Settanta, i paesi promotori di un Nuovo ordine economico su scala internazionale, iniziarono a proporre standard di condotta da introdurre nelle imprese, in modo tale da bilanciare gli obiettivi da essere perseguiti; questi tentativi si fondavano sull’opportunità di favorire la collaborazione tra Stati e multinazionali, rendendo positivo il contributo offerto da queste ultime in termini di investimento nei Pesi ospiti. Tuttavia, in considerazione della rilevante incidenza sui mercati delle imprese multinazionali, quali operatori non statali del diritto internazionale, la Responsabilità Sociale di Impresa di cui necessita la comunità deve svilupparsi attraverso fonti e strumenti di natura internazionale. A riprova di questa evidenza, si pone l’ampia azione delle organizzazioni intergovernative quali ONU, OCSE ed OIL, facendo ricorso soprattutto a fonti di soft law.[6]

Questi strumenti, individuano i principi di Responsabilità Sociale di Impresa che negli ordinamenti nazionali risultano essere il prodotto di differenti regolamentazioni settoriali e sono deputati a controllare e promuovere l’attività delle imprese multinazionali in senso etico. Accanto al concetto di responsibility, la dottrina ha elaborato quello di accountability, in altre parole il fenomeno per il quale l’impresa multinazionale deve rendersi disponibile a sottostare a controlli e monitoraggi posti in essere da soggetti coinvolti nella sua attività e da parte della società civile.

Il quadro delineato, risulta purtroppo fragile dal punto di vista strettamente giuridico, essendo gli strumenti internazionali adottati, privi di una reale forza vincolante, anche se è innegabile come la questione di una responsabilità delle imprese multinazionali stia gradualmente catalizzando l’attenzione su di sé, quale tema fondamentale nell’ambito del diritto internazionale. Resta da stabilire se l’adozione di strumenti di soft law da parte di organizzazioni intergovernative sia sufficiente per ottenere la tutela di quei valori che caratterizzano la responsabilità sociale d’impresa.

  1. L’attività delle multinazionali e gli strumenti di regolamentazione

Il fenomeno della globalizzazione ha inciso in modo particolare sulle relazioni economiche, le quali hanno iniziato a manifestare una spiccata tendenza ad operare su scala internazionale, con conseguente intensificazione degli scambi di merci, capitali, servizi ed informazioni.

I grandi cambiamenti intervenuti nelle relazioni economiche ed internazionali a livello globale hanno comportato una spinta evolutiva non solo per quanto concerne la regolamentazione dei flussi finanziari, ma anche in ordine alla frequenza ed all’ampiezza degli stessi nonché relativamente alle attività economiche svolte dalle imprese multinazionali. Il ruolo svolto da tali imprese ha subito sensibili trasformazioni sin dagli anni Sessanta, ma la cui presenza sulla scena internazionale, risale a diversi secoli prima[7], in concomitanza con l’espansione mercantile europea, basato sul sistema delle “chartered companies”, ovvero società commerciali in possesso di una sorta di licenza idonea all’esercizio dell’attività mercantile, le quali, oltre al commercio, assunsero funzioni tipicamente pubbliche, come il controllo doganale e l’organizzazione di rappresentanze diplomatiche operanti in nome e per conto dello Stato di appartenenza[8], fino all’amministrazione delle colonie stesse.[9] Secondo gli studi effettuati dall’UNCTAD, attualmente opererebbero nel mondo più di 80.000 imprese multinazionali con più di 900.000 società in posizione sussidiaria con sede principale in Europa, Stati Uniti e Giappone.[10] Considerando l’aspetto occupazionale, le multinazionali generano oltre 80.000.000 di posti di lavoro, con un significativo aumento nel settore dei servizi e delle attività industriali tecnologiche. Le imprese multinazionali sulla scia dell’Agenda 21, la Dichiarazione di Johannesburg relativa allo sviluppo sostenibile[11] ed il Plan of Implementation[12], hanno tracciato un percorso di rinsaldamento dei principi di uguaglianza e sostenibilità a cui le multinazionali devono tendere costantemente.

A questo punto, appare evidente come le imprese multinazionali o transnazionali costituiscano la principale forza operante nel settore dell’integrazione economica, con il riconoscimento da parte dei Paesi ospiti, del beneficio apportato nel proprio tessuto economico dagli investimenti effettuati dalle stesse, in termini di lavoro, incremento del Prodotto Interno Lordo e trasferimento di conoscenze tecnologiche.

La comunità internazionale ha tentato di porre un argine allo strapotere delle multinazionali, elaborando standard etici di condotta da implementare negli assetti di corporate governance, senza tuttavia riuscire a dotarli di quella coattività necessaria ad assicurarne il rispetto e ad ostacolare la commissioni di gravi violazioni dei diritti umani ai danni della popolazione residente o dei diritti dei lavoratori impiegati negli stabilimenti delle multinazionali.

A tal proposito, sono divenuti tristemente famosi con ampio risalto nelle cronache di tutto il mondo, i casi Drummond[13] e Del Monte[14]accusate di complicità nella commissione di violazioni dei diritti sindacali dei lavoratori, senza dimenticare la Texaco, impresa petrolifera statunitense, condannata dai tribunali dell’Ecuador al maxi-risarcimento di 18 miliardi di dollari per la sua opera di deforestazione e sversamento di rifiuti industriali nelle falde acquifere. Questi casi citati, sono solo alcuni dei numerosi casi di aperte violazioni del diritto internazionale ed inosservanza degli standard posti a tutela dei lavoratori e dell’ambiente di cui le multinazionali si sono rese artefici o complici. Attribuire diritti  ed obblighi alle imprese multinazionali, rappresenterebbe il primo passo per il riconoscimento in capo alle stesse dello status di soggetto del diritto internazionale. Inoltre, la dottrina favorevole al riconoscimento di una soggettività internazionale, non ha mancato di portare a supporto della sua teoria, argomenti quali la circostanza che le imprese multinazionali siano costantemente destinatarie di linee guida, codici di condotta, raccomandazioni e rapporti elaborati da organizzazioni internazionali, la cui opera è espressamente dedicata alla regolamentazione della loro attività. Il fulcro del ragionamento è rappresentato dal fatto che, la soggezione delle multinazionali alle norme di diritto internazionale, soprattutto a quelle concernenti la tutela dei lavoratori e la difesa dell’ambiente, consentirebbe alle organizzazioni internazionali di dotare di forza vincolante le disposizioni rivolte direttamente alle multinazionali, riuscendo laddove fino ad ora, esse hanno sempre fallito.

  1. Il ruolo dell’’Organizzazione Internazionale del Lavoro

A partire dagli anni Settanta, l’impatto delle imprese multinazionali sulla politica sociale e sul lavoro è stato oggetto di analisi approfondite da parte dell’International Labour Organization (OIL).

Nel 1977, il Consiglio di Amministrazione dell’OIL adottò la Dichiarazione Tripartita di Principi sulle Imprese Multinazionali e la Politica Sociale[15], contenenti una serie di dichiarazioni di principio e convenzioni internazionali in materia di lavoro che le parti sociali sono espressamente invitate a rispettare e ad applicare in tutta la loro estensione applicativa. In particolare, un altro testo di rilievo adottato dall’OIL nel 1998, ovvero la Dichiarazione sui principi e i diritti fondamentali dei lavoratori[16], la quale enucleava quattro principi fondamentali nelle relazioni lavorative, quali la libertà di associazione ed il riconoscimento del diritto alla contrattazione collettiva, l’eliminazione di qualsiasi forma di lavoro forzato o obbligatorio, l’abolizione del lavoro minorile e l’eliminazione di ogni forma di discriminazione. Questi principi, vennero qualificati nel corso del Summit di Copenaghen del 1995 come “core labour standards” e furono recepiti nella Dichiarazione Tripartita, caratterizzata da portata universale, per essere destinati ad orientare la condotta delle imprese multinazionali, degli imprenditori e dei governi in temi assoluto rilievo quali l’occupazione, la formazione dei lavoratori, le condizioni di lavoro e di vita e le relazioni industriali.

Il preambolo della Dichiarazione Tripartita, esorta le imprese ad offrire il proprio contributo al progresso economico e sociale, nonché a ridurre e risolvere le difficoltà che le loro operazioni possono creare. Le imprese, infatti, grazie ai loro ingenti investimenti, possono apportare benefici agli home and host Countries, utilizzando in modo efficace il capitale, la manodopera e la tecnologia. Anche i principi contenuti nella Tripartita, sono applicabili esclusivamente su base volontaria da  parte dei governi e delle organizzazioni dei lavoratori cui sono destinati.

Dal punto di vista strutturale, la Dichiarazione consta di 59 paragrafi, suddivisi in un Preambolo e 5 sezioni speciali, la prima generale e le restanti dedicate a tematiche specifiche.

Nella Prima parte, intitolata Politica Generale, è contenuta la dichiarazione secondo cui le parti interessate sono tenute a rispettare la legislazione ed i regolamenti nazionali insieme ai diritti sovrani degli Stati, oltre ai principi della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’uomo e dei Patti delle Nazioni Unite. Inoltre viene consigliato ai governi di ratificare le Convenzioni OIL o di applicare in altro modo i principi in esse contenuti; mentre ai Paesi di origine delle multinazionali è riconosciuto un dovere di promozione delle best practices, ovunque esse operino. La seconda sezione, dedicata all’Occupazione, rinvia direttamente all’osservanza delle risultanze della Conferenza Mondiale Tripartita sull’occupazione, la ripartizione del reddito, il progresso sociale e la divisione internazionale del lavoro, che stabiliscono di incentivare la crescita occupazionale e lo sviluppo economico, elevando le condizioni di vita dei lavoratori attraverso una politica attiva tesa al raggiungimento del pieno impiego.

La terza sezione, relativa ai temi della Formazione, contiene l’invito rivolto alla multinazionali affinché intraprendano programmi di orientamento professionale, partecipando al finanziamento di fondi e progetti diretti ad acquisire ed accresce la qualificazione professionale. I principi stabiliti nella quarta sezione riguardano le Condizioni di vita e di lavoro, attraverso cui si raccomanda l’equiparazione del trattamento economico dei dipendenti dell’impresa a quello dei lavoratori di pari livello impiegati nelle aziende locali[17]. Nel caso in cui non esistano datori di lavoro da utilizzare come termine di paragone, dovrebbero essere accordati i salari più favorevoli e le migliori prestazioni economiche possibili, basandosi sulla situazione economica e finanziaria dell’impresa. Per quanto concerne l’età di accesso al mondo del lavoro, si invitano le imprese a rispettare le legislazioni nazionali adoperandosi per la definitiva eliminazione del lavoro minorile. Nell’ultima sezione, dedicata alle Relazioni Industriali, viene stabilito che l’impresa deve assicurare ai suoi dipendenti, standard di tutela dei diritti sociali in misura non inferiore a quelli vigenti a livello locale. Ai lavoratori, inoltre, deve essere riconosciuta la possibilità di aderire ad organizzazioni rappresentative senza temere ripercussioni discriminatorie nei loro confronti. La Dichiarazione Tripartita, stante la non vincolatività dei principi in essa espressi, prevede una procedura articolata di follow-up, idonea a verificare la conformità dei comportamenti adottati dalle multinazionali con gli standard stabiliti. Organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro, sono tenute a presentare dei rapporti periodici relativi all’attuazione dei principi della Tripartita a livello nazionale da parte dei Governi e delle imprese multinazionali, ponendo l’accento sulla necessaria cooperazione tra Governi, organizzazioni imprenditoriali e rappresentative dei lavoratori ed operando un rinvio alle leggi nazionali ed alle politiche sociali nazionali, in un’ottica di integrazione dell’impresa nel tessuto economico dello Stato in cui svolge la propria attività. Le criticità più evidenti, sono rappresentate dalla carenza di un efficace sistema di vigilanza e controllo oltre che dalla consueta assenza di vincoli giuridici. Tuttavia, la generale applicazione dei principi della Dichiarazione Tripartita sembra possa essere raggiunta non solo mediante procedure di monitoraggio, ma anche attraverso l’attività di promozione svolta dalle associazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro, tesa a creare obblighi per le imprese nei confronti dei loro dipendenti, senza dimenticare l’influenza esercitata sui Governi, che in molti casi ha portato gli stessi a riformulare radicalmente alcuni standard in conformità a quanto stabilito dalla Dichiarazione stessa.

  1. La strategia di CSR nell’Unione Europea

L’unione Europea ha iniziato ad occuparsi delle tematiche inerenti alla Responsabilità Sociale di Impresa, con colpevole ritardo, solo agli inizi degli anni Novanta[18], quando il Presidente della Commissione Jacques Delors presentò il Manifesto delle imprese contro l’esclusione sociale. Attraverso tale iniziativa le imprese manifestavano la propria volontà ad impegnarsi nel rafforzare la propria responsabilità sociale, combattendo l’emarginazione derivante dalla disoccupazione. Questo progetto, fu sottoscritto a Londra nel 1995 dagli Stati membri, richiamandosi esplicitamente al Libro bianco Crescita, competitività ed occupazione. La  pubblicazione del Libro Bianco determinò la nascita di CSR-Europe, un vero e proprio network di oltre settanta imprese multinazionali e trentasei organizzazioni partner, con lo scopo di assistere le compagnie operanti in Europa nello sviluppo di una competitività sostenibile, in ottemperanza ai diritti fondamentali della persona. Nel 1999 il Parlamento europeo adottò una Risoluzione denominata Howitt riguardanti le norme comunitarie applicabili alle imprese europee con stabilimenti situati in Paesi in via di sviluppo[19]. Attraverso tale Risoluzione si mirava  ad approvare ed incentivare iniziative volontarie di imprese ed associazioni rappresentative degli interessi dei vari stakeholder, dirette ad elaborare codici di condotta e meccanismi di controllo per garantirne l’attuazione. Tale atto, reca con sé elementi di assoluta unicità, come l’invito alla creazione di un organismo di controllo e monitoraggio imparziale ed autonomo, con il riconoscimento internazionale da parte di OCSE ed OIL, competente a ricevere reclami da parte di ONG, rappresentanti dei lavoratori ed associazioni di consumatori, circa le violazioni commesse dalle imprese in materia di diritti umani fondamentali. Per quanto innovativa, la proposta del parlamento, pecca di eccessiva genericità, in quanto non definisce il rapporto che doveva intercorrere tra questo organismo di controllo indipendente ed i tribunali nazionali, ingenerando confusione sotto il profilo della competenza giurisdizionale. Il tema della Responsabilità sociale tornò al centro del dibattito europeo nel corso del Consiglio di Lisbona del 2000, durante il quale fu sollevata da più parti la necessità di responsabilizzare le imprese come parte integrante del piano UE che prevedeva entro il 2010 di diventare l’economia più competitiva e dinamica nel mondo, capace di crescere in modo sostenibile, creando migliori condizioni di lavoro ed una maggiore coesione sociale.[20] Per il raggiungimento di questi obiettivi, fu avanzato il proposito di migliorare le legislazioni esistenti, inserendo un nuovo sistema di coordinamento idoneo a diffondere le best practices nel mondo imprenditoriale: una sorta di partnership tra gli Stati membri, gli organi dell’Unione e le parti sociali. Questo sistema di coordinamento, fu istituzionalizzato con l’introduzione del Titolo VIII all’interno del Trattato di Amsterdam.[21]

Il sistema di armonizzazione tra differenti regolamentazioni nazionali, subì un’accelerazione nella sua istituzionalizzazione a seguito dell’adozione del Trattato di Nizza, in particolare grazie all’art. 137, paragrafo 2, che attribuì al Consiglio il potere di adottare misure destinate ad incoraggiare la cooperazione tra Stati membri, stimolando gli scambi informativi e le valutazioni delle esperienze fatte. Si assiste così alla nascita di un approccio differente da parte dell’Unione nei confronti delle tematiche relative all’occupazione, una politica sociale di inclusione orientata a favorire una maggiore integrazione europea, attraverso interventi mirati e coordinati a livello normativo ed amministrativo senza dover necessariamente passare per una difficile, ed a tratti inattuabile, politica di armonizzazione legislativa complessiva. A partire dal vertice di Lisbona, l’UE ha incardinato le politiche nazionali verso la realizzazione di obiettivi comuni, riconoscendo l’importanza del ruolo delle imprese nell’attuazione degli stessi.

 

[1] F. BORGIA, La responsabilità sociale delle imprese multinazionali, cit., p. 70 e 71.

[2] Cfr. F. BORGIA, Strumenti internazionali in materia di responsabilità sociale d’impresa, Milano, 2012.

[3] C. COWTON, R. CRISP, Business Ethics, Oxford, 1998, p. 43 ss.

[4] F. MARRELLA, Regolamentazione internazionale e responsabilità sociale d’impresa nel diritto internazionale, in Diritti umani e diritto internazionale, 2009, p. 229, ha descritto questo fenomeno come <<shopping dei diritti umani>>

[5] COMMISSIONE DELLE COMUNITA’ EUROPEE, Libro Verde. Promuovere un quadro europeo per la responsabilità sociale delle imprese, COM (2001) 366 definitivo, Bruxelles, del 18 luglio 2001, p. 7

[6] Per soft law devono intendersi regole sociali elaborate dagli Stati o da altri soggetti di diritto internazionale che si caratterizzano per la loro non vincolatività, pur avendo uno speciale rilievo giuridico. Definizione di D. THURER, voce Soft Law, in The Max Planck Encyclopedia of Public International Law, Oxford, 2012, p. 269 ss.

[7] Sull’argomento, si veda P. J. MCNULTY, Predecessor of Multinational Corporations, in Columbia Journal of World Business, 1972, p. 73 ss.

[8] F. FRANCIONI, Imprese multinazionali, Protezione diplomatica e Responsabilità internazionale, op. cit., p. 9 e 10.

[9] Cfr. S. R. RATNER, Corporations and Human Rights: A Theory of Legal Responsibility, in Yale Law Journal, 2001 p. 453.

[10] Dati tratti da UNCATD, World Investment Report 2012. Towards a New Generation of Investment Policies

[11] UNITED NATIONS, Johannesburg Declaration on Sustainable Development, adottata in data 4 settembe 2002

[12] Cfr. Johannesburg Plan of Implementation of the World Summit on Sustainable Development

[13] UNITED STATES COURT OF APPEAL FOR THE ELEVENTH CIRCUIT, Locarno Baloco et al.  V. Drummond Company, Inc., No. 09-16216, del 3 febbraio 2011. La compagnia venne accusata di gravi violazioni dei diritti sindacali nelle proprie facilities colombiane, oltre che dell’uccisione di tre leaders sindacali

[14] UNITED STATES COURT OF APPEAL FOR THE ELEVENTH CIRCUIT, Villeda Aldana et al. V Del Monte Fresh Produce, Inc., 04-10234, dell’8 luglio 2005

[15] INTERNATIONAL LABOUR ORGANIZATION, Tripartite Declaration of Principles Concerning Multinational Enterprises and Social Policy, adottata a Ginevra in data 16 novembre 1997 ed emendata nel novembre del 2000 e del 2006, testo disponibile su www.ilo.org

[16] INTERNATIONAL LABOUR ORGANIZATION, Declaration on Fundamental Priciples and Rights to Work, adottata a Ginevra in data 18 giugno del 1998, testo reperibile in International Legal Materials, 1998, p. 1233 ss.

[17] Secondo A. BONFANTI, Imprese multinazionali, diritti umani e ambiente. Profili di diritto internazionale pubblico e privato, p. 179, tale disposizione potrebbe non risultare funzionale alla tutela dei lavoratori

[18] Per quanto riguarda le iniziative dell’UE in materia di Rsi, si vedano A. MEISLING, J. LUX, S. SKADEGARD, The European Initiatives, in R. MULLERAT (ed.), Corporate Social Responsibility. The Corporate Governance of the 21st Century, International Bar Association Series, The Hague, 2005

[19] PARLAMENTO EUROPEO, Risoluzione sulle norme comunitarie applicabili alle imprese europee che operano nei Paesi in via di sviluppo: verso un codice di condotta europeo, adottata in data 15 gennaio 1999, in GUCE, p. 180 ss

[20]CONSIGLIO EUROPEO DI LISBONA, Conclusioni della Presidenza, Lisbona, 23.24 marzo 2000

[21]Cfr. Art. 2 e Art. 127 TCE. Venne creato un comitato per l’occupazione con funzioni consultive

Philip Roth in fuga da Bisanzio

Un uomo anziano seduce una donna molto più giovane. Nell’Animale morente di Philip Roth, David Kepesh, professore di Practical Criticism, conquista la giovane Consuela Castillo, studentessa appena ventenne, con l’aiuto di un raro manoscritto di Kafka. David le propone incontri erotici, stabilisce con lei un rapporto di potere, segnato da avarizia amorosa ed intenso desiderio sessuale; Consuela infrange immediatamente le regole del gioco e gli preannuncia, fin dalla prima volta, che non sarà mai sua moglie. L’ingenuità della ragazza e la sua grande bellezza rovesciano la relazione asimmetrica. David si scopre geloso di lei (‘la interrogo (ma saperlo a che cosa può servire?) sui suoi amichetti, le chiedo di dirmi con quanti è andata a letto prima di me e quando ha cominciato e se è mai stata con un’altra ragazza o con due uomini in una volta (o con un cavallo, o un pappagallo, o una scimmia), ed è stato in quel momento che mi ha detto che erano solo cinque’ – p. 33). A lei ormai sottomesso, anche eroticamente, David la allontana spaventato dalla sua vita. Ma non riesce a dimenticarla. Qualche anno più tardi, Consuela, ammalata di cancro, lo cerca. David, alter ego più fortunato del Professor Unrat, risponde. Il suo interlocutore lo avverte – ‘Pensaci. Rifletti. Perché se ci vai, sei finito’ (p. 113) – ma David va. La differenza d’età – quarant’anni – si dissolve: una storia d’amore può finalmente nascere.

Con L’animale morente, Roth non ha scritto un mélo, nonostante il finale. Non ha scritto un romanzo sull’erotismo maturo o la rivoluzione sessuale dopo il ’68, bensì sul tempo, il senso del tempo che prima allontana poi avvicina i due protagonisti. David è un uomo anziano, vede la distanza temporale che lo divide dalla ragazza come molto lunga; Consuela è giovane, sente quella distanza come immensa. David vede la distanza che lo separa dalla morte come breve; Consuela la sente come infinita. La malattia rovescia le percezioni. In pericolo di morte, Consuela diventa coetanea di David perché ne condivide ormai l’idea, straziante, del futuro (‘ora il suo senso del tempo è come il mio, incalzante e ancor più sconsolato del mio. Consuela, in realtà, mi ha sorpassato’ – p. 108). E diventa, a sua volta, un ‘animale morente’.

Il titolo del romanzo, The Dying Animal, ricompare nell’unica citazione letteraria dell’opera. Dopo un incontro sessuale, David si acquieta. Non è più ‘malato di desiderio’ – racconta all’interlocutore (‘Ma qui ho il mio orgasmo, la lezione di fantasia è finita e, per il momento, io non sono più malato di desiderio. Non era Yeats? ‘Consumami il cuore; malato di desiderio/e avvinto a un animale morente/che non sa cos’è’. Yeats. Sì. ‘Preso da quella musica sensuale’, e così via’ – p. 75). È, questa, la citazione sincopata di alcuni versi della celeberrima Sailing to Byzantium del 1926, forse la più amata, studiata, citata lirica del poeta irlandese, insieme con la successiva Byzantium (‘O saggi, voi che state nel fuoco sacro di Dio / come nell’oro musivo su una parete, uscite / dal fuoco sacro, scendete in fila a spirale, / e siate i maestri di canto dell’anima mia. / Consumate il mio cuore; malato di desiderio / e avvinto a un animale morente / non sa cos’è’ – Consume my heart away; sick with desire / and fastened to a dying animal / it knows not what it is). Quella di Roth è una citazione importante, perché suggerisce il titolo e in un certo senso sintetizza il romanzo, pur collidendo con la sua struttura narrativa. Sailing to Byzantium è interamente costruita sulla voglia di fuga dall’Irlanda (perché ‘non è un paese per vecchi’) e il desiderio di navigare verso Bisanzio, il luogo dei ‘monumenti dell’intelletto che non invecchia’ (monuments of unaging intellect). L’Irlanda è lo stato di natura, abitato da quanto è generato, nasce e muore come gli esseri umani (i giovani che si abbracciano) e gli animali (gli uccelli che cantano sugli alberi, gli sgombri ed i salmoni). Ma il poeta è anziano. Il suo cuore è malato di desiderio, è preso dalla musica sensuale della giovinezza (caught in that sensual music) ma vuole fuggirla perché soffre nell’esserne escluso. Perché vuole fuggire la morte. E un vecchio altro non è se non ‘una misera cosa / un cappotto lacero, appeso ad un bastone’. La soluzione, per Yeats, è nello ‘studio dei monumenti della sua magnificenza’ (i.e. dell’anima), nell’‘artificio dell’eternità’ che lo liberi dalla natura mortale, e negli elementi che quell’eternità compongono: gli uccelli meccanici degli orefici bizantini, i mosaici.

     Gli uccelli meccanici sono gli automi, frutto delle ricerche di Erone di Alessandria negli Pneumatica (I secolo d.C.), forse progettati dall’imperatore Teofilo (813-842) o da Leone VI il Matematico (886-912), oppure prestito culturale abbaside o fatimida, giunto da Baghdad. Nella sala di Salomone del palazzo Magnaura, cinguettavano sull’albero di bronzo dorato, di fronte al trono. Li descrivono due fonti di X secolo: Liutprando, vescovo di Cremona, nel resoconto del viaggio diplomatico che compì a Costantinopoli alla corte di Costantino VII Porfirogenito e il trattato de cerimoniis, redatto per ordine dello stesso imperatore. I mosaici sono invece quelli visitati da Yeats nel 1924 a Ravenna e a Monreale ma dislocati in Santa Sofia, nella Bisanzio giustinianea già descritta in A Vision e colta un attimo prima della chiusura dell’Accademia ma scrutata dall’estremo Occidente, dall’Irlanda, fantasticando sul Book of Kells. Questa la soluzione proposta da Yeats. David Kepesh, invece, pur angosciato dalla vecchiaia, soprattutto quella invisibile che precede di un soffio la decadenza fisica, non ricorre ai monumenti dell’intelletto per sconfiggerla, alla metafora di un sapere ‘disinteressato’, alto e artificiale. Segue la legge del desiderio come strumento di vittoria sulla morte. Non lo fa neppure quando la sua esperienza incontra la sconfitta. Non soffre di tedio. Alla fine non fugge dal paese dei giovani, decide di restarvi, rimanendo al fianco di Consuela, giovane donna non più giovane. Sottile, la citazione di Yeats, e ingannevole perché rovesciata.

 

                                                            

     Philip Roth, L’animale morente, traduzione di Vincenzo Mantovani, Torino, Einaudi, 2002 (2001). L’opera è dedicata a N.M. (Norman Mailer?). David Kepesch è già protagonista di The Breast (1972) e di Professor of Desire (1977). Nei tre romanzi Roth esplora le diverse età del desiderio. Mondo ebraico e mondo irlandese s’incontrano ancora in Pastorale americana, nelle figure di Seymour Levov, lo ‘Svedese’, e di sua moglie, la celtica Dawn Dwyer. Il motivo della fuga e del tedio intellettuale risale a Mallarmé, al suo Brise marine: La chair est triste, hélas! Et j’ai lu tous les livres. / Fuir! Là-bas fuir …

     Thomas S. Eliot scriveva in Lune de miel (1920): Et Saint Apollinaire, raide et ascétique, / vieille usine désaffectée de Dieu, tient encore / dans ses pierres écroulantes la forme précise de Byzance. William B. Yeats compose Sailing to Byzantium nell’autunno 1926 e la pubblicò l’anno successivo (The Collected Poems of W.B. Yeats. Definitive Edition, With the Author’s Final Revisions, London/New York, The Macmillan Company 1950, p. 193 s.). Sempre Yeats, in Una Visione: ‘Credo che se potessi vivere un mese dell’antichità, e mi fosse concesso il diritto di trascorrerlo dove mi pare, lo trascorrerei a Bisanzio poco prima che Giustiniano inaugurasse Santa Sofia e chiudesse l’Accademia Platonica’, cioè tra il 529 ed il 537. A Bisanzio, simbolo coltissimo dell’unità della cultura umana ‘il pittore, il mosaicista, l’artigiano che lavorava l’oro e l’argento, il miniaturista di libri sacri, erano quasi impersonali, forse quasi inconsapevoli di intenti individuali, immersi nel loro soggetto, che era la visione di un intero popolo’ (Milano, Adelphi 2003, pp. 289-90). Sulla fascinazione che l’idea della fuga nel disinteresse estetico – cantata da Yeats – ha esercitato sulla produzione matura di Roth, si veda J. Knowles, ‘Yeatsian Agony in Late Roth’, Philip Roth Studies 13, 2017, pp. 87-94.

     Liutprando da Cremona, Antapodosis VI 5, p. 147 Chiesa CCM CVI ‘davanti al seggio dell’imperatore stava un albero di bronzo ma ricoperto d’oro i cui rami erano pieni di uccelli di bronzo dorato, che emettevano suoni diversi per ciascuna specie. Il trono imperiale era congegnato in modo tale che ora ci appariva basso, ora più alto, poi improvvisamente altissimo. Ed era immenso, non so se fatto di bronzo o di legno, ma di sicuro erano ricoperti d’oro i leoni che stavano ai lati come per custodirlo e, percuotendo il pavimento con la coda, dalle fauci spalancate, muovendo la lingua, emettevano un ruggito. Con due eunuchi alle costole fui condotto in questa dimora, al cospetto dell’imperatore. Sebbene al mio ingresso i leoni ruggissero e gli uccelli strepitassero ciascuno secondo la sua specie, non ebbi alcun timore e nemmeno un moto di meraviglia, visto che tutte queste cose mi erano state raccontate da persone che le conoscevano bene. Così, dopo che per la terza volta mi ero prosternato davanti all’imperatore, alzai il capo e d’un tratto colui che avevo visto su un  trono e appena sollevato da terra mi apparve seduto quasi all’altezza del soffitto, e abbigliato d’altre vesti. Non seppi spiegarmi come potesse essere accaduto, se non che forse lo avessero sollevato con uno di quegli argani con cui si sollevano gli alberi dei torchi (trad. di S. Ronchey); De cerimoniis II 15 pp. 566-568 Reiske CSHB I; Erone di Alessandria, Pneumatica I 15 pp. 89-99 Schmidt. La tessitura delle fonti di Sailing to Byzantium è ricostruita da P.Th.M.G. Liebregts, Centaurs in the Twilight. W.B. Yeats’s Use of the Classical Tradition, Amsterdam-Atlanta, GA, Editions Rodopi B.V. 1993, pp. 297-302 e S. Ronchey, “On a Golden Bough”. Bisanzio in due poemi di William Butler Yeats, in G. Fiaccadori (ed.), “In partibus Clius”. Scritti in onore di Giovanni Pugliese Carratelli, Biblioteca 36, Napoli, Vivarium 2006, pp. 609-23. Il Book of Kells, manoscritto miniato di eccelsa fattura, è stato realizzato da monaci irlandesi intorno all’800 e contiene il testo in latino dei quattro Vangeli. E’ conservato nella biblioteca del Trinity College a Dublino.

LA RIVISTA RIPRENDE IL SUO CAMMINO

Cari Amici e soci, come promesso, pur se passando per varie traversie che hanno prolungato il periodo di sospensione, la nostra Rivista riprende con l’entusiasmo di sempre e la fiducia confermata di tutti i collaboratori, gli estimatori e, comunque, i lettori curiosi, il proprio cammino.

Gravi sono stati i fatti, gli avvenimenti, talvolta dolorosi e difficilmente, se non definitivamente quanto radicalmente, ostativi alla sua continuità editoriale: ora il nostro Organo di informazione giuridica, e non solo, può riprendere la sua funzione e il suo ruolo, dopo che si è provveduto, da parte nostra, a rinsanguare corpo e mente dei protagonisti.

In quasi due anni di pausa, come in tempi recenti anticipato, l’orizzonte scientifico, culturale e, lato sensu, informativo sui grandi fenomeni, non solo nel campo del diritto ma in tutti i campi dove si svolge vita e attività degli uomini, ci sembra opportuno, sollecitando collaborazioni di ogni tipo, intervenire per incidere, almeno nel campo dell’informazione, in un tessuto sociale oggi particolarmente lacerato e senza chiare prospettive a breve e lungo termine.

È di questi giorni, per un esempio particolarmente significativo che non poteva non coinvolgere il nostro interesse scientifico e, in senso più largo, informativo, l’arricchimento della nostra Costituzione Repubblicana con un riferimento puntuale con la modifica dell’art. 33 della Costituzione al fenomeno dello Sport come componente coessenziale dei rapporti umani, particolarmente tra i giovani, e del loro sviluppo e tutela. Un’altra tessera arricchisce il mosaico rappresentato dall’impegno della nostra Rivista, aggiungendosi al lavoro, all’ambiente e alla sicurezza, nella sua accezione più larga.

Ma, soprattutto, di recente, la nostra Regione – oltre a segnalarsi per ricchezza o originalità, letti i numeri, nel campo del turismo, delle iniziative culturali e di alcune “sperimentazioni” di aggregazione politica – ha visto fiorire nel campo della giustizia, con alcuni provvedimenti giurisprudenziali, forti scosse critiche ed innovatrici che, mettendo in discussione antiche quanto discutibili “certezze”, inducono, più degli interventi legislativi, sincopati e ondivaghi, a ripensare criticamente apparenti opinioni consolidate. Di esse si darà conto nel prossimo numero, pubblicando ora i testi dei provvedimenti ed aprendo uno stimolante dibattito, offrendo nuova linfa alla Rivista.

Tante sono le occasioni e gli stimoli per far rivivere, migliorare ed allargare il campo della Rivista. insieme al nostro Centro Studi.

Questo numero, con le sue novità, appare ancora solo online: ci riserviamo, e speriamo tra breve tempo, di editarlo anche in forma cartacea. Cercheremo sponsors e modalità di finanziamento che muteranno anche struttura associativa e organizzazione interna del Centro.

Per ora bentornati, buona lettura, in attesa di vostre osservazioni e graditi suggerimenti e contributi.

 

Gaetano Veneto

Impresa e lavoro: ritorno al futuro

La relazione tra impresa e lavoro si snoda nella prospettiva del necessario contemperamento degli interessi a ciascuno dei due poli facenti capo.

Il processo, che oggi possiamo dire soggetto a periodiche oscillazioni, è stato, agli albori della Repubblica, dalla nuova Costituzione solennemente dichiarata “fondata sul lavoro”, nettamente segnato dalla tendenza al superamento, all’interno del rapporto di lavoro, dello squilibrio tra organizzazione e subordinazione.

Il disegno culmina nel 1970 nell’emanazione dello Statuto dei lavoratori, che, nel rendere “stabile”, con l’annettere al licenziamento illegittimo la sanzione della reintegrazione nel posto di lavoro, il rapporto, già in precedenza sottratto a forme di interposizione fittizia, tale da separare il lavoratore dall’effettivo utilizzatore della prestazione lavorativa ed alla precarietà dell’apposizione del termine, ammessa solo con riguardo ad ipotesi tassative, ridefinisce “al di là dei cancelli della fabbrica” il perimetro tra autorità e libertà, circoscrivendo i poteri del datore, ma ancor più offrendo sostegno legislativo al consolidarsi nei luoghi di lavoro di un contropotere facente capo ad un soggetto collettivo opportunamente selezionato, in ragione della sua rappresentatività, all’epoca declinata, essenzialmente sul vincolo associativo verso le confederazioni storiche[1].

Intorno alla figura, divenuta egemone, del “sindacato maggiormente rappresentativo” il mondo del lavoro si costituisce come parte di uno “scambio politico”[2], che vede come diretto interlocutore nella definizione della condizione del lavoratore all’interno del rapporto, considerata, peraltro, nel più ampio contesto sociale del suo essere al tempo stesso “consumatore”[3], lo stesso Governo e come contropartita la disponibilità al contenimento delle istanze e delle azioni rivendicative[4].

E’ in particolare sul terreno del conflitto – e siamo negli anni ’90 – che riaffiora la considerazione dell’interesse dell’impresa anche se sotto le sembianze della tutela dell’utenza dei servizi pubblici essenziali, ambito, quello del lavoro pubblico, solo pochi anni prima, a seguito dell’emanazione, nel 1983, della legge quadro sul pubblico impiego, che ne inaugurava la fase della contrattualizzazione[5], acquisito alla dialettica sindacale e ben presto divenuto banco di prova della tenuta del dialogo tra le parti.

In effetti, è intorno alla definizione, negoziata sotto l’egida dalla legge n. 146/1990, delle regole dello sciopero nel settore dei pubblici servizi, affidata all’authority all’uopo costituita, la Commissione di garanzia per gli scioperi nei servizi pubblici essenziali[6] e culminata poi nella sottoscrizione, il 23 dicembre 1998, sotto la sapiente regia del compianto Massimo D’Antona, di un “Patto delle regole nei trasporti”[7], comparto allora connotato da una esasperata conflittualità, che si snoda la stagione della “concertazione” tra Governo e parti sociali[8], inaugurata con la firma, il 22 gennaio 1983, del cosiddetto Protocollo Scotti[9] e tornata poi in auge, all’esito del duro scontro tra sindacato e Governo sulla questione della “scala mobile”[10], con la sottoscrizione del Protocollo del 23 luglio del 1993[11] che prospettava soluzioni concordate tra le parti sulla politica dei redditi e dell’occupazione, sugli assetti contrattuali, sulle politiche del lavoro e sul sostegno al sistema produttivo, segnata dall’assunzione da parte del Governo di un ruolo di mediazione nell’azione di contemperamento degli interessi tra impresa e lavoro; stagione esauritasi nel momento stesso della sua istituzionalizzazione voluta dal governo D’Alema e delineata nel Patto di Natale del 1998[12].

Il nuovo millennio, dismessa la prospettiva della mediazione pubblica, rivelatasi illusoria a fronte della frantumazione della rappresentanza degli interessi e, del resto, superata dal mutamento del clima politico, segna una netta inversione di rotta.

L’estrema flessibilizzazione del rapporto di lavoro, cui, nella prospettiva della “occupabilità”, emersa in sede comunitaria e declinata in ambito nazionale da Marco Biagi nel “Libro bianco sul mercato del lavoro in Italia” del 2001[13], assunto a fonte ispiratrice delle politiche del lavoro dal governo Berlusconi, è la risposta alla strenua resistenza opposta, nell’immediato, al progettato ridimensionamento della tutela reintegratoria avverso il licenziamento illegittimo, che, tuttavia, si imporrà nel decennio successivo, trovando progressiva attuazione con le riforme approvate in rapida successione tra il 2012 ed il 2015, la c.d. “riforma Fornero”[14] ed il Jobs Act del governo Renzi[15], sotto la spinta dell’emergenza economica e nel dichiarato intento di sciogliere i “lacci e lacciuoli”, visti come freno alla competitività della imprese e così favorire gli investimenti produttivi.      

L’arretramento sul fronte della stabilità del rapporto sembra, addirittura, aver spezzato il filo della relazione tra impresa e lavoro, come se questo non si ponesse più quale termine necessario di interlocuzione sul piano dell’organizzazione e della gestione della produzione, ma come mera componente strutturale dell’impresa, riguardata come esclusivo punto di snodo del complessivo sistema dei rapporti socio-economici.

Non è un caso che una recente attenta dottrina[16] tenda a leggere in questa prospettiva l’art. 2086, comma 2, c.c. come di recente novellato dall’art. 375, comma 2, del d,lgs. 12 gennaio 2019 n. 14, attuativo della legge 19 ottobre 201,  recante il c.d. “Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza”, destinato ad innovare l’originaria disciplina in materia posta dalla legge fallimentare ma ancora differito quanto alla sua entrata in vigore al 16 maggio 2022.

La disposizione, nella sua rinnovata formulazione letterale, prevede che “l’imprenditore, il quale operi in forma societaria o collettiva, ha il dovere di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi d’impresa e della perdita della continuità aziendale, nonché di attivarsi senza indugio per l’adozione e l’attuazione di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi ed il recupero della continuità aziendale” .

Ebbene tale obbligo è, dalla richiamata dottrina, ricondotto all’esigenza di salvaguardare quella capacità e continuità produttiva in cui si esprime il valore sociale dell’impresa quale luogo della produzione e così della creazione della ricchezza anche nella modalità dell’impiego di capitali e lavoro.

Un valore sociale che si afferma trovare riconoscimento e tutela nella stessa Costituzione, che, all’art. 41, garantisce la libertà dell’iniziativa economica privata, per quanto, al secondo comma, preveda che questa non possa svolgersi in modo da recare danno alla libertà e dignità umana.

E, sempre nella prospettazione della citata dottrina[17], tale riconoscimento costituzionale postula, in coerenza con l’insegnamento del Giudice delle leggi  secondo cui “tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile, pertanto, individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri”, un vicendevole bilanciamento tra principi e diritti fondamentali, che, cioè, coinvolga tutti gli interessi costituzionali rilevanti senza pretesa di assolutezza per ciascuno di essi, secondo criteri di proporzionalità e di ragionevolezza, così da non consentire un sacrificio del loro nucleo essenziale.

Da qui la richiamata dottrina[18] trae la conseguenza per cui i diritti fondamentali degli stessi lavoratori, siano essi riconosciuti dalla Costituzione sul piano individuale o su quello collettivo, sono necessariamente soggetti ad “un test di proporzionalità e di non eccessività” rispetto al valore che la Carta attribuisce all’iniziativa ed all’attività economica.

A tale stregua l’Autore[19] sostiene il legittimarsi, in funzione della salvaguardia della continuità aziendale, in cui trova espressione il valore sociale dell’impresa costituzionalmente garantito, il carattere recessivo dei diritti del lavoratore, trovando riscontro ancora una volta nella nuova normativa relativa all’impresa insolvente.

Al riferimento al novellato art. 2086, l’Autore[20] aggiunge il richiamo alla possibilità in tale frangente di rinegoziare i debiti contributivi, di sciogliere i contratti di lavoro autonomo, di non applicare gli accordi collettivi in essere, in caso di liquidazione giudiziale, alla sospensione ex lege del rapporto di lavoro subordinato, suscettibile di riattivazione solo ove venga autorizzato l’esercizio provvisorio o di affitto dell’azienda o di un ramo di essa, terminati i quali si ha il ripristino della sospensione fino alla cessazione del rapporto disposta dal curatore o, in caso di inerzia di questi, fino al determinarsi dell’effetto legale della risoluzione di diritto del contratto ed, a fronte dell’insorgere di opportunità di circolazione dell’azienda, al venir meno, anche al di fuori dell’ipotesi di un accordo con le organizzazioni sindacali, delle garanzie lavoristiche per l’inapplicabilità, nella fase di liquidazione del patrimonio, dell’art. 2112 c.c..

Ma non solo, rinvenendo l’Autore[21] ulteriore conferma dell’assunto nella risalente giurisprudenza della Corte di Cassazione[22] sui limiti esterni del diritto di sciopero, desunti dalla necessità di tutelare, a prescindere dall’entità del danno economico che il conflitto può procurare all’imprenditore, la produttività dell’impresa, da intendersi come “salvaguardia degli elementi materiali e strutturali dell’impresa” e così della “possibilità per l’imprenditore di continuare a svolgere la sua iniziativa economica” nonché nelle più recenti pronunzie della Corte costituzionale sul caso ILVA dove l’esigenza del bilanciamento finalizzato alla salvaguardia della “continuità produttiva” dell’impresa è prospettata addirittura rispetto al diritto alla salute[23].

E non manca da parte dello stesso Autore[24] il riferimento all’ordinamento multilivello, relativamente al quale si pone in evidenza, in relazione al riconoscimento nell’ambito della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea di una tale natura alla libertà di impresa[25], la cedevolezza, in tale contesto, dei diritti sociali rispetto appunto alla libertà di impresa ed, in relazione agli orientamenti espressi dalla Corte di Giustizia, in particolare nelle note sentenze Viking e Laval[26] e relativamente al tema delle c.d. clausole sociali, il favore per il mantenimento della competitività del mercato comune europeo, della libera concorrenza e, più in generale, dello sviluppo economico.

La rimodulazione al ribasso dei diritti dei lavoratori viene così ad essere delineata come futura prospettiva regolativa e, addirittura, come schema euristico dell’attuale assetto normativo laddove si auspica la ridefinizione in termini di prevedibilità e calcolabilità delle condizioni e circostanze alla cui stregua condurre il controllo di proporzionalità nel bilanciamento tra libertà di impresa e diritti sociali.

La reazione a tale ricostruzione della relazione tra impresa e lavoro nell’ordinamento nazionale e comunitario, sul piano teorico, si incentra sul richiamo al terzo comma dell’art. 41 Cost., secondo cui “La legge determina i programmi ed i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”, disposizione che proietta fondati dubbi sulla valenza sociale riconosciuta in sé all’impresa nel testo costituzionale e sull’assunzione della medesima quale parametro per lo scrutinio di proporzionalità e ragionevolezza delle regole del lavoro.

Sul piano concreto al fenomeno reale della riduzione della sfera dei diritti per quel che riguarda il lavoro, che si radica in particolare nell’area dei rapporti flessibili, facendo emergere forme di più intensa soggezione ai poteri imprenditoriali oltre che di dipendenza economica, si oppone, come, in particolare, è ampiamente desumibile dall’elaborazione in sede legislativa della discutibile nozione di etero-organizzazione[27], la riconduzione di tali tipologie di rapporti allo statuto protettivo del lavoro subordinato.

Ma si tratta, con tutta evidenza, di un tentativo di forzare la prassi delle relazioni di lavoro quale si manifesta in base alla spontanea dinamica di mercato, destinato all’insuccesso, tendendo il mercato a recuperare, sul versante della produzione o su quello del lavoro, le necessarie corrispondenze tra domanda e offerta.

Appare, al contrario, opportuno, avviare, in coerenza con le ordinarie dinamiche che si svolgono nel rapporto e sul mercato, un’azione che valga a riannodare le fila della relazione tra impresa e lavoro tradizionalmente fatta di interdipendenza ed imprescindibilità.

In questa direzione si muove la proposta di recente avanzata da autorevoli studiosi con il dare alle stampe il loro “Manifesto per un diritto del lavoro sostenibile”[28], che, tuttavia, induce notevoli perplessità per risultare fortemente condizionata dal quadro emergenziale una rilettura del rapporto di lavoro in termini funzionali alla creazione di un ambiente di lavoro in cui le esigenze del lavoratore vengano soddisfatte in una logica di equilibrio con quelle del datore di lavoro, in modo tale che si addivenga ad un contemperamento delle esigenze di competitività aziendale con quelle di sostenibilità del lavoro,  nel presupposto che questa giovi non solo al lavoratore ma anche alla produttività ed all’efficienza dell’impresa.

Il lavoro sostenibile è in sostanza concepito come sistema lavorativo in grado di essere efficiente e di raggiungere obiettivi economici ed operativi valendo nel contempo a favorire lo sviluppo delle risorse umane e sociali, atteso che l’apprendimento basato sul lavoro, lo sviluppo, il benessere è funzionale alla crescita della capacità dei lavoratori di far fronte alle richieste del mondo esterno agevolando l’interazione paritaria ed aperta con i vari stakeholder, una migliore comprensione reciproca ed una più fattiva collaborazione.

Viene in questo quadro dato rilievo alle trasformazioni dei sistemi organizzativi e produttivi, legati al crescente utilizzo delle tecnologie.

In primo luogo, per ricollegare a quelle trasformazioni, da un lato, la perdita di valore significante dei tradizionali confini tra lavoro subordinato e autonomo a fronte  di una realtà effettuale dei modi di lavorare che incide nel duplice senso di determinare l’evolvere nella direzione dell’autonomia della prestazione resa nell’ambito di rapporti di lavoro subordinato e, per converso, l’accentuarsi dei profili di dipendenza e di debolezza economica in rapporti formalmente autonomi, dall’altro, il mutare della stessa struttura obbligatoria del contratto di lavoro subordinato, a muovere dalla sua causa, che supera il mero scambio tra lavoro e retribuzione, di marcato sapore conflittuale, per ricomprendere una relazione incentrata sul binomio collaborazione/partecipazione. E ciò in una prospettiva ricostruttiva delle posizioni delle parti del rapporto che, in piena coerenza con il concetto di sostenibilità, che riflette le direttive della solidarietà e del contemperamento tra interessi assiologici confliggenti, se impone al lavoratore di collaborare agli scopi produttivi dell’impresa ed alla gestione competitiva della stessa, delinea l’impresa come debitrice non della sola retribuzione ma altresì di un dovere di sicurezza della persona del lavoratore e di riconoscimento del suo ruolo essenziale nell’attività di produzione anche attraverso la valorizzazione delle sue competenze e capacità. 

In secondo luogo, per individuare di quelle trasformazioni la reale portata, ponendosi il dubbio che alla rivoluzione digitale non si colleghi soltanto una diversa modalità di organizzazione, subordinazione o sostituzione del lavoro umano ma che il ricorso agli algoritmi o al big data rifletta una nuova forma di capitalismo che solleciti una più radicale riregolazione delle relazioni di lavoro in funzione dell’imprescindibile riequilibrio delle posizioni di potere e del contenimento dei rischi di mercificazione e sfruttamento.

Da ultimo per arginare gli effetti che a quelle trasformazioni si ricollegano in termini di inasprimento delle disuguaglianze non solo tra insiders e outsiders, che sollecita la costruzione di un welfare in grado di offrire in questa fase di transizione un sostegno economico agli esclusi, bensì all’interno dello stesso mercato del lavoro in ragione della perdita di valore di professionalità obsolete non controbilanciate da adeguate strategie volte a favorire formazione e mobilità

Una tale prospettiva non risulta congrua rispetto all’obiettivo di una crescita coerente con l’evoluzione, anche tecnologica, di una economia di mercato, nella quale resta centrale il fattore lavoro, postulando le trasformazioni del sistema produttivo la disponibilità di know how specialistici la cui acquisizione resta fondata sullo scambio che continua a trovare misura nel valore che l’oggetto di quello strumentalmente assume secondo la tradizionale logica della domanda e dell’offerta. 

E tale centralità appare di per sè idonea a sostenere il proseguire in un percorso di valorizzazione del lavoro in termini di professionalità e di costo e, per questa via, ad inaugurare una nuova stagione dei diritti, in funzione del recupero del perdurante squilibrio che segna la relazione tra organizzazione e subordinazione.

La prospettiva auspicabile è, appunto, quella di associare al lavoro un valore di mercato reale e remunerativo, elevandone la qualità attraverso l’adeguamento delle competenze alle rinnovate esigenze specialistiche emergenti nel contesto della quarta rivoluzione tecnologica.

Una prospettiva che ripropone in termini adeguati al rinnovato contesto economico la tradizionale relazione tra impresa e lavoro, mediata da un contratto idoneo ad esprimere il reciproco riconoscimento dell’essenzialità dei due poli del rapporto in funzione di uno scambio, indotto dal perseguimento di distinti interessi, che nella parità formale insita nella corrispettività delle obbligazioni incorpora l’asimmetria sostanziale delle contrapposte posizioni di autorità e soggezione, al cui riequilibrio in favore dei lavoratori, in termini di adeguamento dello spazio di diritto al rinnovato assetto del sistema produttivo, l’opzione costituzionale assegna una assoluta priorità.

                                                                                   (Nicola De Marinis)


[1] Vedi, per tutti, G. Perone, Lo Statuto dei lavoratori, in Trattato di diritto privato, diretto da P. Rescigno, Aggiornamento, Estratto, Torino, 1997, 58

[2] Vedi A. Pizzorno, Scambio politico ed identità collettiva nel conflitto di classe, in C. Crouch,  A. Pizzorno, Conflitti in Europa. Lotta di classe, sindacati e Sato dopo il 1968, Milano, 1977, 407 nonché E. Rusconi, Scambio politico, in Laboratorio politico, 1981, n. 2

[3] A. Vallebona, Il lavoratore-consumatore nel diritto del lavoro attuale, in Dir. lav., 1983, I, 206

[4] Sull’effetto di istituzionalizzazione del sindacato che consegue all’adozione del criterio della maggiore rappresentatività cfr. per tutti G. Santoro Passarelli, Istituzionalizzazione della rappresentanza sindacale? e B. Veneziani, Il sindacato dalla rappresentanza alla rappresentatività, entrambi in A.I.D.La.S.S., Rappresentanza e rappresentatività del sindacato, Atti delle giornate di studio di diritto del lavoro, Macerata, 5-6 maggio 1989, Milano, 1990

[5] Mi si consenta il rinvio a N. De Marinis, I modelli della rappresentanza sindacale tra lavoro privato e lavoro pubblico, Torino, 2002, 102 e ss.

[6] Sull’azione regolativa della Commissione si veda per tutti la puntuale analisi di cui alla monografia Conflitto e autonomia collettiva. Contributo allo studio della regolamentazione contrattuale del diritto di sciopero, Torino, 2005 da Giovanni Pino che dal suo esordio ha seguito l’attività della Commissione nella sua posizione di Capo di Gabinetto della Commissione ed al quale, nel momento del suo allontanamento per raggiunti limiti di età, è dedicato questo scritto

[7] Sia consentito ancora il rinvio a N. De Marinis, Sciopero e concertazione nei trasporti: dalla legge n. 146/90 al Patto del 23 dicembre 1998, in Mass. giur. lav., 1999, p. 352.

[8] Per un’analisi generale delle prassi della concertazione sociale vedi R. De Luca Tamajo, Garantismo legislativo e mediazione politico-sindacale: prospettive per gli anni ’80, in Riv. it. dir. lav., 1982, I, 30; F. Carinci, Il diritto del lavoro fra neo-corporativismo e neo-istituzionalismo, in Pol. dir., 1983, I, 7; T. Treu, L’intervento del sindacato nella politica economica, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 1983, 77; De Marco, La negoziazione legislativa, Padova, 1984; G. Giugni, Concertazione sociale e sistema politico in Italia, in Giorn. dir. lav. rel. ind, 1985, 53; G. Vardaro (a cura di), Diritto del lavoro e corporativismi in Europa: ieri e oggi, Milano, 1988; Id., Corporativismo e neo-corporativismo, in Dig. Disc. Priv. Comm., IV, 1989, 177; G. Ghezzi, Effetti sul diritto del lavoro e riflessi costituzionali dei procedimenti di concertazione sociale, in Boll. Inf. Cost. Parl., 1993, 55 e ora in Id., Dinamiche sociali, riforma delle istituzioni e diritto sindacale, Torino, 1996, 196, 197; Id., Accordi interconfederali e Protocolli d’intesa, in Enc. dir. (Aggiornamento), Milano, 1999, I; L. Bellardi, Concertazione e contrattazione. Soggetti, poteri e dinamiche regolative, Bari, 1999; La concertazione tra parti sociali e istituzioni, Convegno in memoria di Massimo D’Antona, Università degli Studi “La Sapienza” di Roma, sotto l’alto patronato del Presidente della Repubblica, Roma, 14 ottobre 1999, con relazioni di F. Carinci, P. Capotosti, M. D’Alberti, M. Ferrera, E. Ghera, A. Maresca; AA.VV., Parlamento e concertazione, in Quad. Arg. dir. lav., 1999, n. 3; F. Carinci, Storia e cronaca di una convivenza: Parlamento e concertazione, in Riv. trim. dir. pubbl., 2000, I, 35

[9] A riguardo vedi L. Mariucci, T. Treu, G. Ghezzi, F. Carinci, Il Protocollo di gennaio, in Pol. Dir., 1983, 187; G. Perone, L’accordo sul costo del lavoro: problemi e prospettive, in Dir. lav., 1983, I, 91; E. Ghera, Accordo trilaterale: la via italiana alla politica dei redditi, in Mondoperaio, 1983, 17;

[10] Il riferimento è al “taglio” della contingenza, ridotto ad un semestre, che viene inserito nel d.l. 15 febbraio 1984, n. 10, reiterato per scadenza dei termini nel d.l. 17 aprile 1984, n. 70 e convertito con modifiche , dopo una dura battaglia parlamentare, nella lgge 12 giugno 1984, n. 219: a riguardo cfr.  U. Romagnoli, Lo strappo di febbraio, in Pol. dir., 1984, 305; G. Ghezzi, G. Ferraro, L. Mariucci, T. Treu, Scala mobile e immobilismi, ivi, 1984, 336; A. Cessari, La crisi sindacale del febbraio 1984, in Riv. it. dir. lav., 1984, I, 213; C. Assanti, Il taglio della scala mobile. Un decreto che colpisce la contrattazione, in Dem e dir., 1984, 19; L. Mariucci, Non è più uguale a ieri il sindacato del dopo decreto, ivi, 1984, 21; P. Sandulli, Il costo del lavoro dall’accordo al decreto, in Dir. lav. 1984, I, 17; G. Giugni, Concertazione sociale e sistema politico in Italia, cit.; T. Treu, Relazioni industriali (voce per un’enciclopedia), in Giorn. dir. lav. rel. ind. 1986, 475;

[11] Cfr. G. Giugni, L’accordo sul costo del lavoro un’intesa densa di novità, in Lav. inf., 1993, n. 13, 5; F. Carinci, Il Protocollo d’intesa 23 luglio 1993 fra storia e cronaca, in Riv. pol. ec., 1993, n. 10, 155.

[12] Vedi a riguardo gli Autori citati alla nota 8

[13] Trattasi, com’è noto, del documento programmatico (pubblicato dal Ministero del Lavoro nell’ottobre 2001) relativo alle politiche del lavoro dell’appena insediato Governo di centro-destra, che di lì a poco veniva tradotto in un disegno di legge approdato al Senato il 15 novembre 2001 con il numero 848, da cui scaturirà, dopo un lungo braccio di ferro con il sindacato, fortemente contrario alla prevista revisione dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, superato, dopo lo stralcio dell’ipotizzata modifica, ma scontando, comunque, una forte lacerazione interna al sindacato per la perdurante opposizione della CGIL alla residua proposta, con la sottoscrizione da parte delle sole Cisl e Uil  del “Patto per l’Italia” del 3 luglio 2002, la legge delega n. 30/2003. Per una analisi dei contenuti del Libro Bianco e del successivo cammino della riforma vedi  T. Treu, Il Libro Bianco sul lavoro e la delega del governo, in Dir. Rel. Ind., 2002, pag. 115; G. Ghezzi, Introduzione, in AA.VV. Lavoro, ritorno al passato. Critica del Libro Bianco e della legge delega al Governo Berlusconi sul mercato del lavoro, Roma, 2002; F. Carinci e M. Miscione (a cura di), Il diritto del lavoro dal “Libro Bianco” al Disegno di legge delega 2002, Milano, 2002; G. Ferraro, La flessibilità in entrata alla luce del Libro Bianco sul mercato del lavoro, in Riv. It. Dir. Lav., 2002, I, pag. 423; L. Mariucci, La forza di un pensiero debole. La critica del “libro bianco del lavoro”, in Lav. Dir., 2002, n. 1, pag. 3; M. Rusciano, A proposito del Libro Bianco sul mercato del lavoro in Italia, in www.unicz.it/lavoro, 2002; P. Campanella, Il Libro Bianco ed il disegno di legge delega in tema di mercato del lavoro, in Lav. Giur. 2002, n. 1, pag. 5; V. Pinto, R. Voza, Il Governo Berlusconi e il diritto del lavoro: dal Libro Bianco al disegno di legge delega, in Riv. Giur. Lav. 2002, I, pag. 453; V. Pinto, Lavoro e nuove regole. Dal libro bianco al decreto legislativo 276/2003, collana Formazione ISF/CGIL, Roma, 2004.

[14] A riguardo vedi F. Carinci, M. Miscione (a cura di), Commentario alla Riforma Fornero, in Dir. Prat. Lav., Suppl. al n. 33, 2012, 137; M. Magnani, M. Tiraboschi, La nuova riforma del lavoro, Commentario alla legge 28 giugno 2012, n. 92, Giuffrè, Milano, 2012; A. Vallebona, La riforma del lavoro 2012, Giappichelli, Torino, 2012  T. Treu, Flessibilità e tutele nella riforma del lavoro, in Dir. lav. rel. ind., n. 1/2013, S. Brusati, E. Gragnoli, Una prima esperienza sulla nuova disciplina dei licenziamenti. Seminario in onore di Michele De Luca, in Quad. Arg. dir. lav., n. 12, 2014

[15] In merito cfr. E. Ghera, D. Garofalo, Le tutele per i licenziamenti e per la disoccupazione involontaria nel Jobs Act, Commento ai decreti legislativi 4 marzo 2015, nn 22 e 23, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183, Bari, 2015; L. Fiorillo – A. Perulli (a cura di), Contratto a tutele crescenti e Naspi. Decreti legislativi 4 marzo 2015, n. 22 e n. 23, Torino, 2015, G. Zilio Grandi, M. Biasi (a cura di), Commentario breve alla riforma “Jobs Act”, Padova, 2016; F. Basenghi, A. Levi (a cura di), Il contratto a tutele crescenti, Milano, 2016

[16] Il riferimento è a M. Marazza, Il diritto del lavoro per la sostenibilità del valore sociale dell’impresa, relazione al Congresso A.I.D.La.S.S., Il diritto del lavoro per una ripresa sostenibile, Taranto, 28, 29, 30 ottobre 2021

[17]Il riferimento è a M. Marazza, op. ult. cit., p. 7 della bozza provvisoria pubblicata sul sito dell’A.I.D.La.S.S

[18] Si cita ancora M. Marazza, op. ult. cit., p. 7

[19] Così M. Marazza, op. ult. cit., p. 7

[20] Vedi M. Marazza, op. ult. cit., p. 8

[21] Cfr. M. Marazza, op. ult. cit., p. 11

[22] Cfr. Cass. 30 gennaio 1980, in Foro It., 1980, I, 25

[23] Così espressamente Corte cost. 23.3.2018, n. 58

[24] M. Marazza, op. ult. cit., p. 21 e ss.

[25] Cfr. art 16 CDFUE

[26] Trattasi rispettivamente delle decisioni CGUE 11 dicembre 2007, C-438/05, Viking e 18 dicembre 2007, C-341/05, Laval un Patneri, su cui si vedano gli ampi riferimenti in M. Marazza, op. ult. cit,, alla nota 75 della bozza  

[27] Vedi art. 2, d.lgs. n. 81/2015, nel testo modificato dal d.l. n. 101/2019 convertito con modificazioni nella legge n. 128/2019 e 15, l. n. 81/2017. Inserisce la nuova nozione in quella che chiama “saga denominata vis espansiva del diritto del lavoro” O. Mazzotta, Lo strano caso delle “collaborazioni organizzate dal committente”, in Labor, Il lavoro nel diritto, 1-2, 2016. Alla rinnovata tendenza espansiva delle tutele giuslavoristiche fa riferimento anche R. De Luca Tamajo, La sentenza della Corte d’Appello di Torino sul caso Foodora. Ai confini tra autonomia e subordinazione, in LavoroDiritti Europa, n. 1/2019

[28] Il riferimento è a B. Caruso, R. Del Punta e T. Treu autori del testo pubblicato in csdle.lex.unict.it 20 maggio 2020

Zito Eleutheria! (Vive la liberté!) … ovvero: “guerra giusta”, politica e cultura nel mondo di ieri e di oggi.

Si è appena conclusa al Louvre l’exposition intitolata Paris-Athènes. Naissance de la Grèce moderne 1675-1919. La mostra ha ricostruito il filo delle relazioni intrattenute dai due paesi, il contributo di entrambi alla costituzione dell’identità culturale d’ognuno e l’emergenza di un modello culturale europeo, quello antico. L’arco temporale definito comprende la riscoperta della Grecia bizantina e ottomana da parte del marchese Charles de Nointel, in viaggio per la Sublime Porta nel 1675. Include l’impegno militare e culturale speso dai Francesi in favore della guerra d’indipendenza del 1821, l’acquisizione concomitante della Venere di Milo, la spedizione in Morea, gli scavi archeologici a Delo, Delfi e Taso. Si spinge fino alla presenza greca, con due sontuosi padiglioni, alle Esposizioni universali parigine del 1889 e 1900. Si chiude con la mostra del gruppo di artisti Omada Tehni, sempre a Parigi, nel 1919. All’interesse francese per la Grecia fa eco la costruzione dell’identità del nuovissimo stato, diviso tra il sogno politico della riconquista di Costantinopoli e la realtà della ‘Grande Catastrofe’, la guerra greco-turca del 1919-1922 che provocò l’esilio massiccio dei Greci dell’Asia Minore. Affidata a una monarchia e alla cultura neoclassica tedesca – cui l’invenzione di una tradizione s’ispirò in molti ambiti culturali, da quello architettonico all’adozione del costume nazionale – la giovane Grecia guardò più in generale a modelli europei ma non perse mai di vista il modello francese che aveva conosciuto già al tempo dei principati latini dei Franchi.

Zito Eleutheria! (Vive la liberté!) è il grido che Eugène Delacroix prestava nel Journal al soldato greco pronto a lanciarsi contro il nemico. Filelleno, Delacroix identificava gli eroi dell’indipendenza con gli antichi Greci, campioni della libertà contro l’impero persiano. La mostra celebra l’impegno francese in Grecia come missione culturale, non di rapina. Risponde con forza all’immagine della cultura antica come schiavista, misogina e razzista. Non risolve, né potrebbe farlo, il problema più generale ma cruciale, quello della distanza tra azione militare, sia pure ‘guerra giusta’, politica e cultura.

Annalisa Paradiso