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Crescita a ogni costo o priorità del fattore lavoro al centro dello sviluppo? La scelta decisiva del futuro prossimo

Nell’articolo pubblicato a mia firma nel numero della rivista di settembre 2018 dal titolo “IL LAVORO AL TEMPO DELLA SHARING ECONOMY E DELLA GIG ECONOMY” è stato affrontato il grande tema delle diseguaglianze indotte dalle innovazioni tecnologiche e le possibili soluzioni per ridurre l’indice di Gini[1], unico fattore numerico che fotografa le diseguaglianze. Il focus era mostrare come stesse cambiando il mondo dl lavoro, quali conseguenze avessero le innovazioni tecnologiche sulle varie professioni e in conclusione proporre un paio di soluzioni come il “lavorare meno, lavorare tutti” e il reddito universale non a carico delle fiscalità generale ma a carico, tramite un fondo comune in cui convogliare quota parte del pacchetto azionario, dei grandi player di Internet, le famose FAGA (Facebook, Apple, Google e Amazon). Ora cerchiamo di allargare lo sguardo. Cerchiamo di capire dove trovare il nuovo punto di equilibrio tra l’uomo e le macchine, dove per macchine si intendono sia le macchine fisiche ma anche l’Intelligenza artificiale e tutto il mondo tecnologico immateriale che gravita intorno all’uomo. È chiaro che in questo caso la politica scende in campo prepotentemente. È un po’ come se fossimo alla vigilia dello “Statuto dei Lavoratori” del 1970. Allora il lavoro nelle aziende, industriali in particolare, in vorticoso sviluppo con automazione ed informatizzazione appena introdotte ed alle prime esperienze, era più semplice e certamente non risentiva delle spinte fortissime della globalizzazione di oggi. Tuttavia la spinta all’emancipazione dei lavoratori e il bisogno di affermazione dei loro diritti era altrettanto impetuosa e necessitava di una risposta. I politici dell’epoca “fecero entrare la Costituzione nelle fabbriche” si pensò che con i suoi 41 articoli della Legge 300 del 1970 si potesse dare una esaustiva risposta al mondo del lavoro. Regolamentazione che ha funzionato fino a quando le esigenze neo-liberiste di dividere il mondo del lavoro, mercificando il lavoro stesso, non sono diventate così forti per massimizzare i profitti, da trovare valide sponde nel mondo politico. Tutto ciò ha portato ad un allargamento delle diseguaglianze economiche e sociali così che il sistema sta andando eccessivamente sotto tensione. Senza contare che il fattore sostenibilità sta diventando un imperativo, se solo vogliamo usare il termine futuro nei nostri ragionamenti.

Ora, se dal 2010 si sta verificando un fenomeno mai visto prima, e cioè sta aumentando la produttività a livello globale e sta diminuendo l’occupazione e pertanto bisogna decidere a cosa dare priorità: alla crescita a ogni costo o priorità del fattore lavoro. Privilegiare la crescita senza preoccuparsi di sostenibilità e conseguenze occupazionali dovute all’automazione può essere frutto della convinzione che il sistema troverà da solo – come quasi sempre accaduto in passato – un nuovo punto di equilibro. Ma un tale approccio può non essere compatibile con i numerosi vincoli di sostenibilità. Favorire la centralità dell’uomo non significa rifiutare il progresso. Al contrario, questa scelta richiede la prefigurazione di un sistema nel quale l’uomo interagisca con la tecnologia senza però arrendersi alle macchine, che persegua la crescita ma in modo sostenibile, che aumenti la ricchezza prodotta ma ripartendola equamente, che migliori la produttività ma anche la qualità di vita e lavoro.

Mettere la persona al centro è il punto di partenza che fa del sistema valoriale la bussola da seguire per trovare la giusta rotta ed operare alcune scelte imprescindibili. Bussola alla mano, ci accingiamo allora a formulare qualche proposta per affrontare in modo socialmente equilibrato e sostenibile, anche dal punto di vista finanziario, il mondo rivoluzionato dalle innovazioni.

Occorre innanzitutto un nuovo quadro normativo che regoli alcune criticità – legali, fiscali, etiche – relative alle nuove tecnologie e che aiuti a inserire i vincoli di sostenibilità nel modello di crescita economica. È necessaria una politica economica che renda economicamente vantaggioso un comportamento sostenibile e una politica del lavoro che concili la tutela di quello esistente con la creazione di quello nuovo. Gli interventi redistribuivi, come quelli evidenziati nel mio precedente articolo, sono importanti ma “difensivi”. Non sono sufficienti. Bisogna rafforzare il sistema economico e sostenere le attività ad alta intensità di lavoro anche nei settori tradizionali investendo in ricerca e stimolando attività in cui la qualità del capitale umano sia centrale.

1. Obbiettivo sostenibilità: rottamazione o aggiustamento del modello di crescita tradizionale?[2]

All’approccio ideologico della “rottamazione” è preferibile quello più pragmatico dell’”aggiustamento” anche perché tra le possibili alternative al modello tradizionale nessuna sembra completa per sostituirlo interamente. Il riassestamento è facile a dirsi ma complicato da realizzarsi: consiste nell’inserire nel processo decisionale volto a massimizzare il risultato economico nel presente anche una variabile che tenga conto delle generazioni future. L’obbiettivo è allineare il valore economico con quello sociale. A tal fine occorre considerare due aspetti.

Il primo è il livello di intervento che può essere internazionale o locale.

Se vogliamo incidere sui cambiamenti climatici, deforestazione, gestione dei flussi migratori, dobbiamo agire a livello planetario.[3]

In altri casi come il dissesto idrogeologico, inquinamento di fiumi, modello di sfruttamento del suolo, serve agire a livello nazionale e locale coinvolgendo settore pubblico, imprese i cittadini.

Il secondo aspetto riguarda la modalità degli interventi che possono essere:

  • coercitivi,
  • sanzionatori,
  • incentivanti,
  • disincentivanti
  • persuasivi, con conseguente consenso ed accettazione generale.

Una sesta modalità potrebbe essere investire in ricerca e sviluppo per aumentare la sostenibilità.

Qualunque sia il mix di meccanismi prescelti per migliorare il modello tradizionale di crescita, la diffusione di una cultura della sostenibilità è essenziale. E all’aggiustamento del modello deve seguire l’introduzione di un metodo di misurazione dei risultati che dia un peso ai tanti fattori che contribuiscono al benessere delle persone, senza dimenticare che crescita economica e innovazioni non sono nemiche della sostenibilità ma possono essere i migliori strumenti per perseguirla.

2. Oltre la responsabilità sociale d’impresa

A livello microeconomico, la sostenibilità sta faticosamente entrando nel mondo delle imprese e nelle preferenze dei consumatori. Alcune aziende l’hanno solo incorporata nella comunicazione. Le più lungimiranti hanno adattato il modello di business rendendola parte integrante della strategia e un vantaggio competitivo.

I risultati sono tangibili: le imprese con un programma per la sostenibilità tendono a essere più produttive, le linee di prodotti eco-solidali hanno risultati migliori. Il trend è forte nei settori alimentare e bevande, cosmetico e prodotti per l’igiene, abbigliamento e calzature ed è in crescita per auto, mezzi di trasporto, grande distribuzione, imballaggi, elettrodomestici ed elettronica di consumo. Anche la comunità finanziaria accanto ai bilanci d’esercizio pone sempre maggiore attenzione a quelli di sostenibilità, in quanto è dimostrato da diversi studi che le organizzazioni più virtuose tendono a fornire nel lungo periodo ritorni superiori alla media. I fattori Environmental, Social and Governance [4](ESG) sono ormai decisivi nelle scelte di portafoglio dei fondi: a fine 2018 circa 31mila miliardi di dollari, pari al 40% delle masse gestite nel mondo, erano allocati a investimenti sostenibili. La crescente attenzione del risparmio gestito verso il cambiamento climatico – con la diffusione di fondi low carbon o carbon neutral – spingerà le aziende a dotarsi di procedure per misurare l’inquinamento generato.

Quando l’impresa investe in modo intelligente e lungimirante nel proprio territorio ne trae vantaggio competitivo e ritorno economico. Il concetto di territorio va oltre il luogo fisico di produzione e comprende dipendenti, clienti e fornitori, scuole, università e centri di ricerca, istituzioni e comunità. Il sostegno che l’impresa dà al territorio, nelle sue molteplici dimensioni, è un investimento che crea valore sociale ma anche economico. Un territorio in salute crea condizioni favorevoli allo sviluppo dell’impresa. [5]

3. Il rapporto uomo-macchina: sostituzione o collaborazione?

In realtà il futuro del rapporto uomo-macchina dipende ancora in gran parte dalle nostre scelte. Che tuttavia sono complesse e ineludibili. E ritorniamo al bivio evidenziato innanzi: crescita ad ogni costo o Uomo al centro?

L’approccio sostitutivo rappresenta in un certo senso un’accettazione della superiorità delle macchine, in nome di produttività ed efficienza. Uno scenario in cui i robot lavorano aumentando la produttività e l’uomo si dedica ad attività culturali e ricreative grazie al reddito universale è considerato da alcuni desiderabile, ma ciò implica concepire il lavoro solo come mezzo per generare reddito e significa rinunciare alla preminenza dell’uomo sulla macchina. Come già detto è un approccio “difensivo”.

Con l’approccio collaborativo, invece, le macchine sono al servizio dell’uomo, che fa valere le peculiarità che lo rendono insostituibile: pensiero critico, empatia, creatività. La collaborazione tra uomo e macchina consente al primo di estendere le proprie abilità grazie all’uso della seconda, aumentare la produttività senza perdere centralità, migliorare la qualità di vita senza che la tecnologia prevalga e la gestisca.

L’approccio sostitutivo richiede massicci investimenti di capitale, come si dice in gergo “attività ad alta intensità di capitale”, rischia di condurre a una crescita non sostenibile e di creare una rilevante disoccupazione, rende necessario un enorme sforzo re-distributivo. La via dell’approccio collaborativo è più tortuosa: richiede riforme del mercato del lavoro, nuove politiche per l’occupazione e consistenti investimenti in istruzione e formazione, ma consente all’uomo di non perdere il controllo dello sviluppo.

La rivoluzione tecnologica in atto rende attuale una contrapposizione storica nel rapporto uomo-lavoro: catena di montaggio o persone pensanti? [6]

Nel saggio del 1933 “I problemi umani di una civiltà industriale”, Elton Mayo dimostra che la motivazione dei lavoratori deriva in larga misura dalla dimensione sociale, perché la relazione tra persone e la partecipazione attiva al lavoro migliorano la produttività. Secondo lo psicologo australiano, la prestazione sul lavoro è strettamente connessa al grado di soddisfazione, benessere psicologico, riconoscimento sociale e senso di appartenenza dell’individuo. In quest’ottica le persone sono il vero capitale dell’impresa. Perciò sottomettere i lavoratori alle macchine rinunciando alla loro intelligenza e centralità è un errore, anche economico. Lo stesso dilemma si presenta anche oggi. Come asserisce Mauro Magatti ( v. articolo del Corriere Della Sera[7]), la mera sostituzione dell’uomo con la macchina risponde a «una visione neo-tayloristica che si limita a esaltare la potenza di efficientamento delle nuove tecnologie […]. In tale prospettiva, il miglioramento dei risultati si ottiene attraverso la diffusione di protocolli semplificati e addestrando gli operatori a eseguire senza pensare […]. Per questa strada, però, si finisce per impoverire la società, concentrare il potere, indebolire la democrazia. Creando cittadini-produttori sempre più soli e isolati, incapaci di capire (e quindi criticare) quello che accade attorno».

L’alternativa è investire in educazione e formazione, per far crescere le persone. «Con l’obiettivo», suggerisce Magatti, «di sviluppare un’intelligenza collettiva che […] sostiene e diffonde competenze, capacità, responsabilità autonome» oltre che aiutare a contrastare tendenze verso forme concentrate e autoritarie di potere. Quindi come vediamo esiste una relazione molto forte tra come affronteremo questo dilemma e le implicazioni sociali e politiche conseguenti.

4. Nuove regole

Le nuove tecnologie offrono enormi opportunità ma nascondono grandi rischi. Molto dipende da come sono utilizzate. I robot possono essere programmati per fare del male, le tecnologie digitali sfruttate per esercitare controllo sociale sugli individui, un algoritmo in grado di apprendere può commettere reati. Per questo sono necessarie regole adeguate.

Diversi sono gli aspetti da affrontare. Un primo tema riguarda la definizione dello stato giuridico delle macchine, con relativi diritti e obblighi. L’Arabia Saudita ha riconosciuto la cittadinanza, e quindi lo status di persona giuridica, a un robot.[8] L’Estonia si avvia ad attribuire personalità giuridica alle macchine[9]. Ma questo tema è destinato a riproporsi con attenzione critica nuova.

Stato giuridico e responsabilità delle macchine, protezione della privacy, tutela della libera concorrenza, prevenzione di pratiche discriminatorie, adeguato trattamento fiscale, definizione di principi etici, norme che indirizzano un comportamento sostenibile, sono tutti temi urgenti da affrontare. Un ripensamento delle regole è passaggio imprescindibile per governare il progresso tecnologico.

5. Politiche per l’occupazione, tutela del lavoro e nuovo welfare

Finora abbia esposto come il mondo del lavoro si sia modificato sotto la spinta inarrestabile delle innovazioni tecnologiche, le scelte che è chiamato a fare e gli aspetti normativi che dovrebbero essere presi in considerazione per evitare la balcanizzazione del mondo del lavoro. Ora cerchiamo di offrire qualche spunto dal punto di vista delle politiche attive sul lavoro, in modo da salvaguardare le tutele già acquisite dai lavoratori e di estenderle anche ai cosiddetti lavoratori “precari” che altrimenti sarebbero in balia dei tumultuosi cambiamenti del mondo del lavoro e soggetti a sfruttamento come già accade nella GIG Economy. In altre parole: rafforzare la locomotiva di crescita e occupazione ma anche aiutare i vagoni di coda per evitare che si stacchino. A tal proposito segnaliamo la proposta N. 12 delle 15 proposte messe in campo dal Forum Diseguaglianze Diversità (FDD)[10] di cui Fabrizio Barca è il coordinatore. Questa proposta rilancia con forza il ruolo della contrattazione collettiva incardinata su tre punti non separabili.

Il primo è la piena attuazione dell’Art. 39 Della Costituzione. Gli accordi tra sindacati e datori di lavoro devono valere per tutte le categorie, senza lasciare lavoratori e lavoratrici esclusi e intrappolati in contratti ‘pirata’. Deve essere sancita per legge la validità “erga omnes” dei contratti Nazionali.

Questo primo passo rende possibile compiere il secondo passo, che è quello di introdurre un salario orario minimo, che stabilisca ad un livello non penalizzante la soglia minima legale, economica e morale, al di sotto del quale a nessun lavoratore e a nessuna lavoratrice può essere chiesto di lavorare.

Il terzo passo necessario affinché entrambe le due precedenti norme non restino lettera morta è rafforzare in modo massiccio, unificandoli, tutti gli strumenti ispettivi volti ad accertare ogni forma di irregolarità, al fine di rendere ben visibile e chiaro a tutti che non saranno più permesse irregolarità.

6. Investire in conoscenza: scuola e formazione per ridurre lo skill gap

Nell’epoca con maggiore intensità d’innovazione della storia le parole chiave sono due: istruzione e formazione continua. Ciò coinvolge diversi ambiti: istruzione tecnico-scientifica, formazione classica, sviluppo di soft skill e flessibilità.

 1 istruzione tecnico-scientifica

È necessario, in primo luogo, porre maggiore enfasi sull’insegnamento delle materie tecniche e scientifiche, le cosiddette STEM (Science, Techology, Engineering, Mathematics), sia a livello universitario sia di scuola superiore, competenze di cui vi è carenza e una forte richiesta in tutti i settori. 

 2 formazione classica

       E’ importante una buona formazione classica e umanistica, con conoscenze di storia, filosofia, arte, teologia, antropologia, per consentire all’uomo di usare la tecnologia senza esserne sopraffatto e di affrontare le complesse questioni etiche poste dallo sviluppo tecnologico. Con l’inserimento della A di Arts STEM diventa STEAM. La convergenza tra sapere scientifico e competenze umanistiche – che potremmo definire umanesimo industriale – è una tendenza in atto ai livelli più alti del sistema educativo. Sia gli scienziati che gli umanisti debbono combattere un unico pericolo: l’utilitarismo. La scuola e l’università devono formare donne e uomini liberi, colti, capaci di utilizzare il senso critico. Senza il senso critico si costruiscono consumatori passivi che,  convinti dell’importanza del guadagno, abbassano il tasso etico. Il tema del lavoro non è una priorità è l’effetto di una buona educazione. Se consideriamo la scuola e l’università solo alla luce d’un sapere pratico, di un sapere in funzione di una professione, abbiamo fallito.

       Il terzo elemento cruciale è valorizzare e potenziare le caratteristiche umane che computer, software e algoritmi non possono rimpiazzare (le cosiddette soft skill): pensiero critico e creativo, capacità di risolvere problemi e prendere decisioni, empatia e altre dimensioni dell’intelligenza emotiva, attitudini relazionali, sociali e comunicative. In quest’ottica il sistema scolastico deve ripensare sia i metodi d’insegnamento sia i criteri di valutazione. Noi come Centro Studi “Diritto dei lavori, Ambiente e Sicurezza” nell’ambito della formazione somministrata nell’anno scolastico 2017-2018 ai docenti del Liceo Scientifico Galileo Galilei di Bitonto (BA), per prepararli ad affrontare la cosiddetta “Alternanza Scuola-Lavoro” prevista dalle legge 107/2015 (La Buona Scuola), abbiamo stressato molto questo aspetto, convinti come siamo che per approcciare nel migliore dei modi il mondo del lavoro i soft skills siano fondamentali.

 3 Flessibilità

       Questo aspetto viene molto trascurato nel mondo della scuola che risulta purtroppo ancora molto rigido e non idoneo ad affrontare i cambiamenti in atto nel mondo del lavoro.

      Flessibilità, adattabilità, versatilità sono decisive per affrontare un mondo del lavoro in continua trasformazione. La scuola deve insegnare a imparare. L’aumento di flessibilità deve partire dai modelli d’insegnamento, anche evitando che studenti con competenze e interessi diversi siano inquadrati in percorsi troppo rigidi.

In ogni caso, a prescindere dai cicli scolastici d’istruzione, la formazione deve essere permanente.

Diventa quindi indispensabile che la formazione sia disponibile per tutto il corso della vita professionale: per facilitare il reinserimento di chi perde il lavoro e per il costante aggiornamento di chi è occupato.

Questo aspetto deve assumere maggior peso nella contrattazione collettiva perché risulta essere decisivo sia per il mantenimento del posto di lavoro ma anche per una ri-occupabilità del lavoratore perdente posto.

Per agevolare questo aspetto sarebbe utile introdurre incentivi fiscali per persone e aziende che investono in formazione, diffondere l’uso di tecnologia per accedere a piattaforme di long life learning, prevedere interventi pubblici mirati per l’alfabetizzazione digitale delle fasce più deboli.[11] La formazione deve occuparsi dei talenti, allargandone le competenze, ma anche dei tanti che hanno meno abilità. Perché oggi la formazione professionale tende ad aumentare le disuguaglianze anziché ridurle. L’Ocse rileva che i lavoratori più qualificati hanno una probabilità tre volte superiore di ricevere formazione rispetto a quelli meno capaci.

La formazione continua è utile anche per ruoli di leadership e deve comprendere temi di apertura (comprensione di scenari internazionali, quadro macroeconomico, responsabilità sociale) e di frontiera (quali fin-tech e blockchain). L’obiettivo è aggiungere alla tradizionale capacità di gestire un’organizzazione quella di introdurvi e utilizzare al meglio le innovazioni.

Infine, per un paese è importante investire in conoscenza ma cruciale è saper trattenere i talenti formati e attrarne altri. Il costo economico di un saldo negativo di mobilità intellettuale (brain drain) è enorme.

Ovviamente l’investimento in istruzione e formazione è un investimento a lungo termine. Difficilmente potrà avere un impatto a breve termine sulle diseguaglianze compresa quella legata alla concentrazione della proprietà delle macchine, che invece peggiorerà.

7. Nuovo modello di distribuzione ( o di pre-distribuzione)

Un nuovo modello di Pre-distribuzione potrebbe essere la combinazione di tre misure, ognuna a sostegno di una fase della vita:

  • istruzione di base gratuita e obbligatoria (per la scuola),
  • prestito universale (per formazione universitaria o professionale)
  • capitale di dotazione (per il periodo lavorativo e della pensione).

Questo pacchetto di misure rappresenta un tentativo di predistribuzione dei mezzi che produrranno la ricchezza. Con l’obiettivo di dotare tutti di un capitale iniziale – sia di conoscenze sia di risorse finanziarie – che consenta a chi lo saprà sfruttare di partecipare ai benefici del progresso tecnologico. L’idea di fondo non è molto diversa da ciò che genitori e nonni spesso fanno per figli e nipoti, provvedendo alla loro istruzione e formazione, aiutandoli ad acquistare un’abitazione o a iniziare un’attività.

Su questo terreno ancora chi ha proposto qualcosa di concreto è stato Fabrizio Barca che attraverso il suo FDD, in un articolo pubblicato dal Corriere della Sera del 10 Gennaio 2020, ha proposto una eredità universale: «Diamo 15 mila euro ai ragazzi neo maggiorenni»[12] Una misura per restringere il gap di opportunità tra chi nasce in una famiglia del ceto forte e chi in una del ceto debole. Per evitare, insomma, che il figlio di operai resti un operaio. Insomma per rimettere in moto quello che una volta si chiamava “Ascensore sociale”. Questa misura costerebbe 8,8 Miliardi di euro e avrebbe come destinatari circa 580 mila neo maggiorenni. Come si finanzia? Chi riceve trasferimenti di ricchezza che lo collocano nel 5% più ricco degli italiani pagherà la tassa, che si azzera al di sotto dei 500 mila euro. «Il numero di persone — si legge nel documento del Forum — attualmente soggette all’imposta ogni anno è di circa 110 mila. Con questa nuova imposta i paganti verrebbero ridotti a circa 30 mila». La critica a questa misura è presto detta: «qualcuno potrebbe usare l’eredità come una “maxi paghetta” dimenticando la crescita personale»

Il Forum suggerisce quindi di promuovere servizi che aiutino i 18enni ad avere una bussola per progettare il futuro, senza sperperare. Spazio allora a sportelli di assistenza nelle scuole e a consulenti ad hoc. Per il team di Barca non occorre infatti mettere paletti sull’utilizzo dei 15 mila euro, il tutto in nome della libertà e della responsabilizzazione degli adolescenti. Chiamati così a una prova di maturità molto più complicata di quella tra i banchi di scuola. Quindi l’eredità universale copre il secondo punto e lo allarga poiché ci potrebbe essere anche chi decide di investire quei soldi per avviare una attività imprenditoriale e non un percorso universitario. Un attento, severo ed accurato sistema di controllo di questo intero percorso, sin dall’inizio e, successivamente, a regime, anche con la previsione di sanzioni, amministrative e/o penali, per i “furbetti” dovrà evitare sprechi e scandali, anche di recente, verificatisi in finanziamenti di simile, ma di più basso profilo, così come finora in corso.

Sul primo e sul terzo punto la discussione è ancora aperta. Si potrebbe finanziare il primo punto con la Web Tax. Il terzo potrebbe essere alimentato costruendo un fondo pubblico di investimento in cui fare confluire quota parte dei pacchetti azionari delle grandi aziende quotate in borsa, come già proposto nel  mio precedente articolo.

8. Conclusioni

Tornado alle considerazioni di partenza dove si è descritta la situazione attuale come simile a quella della vigilia della nascita delle Statuto dei lavoratori, penso che si evinca chiaramente la estrema complessità in termini di quantità e qualità dei parametri che incidono sul mondo del lavoro. La mia opinione personale è che per consentire al mondo del lavoro nella sua interezza, con la presenza sempre più massiccia delle macchine al fianco delle persone, di ritrovare un punto di equilibrio, si debba agire su due fronti:

  • quello legislativo con le proposte accennate nei precedenti capitoli 5 e 7
  • quello educativo come accennato nel capitolo 6.

In quest’ultimo capitolo vengono evidenziati anche aspetti legati al Long life learning  che chiamano in causa i Sindacati che nelle loro contrattazioni dovrebbero pretendere di più su questo aspetto, decisivo sia per i lavoratori che risulterebbero essere più spendibili anche in caso di uscita dall’azienda e sia per le aziende che solo così possono risultare competitive sul mercato. Giusto a titolo esemplificativo, nello scorso rinnovo del contratto dei metalmeccanici, FIM FIOM e UILM sono riuscite ad ottenere da Federmeccanica la possibilità per i lavoratori di avere 3 giorni di formazione retribuita nell’arco dei tre anni di vigenza del contratto, riprendendo un, allora innovativo, istituto contrattuale nato dall’Autunno Caldo (le 150 ore). Mi sembra decisamente poco ma è un campo da coltivare con maggior impegno, adeguato alle attuali esigenze del mercato del lavoro intra ed extra aziendale. 

[1]      Indice introdotto dallo statistico italiano Corrado Gini (1884-1965) per misurare le diseguaglianze https://it.wikipedia.org/wiki/Coefficiente_di_Gini

[2]      Nel saggio di Serge Latouche del titolo “Breve trattato sulla decrescita serena“ si sostiene che “siamo a bordo di un bolide senza pilota, senza marcia indietro e senza freni, che sta andando a fracassarsi contro i limiti del nostro pianeta”. In realtà siamo ancora in tempo per frenare. Vediamo come.

[3]      Lo asserisce anche Papa Francesco nella sua  enciclica Laudato Si’ << L’interdipendenza ci obbliga a pensare a un mondo con un piano comune>>

[4]      https://www.ilsole24ore.com/art/gli-investimenti-sostenibili-sfiorano-31mila-miliardi-dollari-ABbHxpjB

[5]      Sul tema sia permesso rinviare ad un mio precedente articolo dal titolo “Città Policentrica Bari-Taranto: Un esempio concreto di economia di aggregazione” pubblicato nel numero di questa Rivista di Aprile 2019 che rappresenta un esempio di istanziazione di questo concetto.

[6] Ne “L’organizzazione scientifica del lavoro” (1911), Frederick Taylor intuisce i vantaggi di efficienza di una produzione centralizzata e ispira la catena di montaggio. Il principale obiettivo è l’incremento di produttività e, di conseguenza, la crescita. Tuttavia, per ottenerla i lavoratori devono eseguire procedure standardizzate, parcellizzate e ripetitive. Come perfettamente rappresentato da una scena di Tempi moderni di Charlie Chaplin, l’uomo ha un ruolo passivo e la macchina è in controllo

[7] Articolo del Corriere della Sera:  https://www.corriere.it/opinioni/19_gennaio_02/era-digitalizzazione-formazione-che-serve-3cf82068-0ead-11e9-81e4-4ae8cf051eb7.shtml

[8]      https://www.iusinitinere.it/responsabilita-civile-dei-robot-risoluzione-parlamento-europeo-art-2043-cc-6626#_ftn1

[9]      https://www.altalex.com/documents/news/2019/06/07/intelligenza-artificiale-applicata-alla-giustizia-giudici-robot

[10]    https://www.forumdisuguaglianzediversita.org/proposte-per-la-giustizia-sociale/

[11]    Circa la metà dei lavoratori dei paesi Ocse ha competenze digitali basse o nulle. Per invertire la tendenza si potrebbe introdurre la “Patente Digitale”obbligatoria per chi accede al mercato del lavoro, indipendentemente dalla funzione. Si noti che anche la alfabetizzazione digitale e semplificazione della tecnologia possono offrire alla terza età straordinarie opportunità di lavoro ( e di inclusione sociale).

[12]    https://www.corriere.it/sette/attualita/20_gennaio_10/fabrizio-barca-diamo-15-mila-euro-ragazzi-neo-maggiorenni-f5c8dcb0-2fbb-11ea-8ee1-1d9fce076d0e.shtml

Lo smart Working, la sua evoluzione e la sua strutturazione al tempo del Coronavirus.

  1. Introduzione

Lo Smart Working fino all’arrivo della pandemia era una modalità di lavoro semi sconosciuta, tra le aziende, tra le Pubbliche Amministrazioni, nel mondo del lavoro in generale. La recente emergenza legata al Coronavirus ha ribaltato completamente la prospettiva, rimettendolo sotto la giusta prospettiva e sfruttando la sua principale caratteristica: quella di essere indipendente dal posto in cui si lavora. Questa sua caratteristica ha fatto sì che si potesse continuare a lavorare e ad evitare la diffusione del virus.

Durante questo periodo di crisi, secondo l’Osservatorio del Politecnico di Milano, gli smart worker sono passati da 570.000[1] a oltre 8 milioni[2]. Questo dato è stato recentemente confermato dall’INAPP (Istituto Nazionale per le Analisi delle Politiche Pubbliche)[3] secondo cui oltre 7,2 milioni degli attuali occupati lavorano in Smart Working e di cui il 61% almeno 3 giorni a settimana.

Cercheremo di chiarire in dettaglio cosa significhi lavorare in modalità “Smart”, sia analizzandone la evoluzione normativa della legge sia approfondendo successivamente gli impatti benefici che ha avuto nella gestione del lavoro in piena emergenza Coronavirus. Si vedrà poi di individuare quali saranno le resistenze che bisognerà vincere per far sì che questa modalità di lavoro possa dispiegare i propri benefici sia nei confronti dei lavoratori che delle aziende e della PA.

  • Excursus legislativo

Lo Smart Working è un modello organizzativo in grado di portare notevoli vantaggi alle organizzazioni che lo adottano: in termini di produttività, di raggiungimento degli obiettivi, ma anche in termini di welfare e qualità della vita del lavoratore.

Tuttavia, il concetto di Smart Working resta ancora oggi avvolto in un alone di confusione, sovrapposto a pratiche per certi versi simili come il Telelavoro e il Lavoro da Remoto, ma in realtà molto diverse. Iniziamo con una definizione.

Lo Smart Working, o Lavoro Agile, è una nuova filosofia manageriale fondata sulla restituzione alle persone di flessibilità e autonomia nella scelta degli spazi, degli orari e degli strumenti da utilizzare a fronte di una maggiore responsabilizzazione sui risultati.

Un nuovo approccio al modo di lavorare e collaborare all’interno di un’azienda che si basa su quattro pilastri fondamentali:

  1. revisione della cultura organizzativa
  2. flessibilità rispetto a orari e luoghi di lavoro
  3. dotazione tecnologica
  4. spazi fisici

Lo smart Working è regolato dalla legge N. 81 del 22 Maggio 2017[4]

A livello giuridico, va dunque inteso come modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo scritto tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa.

Altri elementi rilevanti sono:

  1. la parità di trattamento economico e normativo;
  2. il diritto all’apprendimento permanente;
  3. gli aspetti legati alla salute e alla sicurezza.

Su quest’ultimo aspetto i lavoratori che decidono di aderire a un accordo di Smart Working sono tutelati in caso di infortuni e malattie professionali per quelle prestazioni che decidono di effettuare all’esterno dei locali aziendali sia quando si trovano in itinere. Per superare questo vincolo burocratico in fase di emergenza pandemica è stata introdotta la procedura semplificata per l’accesso al lavoro agile, che non prevede di stipulare un accordo scritto con il lavoratore e che si basa esclusivamente sulla modulistica (un template per comunicare l’elenco dei lavoratori coinvolti) e sull’applicativo informatico resi disponibili dal Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali. Tuttavia nel 2022 questo non avviene ancora nel settore pubblico dove torna ad essere necessario un accordo tra le parti. Ricordiamo che nel decreto Legge cosiddetto “Cura Italia” [5] lo Smart working era obbligatorio ove possibile, e prorogato più volte fino al 31 Luglio 2021[6]. Dopo questa ultima data è stata tolta l’obbligatorietà, lasciando però la procedura semplificata fino al 31 Marzo 2022. Con il nuovo Decreto Covid del 17 Marzo viene prolungata la procedura semplificata fino al 30 Giugno, affiancato però dall’estensione della tutela prevista per i lavoratori fragili. La grande novità che darà una svolta alla contrattazione tra le parti quando si uscirà da questa fase ancora emergenziale è il protocollo nazionale dello Smart Working nel Settore privato[7] firmato il 7 Dicembre 2021 tra il Ministero del Lavoro e rappresentanze sindacali. Questo protocollo prevede innanzitutto, che l’adesione allo Smart Working avvenga su base volontaria ed è subordinata alla sottoscrizione di un accordo individuale, fermo restando il diritto di recesso.

In attesa di una nuova legge che ponga rimedio alle approssimazioni e lacune della legge N. 81 del 22 Maggio 2017, questo protocollo fornisce tutti gli strumenti necessari per una regolamentazione strutturata dello Smart Working nella contrattazione di secondo livello.

  • Lo Smart Working nella PA

Per quanto riguarda l’applicazione nella PA, questa legge ha avuto una evoluzione con la riforma Madia[8] che introduceva il tema dello Smart Working. Tuttavia nella PA non ha avuto quel salto dimensionale che ci si aspettava per due motivi.

Una prima motivazione è che la norma introdotta, benché sufficientemente chiara dal punto di vista degli obblighi e delle scadenze, non prevedeva specifiche risorse e misure di accompagnamento a disposizione né tanto meno sanzioni in caso di mancato rispetto dei termini.

Una seconda motivazione, ancora più profonda, risiede nel fatto che l’innovazione organizzativa non può essere imposta per decreto come purtroppo nel settore pubblico si tende a pensare: le difficoltà incontrate mettono in evidenza come, per rendere possibile un vero passaggio allo SW nella PA, occorra cambiare prospettiva e non vedere e presentare questa iniziativa solo come un mero adempimento normativo, ma come un cambiamento culturale che deve passare da un coinvolgimento dei lavoratori e, soprattutto, da un’adesione vera ai nuovi principi organizzativi da parte del management della PA.

Questo perché una visione “legalista” (o formalistica), oltre a contrastare con lo spirito stesso dello SW, limita molto la portata dei progetti portando gli enti pubblici meno convinti a fare il minimo indispensabile e non consentendo all’organizzazione di cogliere le reali opportunità che il cambiamento permetterebbe di ottenere. Per fare questo, occorre che ciascuna PA sia stimolata ad interpretare lo Smart Working in base alle proprie esigenze e caratteristiche, come un’opportunità di trasformazione della cultura dell’ente e di innovazione del modello di servizio al cittadino, facendo tesoro di altre esperienze già presenti nel comparto pubblico.

  • Lo Smart Working nelle Imprese

Come abbiamo potuto vedere negli ultimi due anni, grazie alla pandemia, c’è stata una forte accelerazione, anche legislativa, dello Smart Working. Si sta passando da un approccio al lavoro “di nicchia” a una forma di lavoro globalmente strutturato soprattutto grazie al protocollo nazionale dello Smart Working nel Settore privato[9] e agli incentivi legati alla digitalizzazione delle industrie soprattutto delle PMI.

Per le grandi imprese la sfida dei prossimi anni sarà quella di far superare allo Smart Working lo status di “progetto” o iniziativa specifica, per rendere tale approccio il nuovo modo di lavorare, introducendo nuovi e più profondi sistemi di engagement. Ovvero bisogna riuscire a coinvolgere i lavoratori non soltanto nel “come” realizzare un lavoro ma anche nel “cosa” bisogna fare e “perché” farlo nell’interesse dell’impresa e delle sue esigenze e finalità.

  • Conclusioni

Ovviamente la crisi conseguente al Coronavirus ha accelerato il processo ma i problemi legati alla sua introduzione sistematica nelle aziende è ancora sul tavolo.

Occorre sottolineare ancora una volta che quello che organizzazioni e persone stanno vivendo non è il “vero” Smart Working, ma un lavoro da remoto forzato ed estremo, che porta con sé anche alcune criticità tipiche del telelavoro: senso di isolamento, difficoltà a disconnettersi e a mantenere un equilibrio tra vita privata e professionale.

Pur al netto di questa inevitabile “forzatura”, organizzazioni e persone hanno compiuto in questi due anni un percorso di apprendimento e crescita di consapevolezza che, in condizioni “normali”, avrebbe richiesto molti più anni! Molte persone stanno imparando ad utilizzare strumenti di collaborazione innovativi, a relazionarsi e coordinarsi efficacemente in team dispersi, a mantenere relazioni informali positive attraverso una molteplicità di strumenti digitali. Molti manager e lavoratori, un tempo scettici nei confronti dell’applicazione dello Smart Working, si sono resi conto di quante attività, che avevano sempre assunto richiedessero la presenza in ufficio, possano essere fatte da remoto attraverso strumenti digitali, con una efficacia pari o superiore e con risparmio di tempi ed energie (anche fisiche) prima insospettabili.

Tuttavia il problema più grande che bisognerà risolvere per rendere maturo lo Smart Working, è ripensare tutta l’organizzazione del lavoro in una ottica “result oriented”.

Per applicare lo Smart Working nelle aziende bisogna agire sulle leve seguenti:

  1. rendere più flessibili gli spazi e gli orari di lavoro;
  2. ripensare gli ambienti della sede di lavoro;
  3. sviluppare nuovi strumenti e competenze digitali;
  4. dotarsi della tecnologia adeguata per lavorare da remoto;
  5. diffondere modelli manageriali basati su autonomia, consapevolezza e responsabilità dei lavoratori;
  6. diffondere cultura orientata ai risultati.

I primi 4 punti non sono mai un problema per una grande impresa e comunque sono stati normati con il protocollo nazionale dello Smart Working nel Settore privato. Inoltre, per chi si trovasse in difficoltà con la dotazione tecnologica, attingendo ai fondi del PNRR[10] sarà possibile recuperare il gap. I problemi risiedono nei punti 5 e 6 che riguardano diffusamente sia il mondo industriale, grande e piccolo, e sia la PA e sono direttamente legati alla qualità del management e al coinvolgimento partecipato, nelle scelte organizzative dell’area e/o settore e in quelle più ampie, strategiche dell’azienda privata o nella branca specifica della PA dei lavoratori. Per questi ultimi, l’obiettivo del lavoro agile non deve essere solo quello di una maggiore flessibilità, ma piuttosto quello di un pieno coinvolgimento dei soggetti interessati.

Per quanto riguarda il management, questo risente pesantemente dell’inaridimento culturale progressivo degli ultimi vent’anni. Una volta i grandi gruppi industriali, Telecom, Eni, Enel avevano le scuole di formazione dei loro quadri dirigenti dove venivano istruiti alle migliori pratiche gestionali. Ora queste scuole non esistono più e i risultati si vedono. Spesso i manager vivono all’interno dei loro fogli Excel completamente staccati dal processo produttivo e dove i loro obiettivi annuali, a cui sono spesso legati lauti premi in denaro, consistono nel far lavorare i loro team per un certo numero di ore. Quindi sono molto spesso rapporti di lavoro basati sull’autorità piuttosto che sull’autorevolezza. Non di rado i clienti instaurano direttamente rapporti fiduciari con i lavoratori che stanno, per così dire, “sul pezzo”, così spesso l’inadeguatezza del management traspare in maniera evidente anche ai clienti finali.

In questa situazione, la legge 81 del 2017 è risultata “visionaria” circa lo smart working, con un’encomiabile ed ottimistica lettura del mondo industriale, ipotizzando quello che il mondo industriale dovrà diventare perché il progresso legato alla digitalizzazione è inarrestabile e inevitabile. È un po’ quello che è successo con lo Statuto dei lavoratori del 1970 che aveva codificato la maturazione dei diritti dei lavoratori e la aveva imposta per legge. Ora la differenza tra la legge 300 del ‘70 e la legge 81 del 2017 è che la seconda ha costruito un cappello normativo a chi vuole adottare lo Smart Working evitando fughe in avanti e distorsioni mentre la prima ha riconosciuto dei diritti sacrosanti di tutti i lavoratori che fino a quel punto erano stati alla mercé dei datori (privati e, un po’ meno, pubblici) cambiando radicalmente la vita dei lavoratori nelle fabbriche e negli uffici. Detto così sembrerebbe che la legge sullo Smart Working abbia una forza legislativa minore. In realtà non è così perché il legislatore ha capito, prima della gran parte degli industriali, che la spinta produttiva di moltissimi lavoratori potrebbe aumentare, migliorando al tempo stesso per loro la conciliazione tempo vita-tempo lavoro. È, a parere non solo mio, una intuizione eccellente perché prefigura quello che solitamente si dovrebbe fare nelle industrie che lavorano con beni immateriali, quelli che una volta si chiamavano lavori di concetto, e cioè il gioco di squadra. Il gioco di squadra migliora il rendimento. È un modo di gestire aziende private ed Enti della PA che consente di avere un lavoro finale che è più grande della sommatoria dei singoli lavori svolti dai singoli lavoratori. Chi ha avuto la fortuna di provarlo sa di cosa si sta parlando. Questi due anni di “palestra” hanno dimostrato la validità di quella intuizione legislativa e le aziende più “illuminate” hanno deciso di non tornare più indietro rispetto a questa nuova modalità di lavoro.

Tuttavia ne restano ancora tante di organizzazioni private e pubbliche che hanno delle ingiustificate riserve verso lo Smart Working, legate soprattutto alla loro arretratezza culturale e non ad oggettivi motivi ostativi.

Ecco perché in questo quadro normativo, il tema del controllo da parte delle imprese sul lavoratore in modalità agile, perde la sua forza, perché questa modalità si fonda sulla fiducia reciproca che nessuna legge potrà mai regolare fino in fondo. Lo Smart Working o è su base fiduciaria, o non è.

A tutto questo si oppongono tutte le forze conservatrici che misurano il lavoro “da quanto tempo tieni le gambe sotto la scrivania”. A costoro interessa avere i lavoratori tutti nell’ovile. La presenza fisica dei lavoratori è il certificato di esistenza in vita di questo management, ancorato ai vecchi schemi e che vedono, in un vetusto e piatto modello fordista delle imprese, l’unico modello possibile. Molti di loro gestiscono i permessi e poco più. Se si dovesse diffondere lo Smart Working, questi manager si troverebbero in difficoltà per far capire la loro esistenza lavorativa. In conclusione credo che i lavoratori, sia pubblici che privati, devono faticare non poco a far sì che si imponga questo nuovo modello di lavoro, in tutte le situazioni dove questo è possibile. In questo senso il Coronavirus ha dato il suo contributo perché ha costretto molte aziende, “obtorto collo”, ad applicarlo ma solo in ottica di riduzione del danno non certo perché convinti della bontà del modello. Ora, a crisi in via di esaurimento, molti passi avanti si sono fatti. Resta forse la parte più complessa: il pieno e consapevole endorsement da parte dell’industria e della PA.

Pasquale Maiorano


[1] https://www.digital4.biz/hr/smart-working/osservatorio-smart-working-2019/  Mariano Corso Docente di Leadership & Innovation del Politecnico di Milano e Responsabile Scientifico di P4I-Partners4Innovation

[2]https://www.ilsole24ore.com/art/lavoro-cgil-8-milioni-italiani-smart-working-epidemia-covid-19-AD7aAMR

[3] https://www.inapp.org/it/inapp-comunica/sala-stampa/comunicati-stampa/oltre-72-milioni-di-occupati-lavorano-da-remoto

[4]https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2017/06/13/17G00096/sg

[5] https://www.ticonsiglio.com/wp-content/uploads/2021/08/decreto-legge-17-marzo-2020-n-18.pdf

[6] https://www.ticonsiglio.com/wp-content/uploads/2021/04/decreto-legge-52-del-22-aprile-2021.pdf

[7] https://www.ticonsiglio.com/wp-content/uploads/2021/12/protocollo-nazionale-lavoro-agile-7-12-21.pdf

[8]http://www.funzionepubblica.gov.it/articolo/dipartimento/01-06-2017/direttiva-n-3-del-2017-materia-di-lavoro-agile

[9] https://www.ticonsiglio.com/wp-content/uploads/2021/12/protocollo-nazionale-lavoro-agile-7-12-21.pdf

[10] https://www.industriaitaliana.it/mise-pnrr-digitalizzazione-transizione-4-0/