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Impresa e lavoro: ritorno al futuro

La relazione tra impresa e lavoro si snoda nella prospettiva del necessario contemperamento degli interessi a ciascuno dei due poli facenti capo.

Il processo, che oggi possiamo dire soggetto a periodiche oscillazioni, è stato, agli albori della Repubblica, dalla nuova Costituzione solennemente dichiarata “fondata sul lavoro”, nettamente segnato dalla tendenza al superamento, all’interno del rapporto di lavoro, dello squilibrio tra organizzazione e subordinazione.

Il disegno culmina nel 1970 nell’emanazione dello Statuto dei lavoratori, che, nel rendere “stabile”, con l’annettere al licenziamento illegittimo la sanzione della reintegrazione nel posto di lavoro, il rapporto, già in precedenza sottratto a forme di interposizione fittizia, tale da separare il lavoratore dall’effettivo utilizzatore della prestazione lavorativa ed alla precarietà dell’apposizione del termine, ammessa solo con riguardo ad ipotesi tassative, ridefinisce “al di là dei cancelli della fabbrica” il perimetro tra autorità e libertà, circoscrivendo i poteri del datore, ma ancor più offrendo sostegno legislativo al consolidarsi nei luoghi di lavoro di un contropotere facente capo ad un soggetto collettivo opportunamente selezionato, in ragione della sua rappresentatività, all’epoca declinata, essenzialmente sul vincolo associativo verso le confederazioni storiche[1].

Intorno alla figura, divenuta egemone, del “sindacato maggiormente rappresentativo” il mondo del lavoro si costituisce come parte di uno “scambio politico”[2], che vede come diretto interlocutore nella definizione della condizione del lavoratore all’interno del rapporto, considerata, peraltro, nel più ampio contesto sociale del suo essere al tempo stesso “consumatore”[3], lo stesso Governo e come contropartita la disponibilità al contenimento delle istanze e delle azioni rivendicative[4].

E’ in particolare sul terreno del conflitto – e siamo negli anni ’90 – che riaffiora la considerazione dell’interesse dell’impresa anche se sotto le sembianze della tutela dell’utenza dei servizi pubblici essenziali, ambito, quello del lavoro pubblico, solo pochi anni prima, a seguito dell’emanazione, nel 1983, della legge quadro sul pubblico impiego, che ne inaugurava la fase della contrattualizzazione[5], acquisito alla dialettica sindacale e ben presto divenuto banco di prova della tenuta del dialogo tra le parti.

In effetti, è intorno alla definizione, negoziata sotto l’egida dalla legge n. 146/1990, delle regole dello sciopero nel settore dei pubblici servizi, affidata all’authority all’uopo costituita, la Commissione di garanzia per gli scioperi nei servizi pubblici essenziali[6] e culminata poi nella sottoscrizione, il 23 dicembre 1998, sotto la sapiente regia del compianto Massimo D’Antona, di un “Patto delle regole nei trasporti”[7], comparto allora connotato da una esasperata conflittualità, che si snoda la stagione della “concertazione” tra Governo e parti sociali[8], inaugurata con la firma, il 22 gennaio 1983, del cosiddetto Protocollo Scotti[9] e tornata poi in auge, all’esito del duro scontro tra sindacato e Governo sulla questione della “scala mobile”[10], con la sottoscrizione del Protocollo del 23 luglio del 1993[11] che prospettava soluzioni concordate tra le parti sulla politica dei redditi e dell’occupazione, sugli assetti contrattuali, sulle politiche del lavoro e sul sostegno al sistema produttivo, segnata dall’assunzione da parte del Governo di un ruolo di mediazione nell’azione di contemperamento degli interessi tra impresa e lavoro; stagione esauritasi nel momento stesso della sua istituzionalizzazione voluta dal governo D’Alema e delineata nel Patto di Natale del 1998[12].

Il nuovo millennio, dismessa la prospettiva della mediazione pubblica, rivelatasi illusoria a fronte della frantumazione della rappresentanza degli interessi e, del resto, superata dal mutamento del clima politico, segna una netta inversione di rotta.

L’estrema flessibilizzazione del rapporto di lavoro, cui, nella prospettiva della “occupabilità”, emersa in sede comunitaria e declinata in ambito nazionale da Marco Biagi nel “Libro bianco sul mercato del lavoro in Italia” del 2001[13], assunto a fonte ispiratrice delle politiche del lavoro dal governo Berlusconi, è la risposta alla strenua resistenza opposta, nell’immediato, al progettato ridimensionamento della tutela reintegratoria avverso il licenziamento illegittimo, che, tuttavia, si imporrà nel decennio successivo, trovando progressiva attuazione con le riforme approvate in rapida successione tra il 2012 ed il 2015, la c.d. “riforma Fornero”[14] ed il Jobs Act del governo Renzi[15], sotto la spinta dell’emergenza economica e nel dichiarato intento di sciogliere i “lacci e lacciuoli”, visti come freno alla competitività della imprese e così favorire gli investimenti produttivi.      

L’arretramento sul fronte della stabilità del rapporto sembra, addirittura, aver spezzato il filo della relazione tra impresa e lavoro, come se questo non si ponesse più quale termine necessario di interlocuzione sul piano dell’organizzazione e della gestione della produzione, ma come mera componente strutturale dell’impresa, riguardata come esclusivo punto di snodo del complessivo sistema dei rapporti socio-economici.

Non è un caso che una recente attenta dottrina[16] tenda a leggere in questa prospettiva l’art. 2086, comma 2, c.c. come di recente novellato dall’art. 375, comma 2, del d,lgs. 12 gennaio 2019 n. 14, attuativo della legge 19 ottobre 201,  recante il c.d. “Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza”, destinato ad innovare l’originaria disciplina in materia posta dalla legge fallimentare ma ancora differito quanto alla sua entrata in vigore al 16 maggio 2022.

La disposizione, nella sua rinnovata formulazione letterale, prevede che “l’imprenditore, il quale operi in forma societaria o collettiva, ha il dovere di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi d’impresa e della perdita della continuità aziendale, nonché di attivarsi senza indugio per l’adozione e l’attuazione di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi ed il recupero della continuità aziendale” .

Ebbene tale obbligo è, dalla richiamata dottrina, ricondotto all’esigenza di salvaguardare quella capacità e continuità produttiva in cui si esprime il valore sociale dell’impresa quale luogo della produzione e così della creazione della ricchezza anche nella modalità dell’impiego di capitali e lavoro.

Un valore sociale che si afferma trovare riconoscimento e tutela nella stessa Costituzione, che, all’art. 41, garantisce la libertà dell’iniziativa economica privata, per quanto, al secondo comma, preveda che questa non possa svolgersi in modo da recare danno alla libertà e dignità umana.

E, sempre nella prospettazione della citata dottrina[17], tale riconoscimento costituzionale postula, in coerenza con l’insegnamento del Giudice delle leggi  secondo cui “tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile, pertanto, individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri”, un vicendevole bilanciamento tra principi e diritti fondamentali, che, cioè, coinvolga tutti gli interessi costituzionali rilevanti senza pretesa di assolutezza per ciascuno di essi, secondo criteri di proporzionalità e di ragionevolezza, così da non consentire un sacrificio del loro nucleo essenziale.

Da qui la richiamata dottrina[18] trae la conseguenza per cui i diritti fondamentali degli stessi lavoratori, siano essi riconosciuti dalla Costituzione sul piano individuale o su quello collettivo, sono necessariamente soggetti ad “un test di proporzionalità e di non eccessività” rispetto al valore che la Carta attribuisce all’iniziativa ed all’attività economica.

A tale stregua l’Autore[19] sostiene il legittimarsi, in funzione della salvaguardia della continuità aziendale, in cui trova espressione il valore sociale dell’impresa costituzionalmente garantito, il carattere recessivo dei diritti del lavoratore, trovando riscontro ancora una volta nella nuova normativa relativa all’impresa insolvente.

Al riferimento al novellato art. 2086, l’Autore[20] aggiunge il richiamo alla possibilità in tale frangente di rinegoziare i debiti contributivi, di sciogliere i contratti di lavoro autonomo, di non applicare gli accordi collettivi in essere, in caso di liquidazione giudiziale, alla sospensione ex lege del rapporto di lavoro subordinato, suscettibile di riattivazione solo ove venga autorizzato l’esercizio provvisorio o di affitto dell’azienda o di un ramo di essa, terminati i quali si ha il ripristino della sospensione fino alla cessazione del rapporto disposta dal curatore o, in caso di inerzia di questi, fino al determinarsi dell’effetto legale della risoluzione di diritto del contratto ed, a fronte dell’insorgere di opportunità di circolazione dell’azienda, al venir meno, anche al di fuori dell’ipotesi di un accordo con le organizzazioni sindacali, delle garanzie lavoristiche per l’inapplicabilità, nella fase di liquidazione del patrimonio, dell’art. 2112 c.c..

Ma non solo, rinvenendo l’Autore[21] ulteriore conferma dell’assunto nella risalente giurisprudenza della Corte di Cassazione[22] sui limiti esterni del diritto di sciopero, desunti dalla necessità di tutelare, a prescindere dall’entità del danno economico che il conflitto può procurare all’imprenditore, la produttività dell’impresa, da intendersi come “salvaguardia degli elementi materiali e strutturali dell’impresa” e così della “possibilità per l’imprenditore di continuare a svolgere la sua iniziativa economica” nonché nelle più recenti pronunzie della Corte costituzionale sul caso ILVA dove l’esigenza del bilanciamento finalizzato alla salvaguardia della “continuità produttiva” dell’impresa è prospettata addirittura rispetto al diritto alla salute[23].

E non manca da parte dello stesso Autore[24] il riferimento all’ordinamento multilivello, relativamente al quale si pone in evidenza, in relazione al riconoscimento nell’ambito della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea di una tale natura alla libertà di impresa[25], la cedevolezza, in tale contesto, dei diritti sociali rispetto appunto alla libertà di impresa ed, in relazione agli orientamenti espressi dalla Corte di Giustizia, in particolare nelle note sentenze Viking e Laval[26] e relativamente al tema delle c.d. clausole sociali, il favore per il mantenimento della competitività del mercato comune europeo, della libera concorrenza e, più in generale, dello sviluppo economico.

La rimodulazione al ribasso dei diritti dei lavoratori viene così ad essere delineata come futura prospettiva regolativa e, addirittura, come schema euristico dell’attuale assetto normativo laddove si auspica la ridefinizione in termini di prevedibilità e calcolabilità delle condizioni e circostanze alla cui stregua condurre il controllo di proporzionalità nel bilanciamento tra libertà di impresa e diritti sociali.

La reazione a tale ricostruzione della relazione tra impresa e lavoro nell’ordinamento nazionale e comunitario, sul piano teorico, si incentra sul richiamo al terzo comma dell’art. 41 Cost., secondo cui “La legge determina i programmi ed i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”, disposizione che proietta fondati dubbi sulla valenza sociale riconosciuta in sé all’impresa nel testo costituzionale e sull’assunzione della medesima quale parametro per lo scrutinio di proporzionalità e ragionevolezza delle regole del lavoro.

Sul piano concreto al fenomeno reale della riduzione della sfera dei diritti per quel che riguarda il lavoro, che si radica in particolare nell’area dei rapporti flessibili, facendo emergere forme di più intensa soggezione ai poteri imprenditoriali oltre che di dipendenza economica, si oppone, come, in particolare, è ampiamente desumibile dall’elaborazione in sede legislativa della discutibile nozione di etero-organizzazione[27], la riconduzione di tali tipologie di rapporti allo statuto protettivo del lavoro subordinato.

Ma si tratta, con tutta evidenza, di un tentativo di forzare la prassi delle relazioni di lavoro quale si manifesta in base alla spontanea dinamica di mercato, destinato all’insuccesso, tendendo il mercato a recuperare, sul versante della produzione o su quello del lavoro, le necessarie corrispondenze tra domanda e offerta.

Appare, al contrario, opportuno, avviare, in coerenza con le ordinarie dinamiche che si svolgono nel rapporto e sul mercato, un’azione che valga a riannodare le fila della relazione tra impresa e lavoro tradizionalmente fatta di interdipendenza ed imprescindibilità.

In questa direzione si muove la proposta di recente avanzata da autorevoli studiosi con il dare alle stampe il loro “Manifesto per un diritto del lavoro sostenibile”[28], che, tuttavia, induce notevoli perplessità per risultare fortemente condizionata dal quadro emergenziale una rilettura del rapporto di lavoro in termini funzionali alla creazione di un ambiente di lavoro in cui le esigenze del lavoratore vengano soddisfatte in una logica di equilibrio con quelle del datore di lavoro, in modo tale che si addivenga ad un contemperamento delle esigenze di competitività aziendale con quelle di sostenibilità del lavoro,  nel presupposto che questa giovi non solo al lavoratore ma anche alla produttività ed all’efficienza dell’impresa.

Il lavoro sostenibile è in sostanza concepito come sistema lavorativo in grado di essere efficiente e di raggiungere obiettivi economici ed operativi valendo nel contempo a favorire lo sviluppo delle risorse umane e sociali, atteso che l’apprendimento basato sul lavoro, lo sviluppo, il benessere è funzionale alla crescita della capacità dei lavoratori di far fronte alle richieste del mondo esterno agevolando l’interazione paritaria ed aperta con i vari stakeholder, una migliore comprensione reciproca ed una più fattiva collaborazione.

Viene in questo quadro dato rilievo alle trasformazioni dei sistemi organizzativi e produttivi, legati al crescente utilizzo delle tecnologie.

In primo luogo, per ricollegare a quelle trasformazioni, da un lato, la perdita di valore significante dei tradizionali confini tra lavoro subordinato e autonomo a fronte  di una realtà effettuale dei modi di lavorare che incide nel duplice senso di determinare l’evolvere nella direzione dell’autonomia della prestazione resa nell’ambito di rapporti di lavoro subordinato e, per converso, l’accentuarsi dei profili di dipendenza e di debolezza economica in rapporti formalmente autonomi, dall’altro, il mutare della stessa struttura obbligatoria del contratto di lavoro subordinato, a muovere dalla sua causa, che supera il mero scambio tra lavoro e retribuzione, di marcato sapore conflittuale, per ricomprendere una relazione incentrata sul binomio collaborazione/partecipazione. E ciò in una prospettiva ricostruttiva delle posizioni delle parti del rapporto che, in piena coerenza con il concetto di sostenibilità, che riflette le direttive della solidarietà e del contemperamento tra interessi assiologici confliggenti, se impone al lavoratore di collaborare agli scopi produttivi dell’impresa ed alla gestione competitiva della stessa, delinea l’impresa come debitrice non della sola retribuzione ma altresì di un dovere di sicurezza della persona del lavoratore e di riconoscimento del suo ruolo essenziale nell’attività di produzione anche attraverso la valorizzazione delle sue competenze e capacità. 

In secondo luogo, per individuare di quelle trasformazioni la reale portata, ponendosi il dubbio che alla rivoluzione digitale non si colleghi soltanto una diversa modalità di organizzazione, subordinazione o sostituzione del lavoro umano ma che il ricorso agli algoritmi o al big data rifletta una nuova forma di capitalismo che solleciti una più radicale riregolazione delle relazioni di lavoro in funzione dell’imprescindibile riequilibrio delle posizioni di potere e del contenimento dei rischi di mercificazione e sfruttamento.

Da ultimo per arginare gli effetti che a quelle trasformazioni si ricollegano in termini di inasprimento delle disuguaglianze non solo tra insiders e outsiders, che sollecita la costruzione di un welfare in grado di offrire in questa fase di transizione un sostegno economico agli esclusi, bensì all’interno dello stesso mercato del lavoro in ragione della perdita di valore di professionalità obsolete non controbilanciate da adeguate strategie volte a favorire formazione e mobilità

Una tale prospettiva non risulta congrua rispetto all’obiettivo di una crescita coerente con l’evoluzione, anche tecnologica, di una economia di mercato, nella quale resta centrale il fattore lavoro, postulando le trasformazioni del sistema produttivo la disponibilità di know how specialistici la cui acquisizione resta fondata sullo scambio che continua a trovare misura nel valore che l’oggetto di quello strumentalmente assume secondo la tradizionale logica della domanda e dell’offerta. 

E tale centralità appare di per sè idonea a sostenere il proseguire in un percorso di valorizzazione del lavoro in termini di professionalità e di costo e, per questa via, ad inaugurare una nuova stagione dei diritti, in funzione del recupero del perdurante squilibrio che segna la relazione tra organizzazione e subordinazione.

La prospettiva auspicabile è, appunto, quella di associare al lavoro un valore di mercato reale e remunerativo, elevandone la qualità attraverso l’adeguamento delle competenze alle rinnovate esigenze specialistiche emergenti nel contesto della quarta rivoluzione tecnologica.

Una prospettiva che ripropone in termini adeguati al rinnovato contesto economico la tradizionale relazione tra impresa e lavoro, mediata da un contratto idoneo ad esprimere il reciproco riconoscimento dell’essenzialità dei due poli del rapporto in funzione di uno scambio, indotto dal perseguimento di distinti interessi, che nella parità formale insita nella corrispettività delle obbligazioni incorpora l’asimmetria sostanziale delle contrapposte posizioni di autorità e soggezione, al cui riequilibrio in favore dei lavoratori, in termini di adeguamento dello spazio di diritto al rinnovato assetto del sistema produttivo, l’opzione costituzionale assegna una assoluta priorità.

                                                                                   (Nicola De Marinis)


[1] Vedi, per tutti, G. Perone, Lo Statuto dei lavoratori, in Trattato di diritto privato, diretto da P. Rescigno, Aggiornamento, Estratto, Torino, 1997, 58

[2] Vedi A. Pizzorno, Scambio politico ed identità collettiva nel conflitto di classe, in C. Crouch,  A. Pizzorno, Conflitti in Europa. Lotta di classe, sindacati e Sato dopo il 1968, Milano, 1977, 407 nonché E. Rusconi, Scambio politico, in Laboratorio politico, 1981, n. 2

[3] A. Vallebona, Il lavoratore-consumatore nel diritto del lavoro attuale, in Dir. lav., 1983, I, 206

[4] Sull’effetto di istituzionalizzazione del sindacato che consegue all’adozione del criterio della maggiore rappresentatività cfr. per tutti G. Santoro Passarelli, Istituzionalizzazione della rappresentanza sindacale? e B. Veneziani, Il sindacato dalla rappresentanza alla rappresentatività, entrambi in A.I.D.La.S.S., Rappresentanza e rappresentatività del sindacato, Atti delle giornate di studio di diritto del lavoro, Macerata, 5-6 maggio 1989, Milano, 1990

[5] Mi si consenta il rinvio a N. De Marinis, I modelli della rappresentanza sindacale tra lavoro privato e lavoro pubblico, Torino, 2002, 102 e ss.

[6] Sull’azione regolativa della Commissione si veda per tutti la puntuale analisi di cui alla monografia Conflitto e autonomia collettiva. Contributo allo studio della regolamentazione contrattuale del diritto di sciopero, Torino, 2005 da Giovanni Pino che dal suo esordio ha seguito l’attività della Commissione nella sua posizione di Capo di Gabinetto della Commissione ed al quale, nel momento del suo allontanamento per raggiunti limiti di età, è dedicato questo scritto

[7] Sia consentito ancora il rinvio a N. De Marinis, Sciopero e concertazione nei trasporti: dalla legge n. 146/90 al Patto del 23 dicembre 1998, in Mass. giur. lav., 1999, p. 352.

[8] Per un’analisi generale delle prassi della concertazione sociale vedi R. De Luca Tamajo, Garantismo legislativo e mediazione politico-sindacale: prospettive per gli anni ’80, in Riv. it. dir. lav., 1982, I, 30; F. Carinci, Il diritto del lavoro fra neo-corporativismo e neo-istituzionalismo, in Pol. dir., 1983, I, 7; T. Treu, L’intervento del sindacato nella politica economica, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 1983, 77; De Marco, La negoziazione legislativa, Padova, 1984; G. Giugni, Concertazione sociale e sistema politico in Italia, in Giorn. dir. lav. rel. ind, 1985, 53; G. Vardaro (a cura di), Diritto del lavoro e corporativismi in Europa: ieri e oggi, Milano, 1988; Id., Corporativismo e neo-corporativismo, in Dig. Disc. Priv. Comm., IV, 1989, 177; G. Ghezzi, Effetti sul diritto del lavoro e riflessi costituzionali dei procedimenti di concertazione sociale, in Boll. Inf. Cost. Parl., 1993, 55 e ora in Id., Dinamiche sociali, riforma delle istituzioni e diritto sindacale, Torino, 1996, 196, 197; Id., Accordi interconfederali e Protocolli d’intesa, in Enc. dir. (Aggiornamento), Milano, 1999, I; L. Bellardi, Concertazione e contrattazione. Soggetti, poteri e dinamiche regolative, Bari, 1999; La concertazione tra parti sociali e istituzioni, Convegno in memoria di Massimo D’Antona, Università degli Studi “La Sapienza” di Roma, sotto l’alto patronato del Presidente della Repubblica, Roma, 14 ottobre 1999, con relazioni di F. Carinci, P. Capotosti, M. D’Alberti, M. Ferrera, E. Ghera, A. Maresca; AA.VV., Parlamento e concertazione, in Quad. Arg. dir. lav., 1999, n. 3; F. Carinci, Storia e cronaca di una convivenza: Parlamento e concertazione, in Riv. trim. dir. pubbl., 2000, I, 35

[9] A riguardo vedi L. Mariucci, T. Treu, G. Ghezzi, F. Carinci, Il Protocollo di gennaio, in Pol. Dir., 1983, 187; G. Perone, L’accordo sul costo del lavoro: problemi e prospettive, in Dir. lav., 1983, I, 91; E. Ghera, Accordo trilaterale: la via italiana alla politica dei redditi, in Mondoperaio, 1983, 17;

[10] Il riferimento è al “taglio” della contingenza, ridotto ad un semestre, che viene inserito nel d.l. 15 febbraio 1984, n. 10, reiterato per scadenza dei termini nel d.l. 17 aprile 1984, n. 70 e convertito con modifiche , dopo una dura battaglia parlamentare, nella lgge 12 giugno 1984, n. 219: a riguardo cfr.  U. Romagnoli, Lo strappo di febbraio, in Pol. dir., 1984, 305; G. Ghezzi, G. Ferraro, L. Mariucci, T. Treu, Scala mobile e immobilismi, ivi, 1984, 336; A. Cessari, La crisi sindacale del febbraio 1984, in Riv. it. dir. lav., 1984, I, 213; C. Assanti, Il taglio della scala mobile. Un decreto che colpisce la contrattazione, in Dem e dir., 1984, 19; L. Mariucci, Non è più uguale a ieri il sindacato del dopo decreto, ivi, 1984, 21; P. Sandulli, Il costo del lavoro dall’accordo al decreto, in Dir. lav. 1984, I, 17; G. Giugni, Concertazione sociale e sistema politico in Italia, cit.; T. Treu, Relazioni industriali (voce per un’enciclopedia), in Giorn. dir. lav. rel. ind. 1986, 475;

[11] Cfr. G. Giugni, L’accordo sul costo del lavoro un’intesa densa di novità, in Lav. inf., 1993, n. 13, 5; F. Carinci, Il Protocollo d’intesa 23 luglio 1993 fra storia e cronaca, in Riv. pol. ec., 1993, n. 10, 155.

[12] Vedi a riguardo gli Autori citati alla nota 8

[13] Trattasi, com’è noto, del documento programmatico (pubblicato dal Ministero del Lavoro nell’ottobre 2001) relativo alle politiche del lavoro dell’appena insediato Governo di centro-destra, che di lì a poco veniva tradotto in un disegno di legge approdato al Senato il 15 novembre 2001 con il numero 848, da cui scaturirà, dopo un lungo braccio di ferro con il sindacato, fortemente contrario alla prevista revisione dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, superato, dopo lo stralcio dell’ipotizzata modifica, ma scontando, comunque, una forte lacerazione interna al sindacato per la perdurante opposizione della CGIL alla residua proposta, con la sottoscrizione da parte delle sole Cisl e Uil  del “Patto per l’Italia” del 3 luglio 2002, la legge delega n. 30/2003. Per una analisi dei contenuti del Libro Bianco e del successivo cammino della riforma vedi  T. Treu, Il Libro Bianco sul lavoro e la delega del governo, in Dir. Rel. Ind., 2002, pag. 115; G. Ghezzi, Introduzione, in AA.VV. Lavoro, ritorno al passato. Critica del Libro Bianco e della legge delega al Governo Berlusconi sul mercato del lavoro, Roma, 2002; F. Carinci e M. Miscione (a cura di), Il diritto del lavoro dal “Libro Bianco” al Disegno di legge delega 2002, Milano, 2002; G. Ferraro, La flessibilità in entrata alla luce del Libro Bianco sul mercato del lavoro, in Riv. It. Dir. Lav., 2002, I, pag. 423; L. Mariucci, La forza di un pensiero debole. La critica del “libro bianco del lavoro”, in Lav. Dir., 2002, n. 1, pag. 3; M. Rusciano, A proposito del Libro Bianco sul mercato del lavoro in Italia, in www.unicz.it/lavoro, 2002; P. Campanella, Il Libro Bianco ed il disegno di legge delega in tema di mercato del lavoro, in Lav. Giur. 2002, n. 1, pag. 5; V. Pinto, R. Voza, Il Governo Berlusconi e il diritto del lavoro: dal Libro Bianco al disegno di legge delega, in Riv. Giur. Lav. 2002, I, pag. 453; V. Pinto, Lavoro e nuove regole. Dal libro bianco al decreto legislativo 276/2003, collana Formazione ISF/CGIL, Roma, 2004.

[14] A riguardo vedi F. Carinci, M. Miscione (a cura di), Commentario alla Riforma Fornero, in Dir. Prat. Lav., Suppl. al n. 33, 2012, 137; M. Magnani, M. Tiraboschi, La nuova riforma del lavoro, Commentario alla legge 28 giugno 2012, n. 92, Giuffrè, Milano, 2012; A. Vallebona, La riforma del lavoro 2012, Giappichelli, Torino, 2012  T. Treu, Flessibilità e tutele nella riforma del lavoro, in Dir. lav. rel. ind., n. 1/2013, S. Brusati, E. Gragnoli, Una prima esperienza sulla nuova disciplina dei licenziamenti. Seminario in onore di Michele De Luca, in Quad. Arg. dir. lav., n. 12, 2014

[15] In merito cfr. E. Ghera, D. Garofalo, Le tutele per i licenziamenti e per la disoccupazione involontaria nel Jobs Act, Commento ai decreti legislativi 4 marzo 2015, nn 22 e 23, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183, Bari, 2015; L. Fiorillo – A. Perulli (a cura di), Contratto a tutele crescenti e Naspi. Decreti legislativi 4 marzo 2015, n. 22 e n. 23, Torino, 2015, G. Zilio Grandi, M. Biasi (a cura di), Commentario breve alla riforma “Jobs Act”, Padova, 2016; F. Basenghi, A. Levi (a cura di), Il contratto a tutele crescenti, Milano, 2016

[16] Il riferimento è a M. Marazza, Il diritto del lavoro per la sostenibilità del valore sociale dell’impresa, relazione al Congresso A.I.D.La.S.S., Il diritto del lavoro per una ripresa sostenibile, Taranto, 28, 29, 30 ottobre 2021

[17]Il riferimento è a M. Marazza, op. ult. cit., p. 7 della bozza provvisoria pubblicata sul sito dell’A.I.D.La.S.S

[18] Si cita ancora M. Marazza, op. ult. cit., p. 7

[19] Così M. Marazza, op. ult. cit., p. 7

[20] Vedi M. Marazza, op. ult. cit., p. 8

[21] Cfr. M. Marazza, op. ult. cit., p. 11

[22] Cfr. Cass. 30 gennaio 1980, in Foro It., 1980, I, 25

[23] Così espressamente Corte cost. 23.3.2018, n. 58

[24] M. Marazza, op. ult. cit., p. 21 e ss.

[25] Cfr. art 16 CDFUE

[26] Trattasi rispettivamente delle decisioni CGUE 11 dicembre 2007, C-438/05, Viking e 18 dicembre 2007, C-341/05, Laval un Patneri, su cui si vedano gli ampi riferimenti in M. Marazza, op. ult. cit,, alla nota 75 della bozza  

[27] Vedi art. 2, d.lgs. n. 81/2015, nel testo modificato dal d.l. n. 101/2019 convertito con modificazioni nella legge n. 128/2019 e 15, l. n. 81/2017. Inserisce la nuova nozione in quella che chiama “saga denominata vis espansiva del diritto del lavoro” O. Mazzotta, Lo strano caso delle “collaborazioni organizzate dal committente”, in Labor, Il lavoro nel diritto, 1-2, 2016. Alla rinnovata tendenza espansiva delle tutele giuslavoristiche fa riferimento anche R. De Luca Tamajo, La sentenza della Corte d’Appello di Torino sul caso Foodora. Ai confini tra autonomia e subordinazione, in LavoroDiritti Europa, n. 1/2019

[28] Il riferimento è a B. Caruso, R. Del Punta e T. Treu autori del testo pubblicato in csdle.lex.unict.it 20 maggio 2020

Zito Eleutheria! (Vive la liberté!) … ovvero: “guerra giusta”, politica e cultura nel mondo di ieri e di oggi.

Si è appena conclusa al Louvre l’exposition intitolata Paris-Athènes. Naissance de la Grèce moderne 1675-1919. La mostra ha ricostruito il filo delle relazioni intrattenute dai due paesi, il contributo di entrambi alla costituzione dell’identità culturale d’ognuno e l’emergenza di un modello culturale europeo, quello antico. L’arco temporale definito comprende la riscoperta della Grecia bizantina e ottomana da parte del marchese Charles de Nointel, in viaggio per la Sublime Porta nel 1675. Include l’impegno militare e culturale speso dai Francesi in favore della guerra d’indipendenza del 1821, l’acquisizione concomitante della Venere di Milo, la spedizione in Morea, gli scavi archeologici a Delo, Delfi e Taso. Si spinge fino alla presenza greca, con due sontuosi padiglioni, alle Esposizioni universali parigine del 1889 e 1900. Si chiude con la mostra del gruppo di artisti Omada Tehni, sempre a Parigi, nel 1919. All’interesse francese per la Grecia fa eco la costruzione dell’identità del nuovissimo stato, diviso tra il sogno politico della riconquista di Costantinopoli e la realtà della ‘Grande Catastrofe’, la guerra greco-turca del 1919-1922 che provocò l’esilio massiccio dei Greci dell’Asia Minore. Affidata a una monarchia e alla cultura neoclassica tedesca – cui l’invenzione di una tradizione s’ispirò in molti ambiti culturali, da quello architettonico all’adozione del costume nazionale – la giovane Grecia guardò più in generale a modelli europei ma non perse mai di vista il modello francese che aveva conosciuto già al tempo dei principati latini dei Franchi.

Zito Eleutheria! (Vive la liberté!) è il grido che Eugène Delacroix prestava nel Journal al soldato greco pronto a lanciarsi contro il nemico. Filelleno, Delacroix identificava gli eroi dell’indipendenza con gli antichi Greci, campioni della libertà contro l’impero persiano. La mostra celebra l’impegno francese in Grecia come missione culturale, non di rapina. Risponde con forza all’immagine della cultura antica come schiavista, misogina e razzista. Non risolve, né potrebbe farlo, il problema più generale ma cruciale, quello della distanza tra azione militare, sia pure ‘guerra giusta’, politica e cultura.

Annalisa Paradiso

Amianto: il killer assassino. Lo stato dell’arte e le tutele risarcitorie

I. Premesse.

Il termine “amianto” (’αμίαντος[1]) e il sinonimo “asbesto” (άσβεστος) identifica silicati fibrosi capaci di suddividersi in fibrille lunghe e sempre più sottili. Queste ultime raggiungono il diametro di 0,25 ųm (1300 volte più sottile di un capello umano) e, librate in aria, sono perciò stesso facilmente inalabili.

Nel corpo umano, anche per la loro capacità di immettersi nel flusso sanguigno e linfatico, raggiungono tutti gli organi, e provocano prima infiammazione (asbestosi[2], placche pleuriche e ispessimenti pleurici, con complicazioni cardiovascolari e cardiocircolatorie) e poi varie neoplasie, tra le quali il mesotelioma, tumore del polmone, della laringe e delle ovaie, e con una più elevata incidenza epidemiologica anche il tumore della faringe, e del tratto digerente – stomaco e colon[3]. Non vi è una soglia di esposizione che risulti innocua, e poiché l’Italia è stato il secondo produttore e utilizzatore con 3.748.550, vi sono ancora 40.000.000 di tonnellate di materiali che lo contengono in 1.000.000 di siti e micrositi e diverse decine di interesse nazionale.

Il 2020 ha confermato che le malattie asbesto correlate sono in aumento, e che il plateau non è stato ancora raggiunto, e secondo stime dell’ONA lo sarà solo tra il 2025 e il 2030, ed è per tale ragione che è necessaria prima di tutto la messa al bando totale dell’amianto (ancora lavorato e prodotto in Cina[4], piuttosto che in India, Russia, e in altri stati, e poi l’attività di bonifica, per evitare le future esposizioni.

Le malattie asbesto correlate, alcune monofattoriali, sono dose dipendenti e, quindi,  l’unico effettivo strumento per la tutela della salute è quello della prevenzione primaria.

Così anche nella revisione del Consenso di Helsinki[5].

II. Amianto: la conoscenza antica della sua letalità e la tardiva messa al bando.

II. Amianto: lo stato dell’arte.

La L. 257 del 1992 (“Norme relative alla cessazione dell’impiego dell’amianto”) ha premiato l’impegno dei cittadini, lavoratori e vittime e i loro familiari. Al termine di una lunga epopea, durata un secolo, finalmente il Parlamento Italiano, con la L. 257 del 1992 ha sancito il divieto di “estrazione, importazione, esportazione, commercializzazione e produzione di amianto, prodotti di amianto o di prodotti contenenti amianto” (art. 1.co. 2).

Questo divieto è stato differito di un anno rispetto alla data dell’entrata in vigore della L. 257/92 e prevedeva la possibilità di utilizzo fino al 28.04.1994 oltre che deroghe “per una quantità massima di 800 kg e non oltre il 31.10.2000” (art. 1 co. 2).

Secondo questo cronoprogramma pirandelliano, quella che sembrava essere una norma tranchant, aveva nel suo DNA quella che sarebbe stata la condizione attuale del rischio amianto nel nostro Paese, perpetuando il fallimento del sistema pubblico di prevenzione, innestandosi in un tessuto già marcio per la poca attenzione per la salute nei luoghi di lavoro.

Infatti, il nostro sistema di prevenzione ancorato sul SSN, indebolito dai continui, recenti, tagli, era ed è fragile, come purtroppo anche la vicenda Covid-19 ha dimostrato[6], e quindi il sistema articolato, dettato dalla L. 257/92, per la prevenzione del rischio è fallito.

Solo pochi dei siti contaminati sono stati bonificati, ancora di meno con lo smaltimento dell’amianto, molto con il confinamento e incapsulamento, che sono strumenti solo provvisori di limitazione del rischio.

Poichè anche dosi poco elevate possono essere decisive per l’insorgenza di malattie asbesto correlate, assai invalidanti, e in molti casi mortali, è necessaria la presa d’atto da parte del Governo e del Parlamento della necessità di nuovi strumenti di prevenzione che esaltino quella primaria, piuttosto che quella secondaria e quella terziaria, anche se i sistemi di prevenzione hanno una loro intrinseca circolarità.

Anche la prevenzione secondaria è alle corde nel nostro Paese. Strumenti di sorveglianza sanitaria, pur dovuti e doverosi, anche ai sensi dell’art. 259 del D.L.vo 81/2008 sono stati applicati a macchia di leopardo, anche per la concorrente competenza della legislazione regionale.

Così per la ricerca scientifica, l’Italia è il fanalino di coda in Europa, come rilevato anche dal Prof. Gaetano Veneto[7], e ancor di più per quanto riguarda il mesotelioma[8].

La logica indennitaria e risarcitoria, che per decenni ha animato e sta animando il dibattito sull’amianto deve essere definitivamente superata, per evitare che lo Stato si trasformi in un Caronte del terzo millennio, e che gli indennizzi, molte volte degli spiccioli, servano solo ad acquistare un mazzo di fiori da porre sulla tomba del caro estinto[9].

Tanto è vero che perfino l’emergenza dell’amianto nelle scuole, ospedali, e altri edifici pubblici, attenzionata dal Ministero della Salute con la circolare n. 45 del 1986 che imponeva la bonifica, è stata trascurata, e riproposta in seno ai lavori della Commissione Amianto del Ministro dell’Ambiente[10].

L’equivoco ha origine dalle c.d. soglie, così quella di cui all’art. 254, 1° co., del D.L.vo 81/2008[11].

Questa situazione ha provocato elevate e prolungate esposizioni, sia per il numero delle persone contaminate che per la loro intensità, tant’è che si prevede la fine dell’epidemia non prima dei prossimi 130 anni[12].

Per non parlare del fatto che ci sono ancora Paesi, come la Cina, che fanno largo uso di amianto anche nei prodotti che esportano[13], e ancora per elevate quantità[14], tanto che è fondamentale il bando globale dell’amianto[15].

Purtroppo, per questi motivi l’epidemia andrà avanti ancora per decenni, su base planetaria, coerentemente con l’allarme lanciato dall’OMS, incapace, però, di una imposizione risolutiva, in particolare nei confronti della Cina (che è il vero padrone politico dell’istituzione, attesi i finanziamenti che eroga, anno per anno).

Ci aspetta quindi la sfida verso il futuro, che imponga prima di tutto il bando totale e allo stesso tempo la bonifica e messa in sicurezza di tutti i siti.

III. I danni di amianto e le tutele.

Oltre alla responsabilità di enti pubblici e di pubbliche istituzioni per l’inadempimento degli obblighi di tutela della salute, ovvero per violazione di legge in ordine all’utilizzo dell’amianto e alla violazione dell’obbligo di evitare ogni forma di esposizione, o quantomeno di ridurla al minimo, che costituiscono un ulteriore ambito di indagine, in questa sede, circoscritta al risarcimento dei danni da amianto per esposizioni lavorative, gli obblighi risarcitori, pure fondati sulla responsabilità extracontrattuale, sono circoscritti ai datori di lavoro, ovvero ai committenti, ovvero ai titolari delle posizioni di garanzia, al netto delle prestazioni previdenziali ed assistenziali[16].

IV. I titolari delle posizioni di garanzia.

La tutela della salute e dell’incolumità psicofisica costituisce una delle finalità fondamentali del nostro ordinamento giuridico, ed è estesa anche, e a maggior ragione, agli ambienti lavorativi, presso i quali, tutti gli esseri umani esplicano le loro attività ed attingono dignitosamente anche la fonte di sussistenza, per loro e per le loro famiglie, oltre a contribuire al progresso materiale e spirituale della Nazione (artt. 1, 2, 3, 4, 32, 35, 36, 38 e 41 II co. della Costituzione)[17].

Sul datore di lavoro e su tutti i suoi dirigenti e responsabili, incombe, dunque, un obbligo specifico che è quello di tenersi aggiornati, di rimuovere il rischio alla radice, ovvero di ridurlo in modo tale da evitare ogni lesione di quel bene costituzionalmente protetto, costituito dalla salute, senza il quale tutti gli altri diritti non possono essere esercitati (art. 2087 c.c. e artt. 32, 2, 3, 4, 35, 36 e 41 II co. della Costituzione), con il definitivo superamento della logica dell’indennizzo (art. 38 Cost.)[18].

Proprio in relazione a tale massima tutela accordata dall’ordinamento, il datore di lavoro, i dirigenti e comunque coloro che sono responsabili perché titolari di particolari poteri e prerogative, sono titolari della posizione di garanzia, che ha la sua fonte primaria nella legge (costituzionale ed ordinaria), nel contratto collettivo ed individuale (criterio formale); ovvero sulla situazione sostanziale, ovvero sulla c.d. “funzione”, che impone l’esercizio dei poteri, nel rispetto dei doveri di solidarietà sociale (art. 2 Cost.) e della salute (art. 32 Cost.).

I due criteri si sintetizzano nella c.d. teoria “mista”, che valorizza la sussistenza del contratto che “ha forza di legge tra le parti” (1372 c.c.), e gli obblighi di protezione che ne discendono (art. 2087 c.c.), con l’imposizione del rispetto delle specifiche regole cautelari, da quelle di cui al DLgs 81/08, titolo IX, capo III, fino all’obbligo nascente dall’art. 2087 c.c. quale norma di chiusura dell’ordinamento.

I datori di lavoro assolvono una funzione di protezione, hanno poteri impeditivi della lesione del bene di cui sono portatori, e per il fatto che hanno “preso in carico” (così sent. Cass., IV Sez. Pen., n. 38991/2010, p. 37) il prestatore d’opera, hanno il dovere giuridico di evitare a costoro ogni pregiudizio alla salute, anche con l’obbligo di modificare gli ambienti lavorativi e di organizzare diversamente le modalità di produzione, per evitare alla fonte la sussistenza del rischio.

La legge pone a loro carico l’adozione di strumenti di prevenzione tecnica e di prevenzione formativa, sanitaria e tecnica, in relazione al caso specifico[19].

V. L’obbligo della massima sicurezza tecnicamente fattibile (art. 2087 c.c.) e non applicabilità del limite delle 100 ff/ll ai fini della sussistenza dell’obbligo risarcitorio.

L’obbligo di tutela della salute impone primariamente la neutralizzazione di  tutte le fonti di pericolo e quindi di rischio, la cui concretizzazione porta ad infortuni e a malattie professionali  costituite dalle patologie asbesto correlate.

In tale ottica, l’art. 2087 c.c. impone prima di tutto misure preventive e precauzionali e solo in via alternativa e successiva costituisce la fonte per affermare la responsabilità penale (come integrativa dei precetti di cui agli artt. 589 e 590 c.p. piuttosto che di quelli di cui agli artt. 437 e 434 c.p.c.), e quindi il risarcimento dei danni, sia con la costituzione di parte civile nel processo penale, che con autonomi giudizi civili[20].

Pertanto, in tema di superamento di un limite ai fini del riconoscimento dell’origine professionale di una patologia, la Corte di Cassazione con la sentenza della Sezione Lavoro n. 4721 del 09.05.1998 ha chiarito che  “da tempo era ben nota l’intrinseca pericolosità delle fibre di amianto … anche indipendentemente dalla concentrazione di fibre per cm3”. E ancora l’obbligo di cautela sussiste “pur quanto le concentrazioni atmosferiche non superino determinati parametri … ma risultino comunque tecnologicamente possibili di ulteriore abbattimento” e la responsabilità sussiste anche nel caso in cui ci siano esposizioni minime, purché ci siano state possibilità di abbattere ulteriormente i livelli espositivi: “in materia di responsabilità civile, sussiste nesso di causalità tra l’attività lavorativa e la patologia … quando il dipendente sia stato esposto all’amianto e non possa essere esclusa l’esistenza di un rischio di un tumore polmonare anche a livelli di esposizione estremamente bassi” (Cass., 14.01.2005, n. 644).

In conclusione, in caso di malattia sussiste responsabilità del datore di lavoro “pur se abbia rispettato i cosiddetti valore limite di esposizione ad amianto, non si sia attenuto al principio della massima sicurezza tecnologicamente fattibile nell’attuazione delle misure di prevenzione, in quanto i valori limite, se da una parte introducono un elemento di maggiore certezza, dall’altro non stabiliscono una precisa di demarcazione tra innocuo e nocivo” (Cass., IV Sez. pen., sentenza 02.07.1999, in Foro Italiano, 2000, II, 260)[21].

Inoltre, rileva anche l’esposizione ambientale e non soltanto personale “ai fini della sussistenza del reato del superamento dei valori limite … rileva l’obiettiva concentrazione delle fibre nell’aria e non le fibre effettivamente respirate dal lavoratore” (Corte di Cassazione, III Sez. pen., 19.03.2004, in Foro italiano, 2005, II, 175)[22].

Si impone, altresì, «un onere preciso al datore di lavoro, l’onere di tenersi aggiornato, di acquisire le esperienze di aziende simili, di individuare, dunque, caso per caso, secondo le particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, le misure da adottare nel caso concreto» (Cass. Pen., Sez. IV, sent. n. 3567/2000).

Secondo la Cass. Sez. Lav. n. 18626 del 05.08.2013, la responsabilità dell’imprenditore ex art. 2087 cod. civ. non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva, ma non è circoscritta alla violazione di regole d’esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, essendo sanzionata dalla norma l’omessa predisposizione di tutte le misure e cautele atte a preservare l’integrità psicofisica del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto conto della concreta realtà aziendale e della maggiore o minore possibilità di indagare sull’esistenza di fattori di rischio in un determinato momento storico.

Pertanto, «qualora sia accertato che il danno è stato causato dalla nocività dell’attività lavorativa per esposizione all’amianto, è onere del datore di lavoro provare di avere adottato, pur in difetto di una specifica disposizione preventiva, le misure generiche di prudenza necessarie alla tutela della salute dal rischio espositivo secondo le conoscenze del tempo di insorgenza della malattia, essendo irrilevante la circostanza che il rapporto di lavoro si sia svolto in epoca antecedente all’introduzione di specifiche norme per il trattamento dei materiali contenenti amianto, quali quelle contenute nel d.lgs. 15 agosto 1991, n. 277, successivamente abrogato dal d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81» (Cass. Civ., Sez. Lav., 14 maggio 2014, n. 10425).

V.1. Le norme che dettano regole cautelari specifiche.

La giurisprudenza, ormai granitica, fonda la responsabilità del datore di lavoro sia sull’art. 2087 c.c., sia sulle regole cautelari specifiche[23].

Sulla base di tale consolidata giurisprudenza, trovano applicazione, in materia di giudizi risarcitori per esposizione ad amianto e insorgenza di malattie professionali, le seguenti norme:

– regio decreto del 14 aprile 1927 n. 530 (agli articoli 10, 16 e 17 conteneva diffuse disposizioni relative alla aerazione dei luoghi di lavoro, soprattutto in presenza di lavorazioni tossiche);

– art. 2087 c.c. con riguardo a questo articolo, la Cassazione si è così espressa: «Secondo () costante giurisprudenza () l’articolo 2087 c.c., come norma di chiusura del sistema antinfortunistico, impone al datore di lavoro, anche dove faccia difetto una specifica misura preventiva, di adottare comunque le misure generiche di prudenza e diligenza, nonché tutte le cautele necessarie, secondo le norme tecniche e di esperienza, a tutelare l’integrità fisica del lavoratore»[24](Cass. 18 novembre 1976, n. 4318, Cass., Sez. Lav., 9 maggio 1998, n. 4721, Cass., Sez. Lav., 23 maggio 2003, n. 8204, Cass., Sez. Lav., 14 gennaio 2005, n. 644);

  • artt. 377 e 387 del d.p.r. 27 aprile 1955 n. 547 (norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro);
  •  l’art. 21 del d.p.r. 19 marzo 1956 n. 303 (obbligo per il datore di lavoro di adottare i provvedimenti atti a impedire o ridurre lo sviluppo e la diffusione delle polveri nell’ambiente di lavoro);

– norme del d.p.r. n. 215 del 24 maggio 1988, attuative delle direttive CEE 83/478 ed 85/610, recanti modifiche alla direttiva 76/769, in tema di restrizioni in materia di immissioni sul mercato e di uso di talune sostanze e preparati pericolosi. L’art.15 della legge 16 aprile 1987, n. 183, confermava il divieto di immissione sul mercato ed uso della crocidolite e dei preparati che la contengono; con lo stesso decreto veniva inoltre sancito il divieto di immissione ed uso di prodotti contenenti altri tipi di anfiboli;

– il D.L.vo 277/91, nel recepire finalmente la direttiva 477/83/CEE, poi trasfuse nel D.L.vo 81/2008. In ogni caso, tenendo conto che le malattie asbesto correlate sono lungolatenti, rileva anche la disciplina in vigore all’epoca delle esposizioni[25].

Tale complesso e complessivo quadro risulta riepilogato, in riferimento alla normativa allora in vigore, dalla stessa Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con la sentenza n. 4721/1998, le cui posizioni sono state poi recepite e confermate da tutta la giurisprudenza civile e penale (tra le tante, si può richiamare Cassazione, IV Sezione Penale, con la sentenza 01.02.2008, n. 5117; ancora Corte di Cassazione Civile, Sez. Lavoro, n. 10425 del 2014, Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, sentenza n. 2251 del 2012; Cassazione, Sezione Lavoro, n. 1477/2014 ed ex multis)[26].

Nel caso dell’amianto, le norme preventive poste a protezione dei lavoratori dall’asbestosi devono, dunque, essere interpretate come volte a scongiurare anche i rischi di insorgenza del tumore polmonare e di altre patologie asbesto correlate. Si tratta, infatti, di misure cautelari tese a difendere lo stesso bene giuridico – la salute – e la cui adozione avrebbe evitato l’insorgenza anche del tumore polmonare, ovvero avrebbe determinato un maggior periodo di latenza e quindi una maggiore aspettativa di vita, anche nel caso in cui la patologia fosse ugualmente insorta, determinando così perciò stesso anche la sussistenza del nesso causale (cfr. Cass. Pen., Sez. IV, 11 febbraio 2003, n. 20032; Cass. Pen., Sez. IV, 11 luglio 2002, n. 988)[27], con conseguente diritto al risarcimento di tutti i danni, in relazione anche solo all’anticipazione dei tempi di latenza e/o aggravamento[28].

Il fatto stesso che tutte le malattie asbesto correlate, compreso il mesotelioma, rispondono alla legge scientifica universale della causalità generale della teoria multistadio della cancerogenesi, ovvero della dose dipendenza, conferma l’evento e il nesso causale, perché, in tal guisa, è esplicativa della causalità individuale[29].

Questa legge scientifica, attribuita all’autorità di Richard Doll, è esplicativa della causalità individuale, oltre che per il tumore del polmone, anche per lo stesso mesotelioma: tutte le esposizioni rilevano quantomeno per abbreviazione dei tempi di latenza, aggravamento e anticipazione della data della morte, e quindi ciò dimostra che se fossero stati adottati materiali alternativi, ovvero rispettate le regole cautelari, così da evitare, ovvero ridurre l’esposizione, ciò avrebbe evitato l’insorgenza della malattia, ovvero, a tutto voler concedere, l’abbreviazione della latenza e ovvero l’anticipazione della data della morte del paziente[30].

In ogni caso, anche a voler escludere il carattere cogente di tutto il compendio di regole cautelari già citate, in ogni caso il datore di lavoro e/o titolare della posizione di garanzia era gravato degli obblighi di cui all’art. 2087 c.c.

Infatti la Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, Sentenza n. 5086 del 29.03.2012, ha precisato che sussiste «(…) l’obbligo del datore di lavoro ex art. 2087 c.c., “anche dove faccia difetto una specifica misura preventiva, di adottare comunque le misure generiche di prudenza e diligenza, nonché tutte le cautele necessarie, secondo le norme tecniche e di esperienza, a tutelare l’integrità fisica del lavoratore assicurato” v. Cass. 23-5-2003 n. 8204; con riguardo ad una esposizione dal 1959 al 1970 v. Cass. 9-5- 1998 n. 4721, dal 1959 al 1971 v. Cass. 14-1-2005 n. 644 e dal 1975 al 1995 v. Cass. 1-2-2008 n. 2491; per un periodo dal 1975, da ultimo, v. anche Cass. 11-7-2011 n. 15156)».

Già il solo adempimento del principio della massima sicurezza tecnicamente possibile, sulla base dell’art. 2087 c.c., avrebbe evitato, o fortemente abbattuto i tempi e i livelli di esposizione, e quindi, proprio sulla base della legge scientifica universale della dose dipendenza, ciò avrebbe comunque inciso, quantomeno sui tempi di latenza, sulla lesività/entità del danno biologico e/o sulla loro letalità, anch’essa in proporzione all’entità delle esposizioni, e poiché deve trovare applicazione il principio dell’equivalenza causale, si conferma il principio della imputabilità dell’evento malattia/morte, ai fini del risarcimento del danno, in relazione alle condotte in contrasto con gli obblighi cautelari, di cui sopra, e perciò stesso con configurabilità dell’inadempimento (responsabilità contrattuale), e dell’illecito (responsabilità extracontrattuale), per i diversi profili (artt. 2050 e 2051 c.c.), ovvero sul presupposto dell’ingiustizia del danno (artt. 2043 e 2059 c.c.), ovvero della responsabilità civile da reato, con riferimento anche alla prevedibilità ed alla evitabilità dell’evento (malattia e/o morte).

VI. Il nesso causale.

Diverse sono le regole probatorie e di giudizio in ordine al nesso causale, che è la vera e propria chiave di volta della problematica connessa all’accertamento di eventuali responsabilità in seguito a malattia e morte da amianto[31].

La responsabilità penale, che è ancorata al principio della tutela dell’innocente, e quindi sul principio dell’‘oltre ogni ragionevole dubbio[32], e quindi della certezza processuale, che deve essere raggiunta sulla base della elevata probabilità logica e credibilità razionale, anche su base abduttiva (SS.UU. 30328/2002; 581/2008; Cass. Penale, IV Sez., 27.02.2014, n. 9695 e in materia di amianto Cassazione, IV Sezione Penale, sentenza 38991/2010 e 43786/2010), valorizzando tutte le prove compresa quella testimoniale e di assenza di un decorso alternativo, da cui trae conferma la fondatezza dell’ipotesi accusatoria (Corte di Cassazione, IV sezione penale, 12151/2020).

Diversamente, in sede civile, si afferma il principio del ‘più probabile che non’, ovvero della conferma del nesso causale, a condizione che ci sia la probabilità di 50+1 di riconducibilità causale dell’evento alle condotte attive e omissive dei titolari delle posizioni di garanzia.

Il nesso di causalità, in sede civile è confermato se sussiste la «relazione probabilistica concreta tra comportamento ed evento dannoso, secondo il criterio (ispirato alla regola della normalità causale) del “più probabile che non”» (Cass. 16 gennaio 2009, n. 975; SS.UU. 581/2008), anche sulla base dell’aumento del rischio e/o dell’anticipazione della latenza e/o della morte della vittima (equivalenza causale, art. 41 c.p.).

In sede civilistica, invece, il criterio applicabile è quello della “preponderanza dell’evidenza” (o del “più probabile che non”), come affermato pacificamente anche dalla giurisprudenza più recente della Corte di Cassazione (Cass. civ., sez. III, 31.03.2016, n.  6222), sulla base della equivalenza causale (Cassazione, sezione lavoro, sentenza 21.09.2016 n. 18503).

Una parte minoritaria della giurisprudenza lega l’evento malattia/morte ad una condotta attiva, di somministrazione continua di polveri e fibre di amianto, capace di provocare patologie fibrotiche e neoplastiche (Cass., IV Sez. Pen., n. 38991/2010).

L’evento, quindi, è direttamente riconducibile all’utilizzo dell’amianto privo di cautele, anche quelle di cui all’art. 2087 c.c., che dovevano essere comunque assunte poiché le lavorazioni dell’amianto dovevano essere considerate insalubri, in relazione a quanto sancito già con il R.D. 442 del 1909 e con l’art. 17 del R.D. 530 del 1927 e ancora per effetto della L. 455/43, anche a voler ammettere che non ci fosse un obbligo di utilizzare materiali non dannosi per la salute umana.

In tale ultima ottica, le patologie asbesto correlate vengono considerate il risultato di una continua somministrazione di fibre di amianto che inducono inizialmente infiammazione, appesantiscono il sistema cardiaco e cardiocircolatorio e che poi alimentano le degenerazioni neoplastiche, fino alla malattia e alla morte, eventi certamente prevedibili e sicuramente evitabili, tenendo conto del compendio del sistema normativo, alla stregua anche della legislazione europea.

La normativa comunitaria (quarto considerando della direttiva n. 477/83/CEE e l’undicesimo della n. 148/2009/CE) ha confermato la legge scientifica dell’assenza di una soglia al di sotto della quale il rischio si annulli, e, per effetto del già richiamato compendio normativo, deve ritenersi sussistente il divieto di esposizione anche prima dell’introduzione dei divieti di cui alla L. 257/1992 (tra le tante Cassazione, IV Sezione Penale, sentenza n. 4915 del 2012), ragione per la quale, essendo vietata dalla legge ogni esposizione ad amianto a prescindere dai limiti di soglia, permane l’obbligo risarcitorio dei danni anche laddove l’esposizione fosse minima e comunque suscettibile di ulteriore riduzione (Cass., Sez. lav., sentenza n. 4721/1998; Cass., IV Sez. pen., sentenza n. 5117/2007).

L’unico strumento di effettiva tutela della salute umana, rispetto a tale rischio, è evitare ogni forma di esposizione[33] ed è per tale ragione che, in relazione alla conoscenza e/o conoscibilità delle capacità lesive dell’amianto per la salute umana, anche la legittimità del suo utilizzo, non rendeva tale l’esposizione dei lavoratori, che dovevano essere preservati nella loro incolumità[34].

Il giudizio in ordine alla qualificazione dei fatti e al nesso causale deve essere formulato sulla verifica dell’avvenuta adozione o meno di tutte le regole cautelari, imposte dalla legge e dagli usi, per evitare ogni forma espositiva, ovvero per ridurla al minimo, essendo risaputa la lesività delle fibre di amianto per la salute umana già all’inizio del secolo scorso e gli effetti cancerogeni già all’inizio degli anni ’30 o, al più, agli inizi degli anni ’40[35].

La maggior parte della giurisprudenza riconduce l’evento ad una condotta omissiva, solo in casi isolati invece si ritiene che rilevi la condotta attiva e cioè quella di aver utilizzato amianto e materiali che lo contenessero e di averne quindi somministrato le fibre, come una sorta di avvelenamento quotidiano ai dipendenti.

Ciò avrebbe quale logica conseguenza la conferma del nesso causale legato all’utilizzo dei materiali cancerogeni, e quindi l’obbligo risarcitorio.

Infatti, la responsabilità discende dal fatto che dovessero essere utilizzati materiali non dannosi per la salute.

Contrariamente, laddove si accolgano le tesi della giurisprudenza e della dottrina maggioritaria, e quindi rilevi la condotta omissiva, trova applicazione l’equivalenza di cui all’art. 40, II co., c.p.: il titolare della posizione di garanzia risponde per aver violato le regole cautelari, perché aveva l’obbligo di evitare l’evento, e lo avrebbe evitato rispettando le norme che imponevano regole cautelari finalizzate a proteggere il bene giuridico che è risultato leso.

VI.1. Gli oneri probatori a carico del datore di lavoro.

Il datore di lavoro, ove il lavoratore malato o i famigliari di quello deceduto dimostrino l’esposizione e il mancato rispetto delle regole cautelari, in applicazione della teoria multistadio della cancerogenesi e della loro rilevanza, al fine di  evitare la condanna al risarcimento di tutti i danni in sede civilistica, dovrà dimostrare di aver ottemperato a tutte le regole cautelari.

Costituisce consolidato orientamento giurisprudenziale quello a mente del quale “qualora sia accertato che il danno è stato causato dalla nocività dell’attività lavorativa per esposizione all’amianto, è onere del datore di lavoro provare di avere adottato, pur in difetto di una specifica disposizione preventiva, le misure generiche di prudenza necessarie alla tutela della salute dal rischio espositivo secondo le conoscenze del tempo di insorgenza della malattia, escludendo l’esposizione della sostanza pericolosa, anche se ciò imponga la modifica dell’attività dei lavoratori, assumendo in caso contrario a proprio carico il rischio di eventuali tecnopatie” (Sul punto: Cass. Civ., Sez. Lavoro, 14.05.2014, n. 10425).

 La violazione di tutte le regole precauzionali, anche quelle minime, impone al datore di lavoro di dimostrare che la patologia è insorta esclusivamente per altre cause (cfr. Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, sentenza 644/2005, citata).

Ciò perché tutte le esposizioni, anche quelle inferiori per intensità e durata, hanno comunque avuto un ruolo nell’innesco, ovvero nell’accelerazione delle fasi della induzione, iniziazione, promozione e progressione, e quindi una diminuzione dei suoi tempi e con essa di quelli di periodo di vita sana, ovvero di sopravvivenza del paziente (Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, sentenza n. 5086 del 29.03.2012)[36].

VI.2. Sulla legge scientifica di copertura.

La partita del risarcimento dei danni si gioca prevalentemente sul terreno della causalità materiale, e nell’ambito delle regole proprie di quella omissiva, rispetto alla quale assume decisiva rilevanza la sussistenza o meno di una legge scientifica che possa condurre a quel giudizio di certezza processuale (per quanto riguarda il giudizio penale, ovvero il giudizio civile esercitato nel giudizio penale), ovvero di maggiore probabilità superiore al 50% + 1, propria del giudizio civile, esercitata nella propria sede, ordinaria e lavoristica (responsabilità contrattuale, e in subordine extracontrattuale).

In ordine alle patologie fibrotiche (asbestosi, placche pleuriche e ispessimenti pleurici) sussiste unanimità scientifica sulla dose rilevanza, riconducibile sempre e soltanto ad esposizioni professionali, le uniche che possono raggiungere una intensità tale da poterle provocare.

Evidente quindi che,  l’applicazione delle regole cautelari ed il loro rispetto avrebbero avuto una sicura efficacia.

Diversamente accade per le patologie neoplastiche, che possono insorgere anche a dosi più basse, rispetto alle quali le difese dei datori di lavoro hanno sempre sostenuto l’inefficacia delle misure cautelari e quindi la non evitabilità dell’evento e dunque l’assenza di responsabilità e quindi di obbligo risarcitorio.

Infatti è il principio stesso della rilevanza della dose cumulativa e della lesività di tutte le esposizioni, a prescindere dalla soglia, a confermare che, sempre e in ogni caso, coloro che provocano l’esposizione sono responsabili in solido, perché nessuna esposizione è ininfluente[37].

I consulenti delle aziende, ovvero i loro dirigenti, dinnanzi a quella che è una vera e propria strage di lavoratori e di familiari, specialmente per i casi di mesotelioma, hanno sostenuto che tale tali patologie fossero causate da un’unica, singola, fibra, sarebbe stato e sarebbe impossibile evitare l’evento, per inefficacia degli strumenti preventivi e per il fatto che comunque il tumore sarebbe sicuramente insorto per la presenza ubiquitaria dell’amianto anche nei luoghi di vita e perché, in ogni caso, non potrebbe essere individuato il responsabile, ovvero discriminata la fonte dell’esposizione rispetto a quella extralavorativa (Cass., IV Sez. pen., sentenza n. 38991/2010; Cass., IV Sez. pen., sentenza n. 43786/2010 ed altre).

Per le altre neoplasie, invece, i datori di lavoro hanno fatto leva sul carattere multifattoriale di queste patologie, e quindi sulla presunta impossibilità di poter stabilire, specialmente in sede penale, quale fosse rispetto ad ogni singolo caso l’agente eziologico, e soprattutto alla impossibilità di ricondurlo alle attività lavorative e quindi l’assenza del nesso causale (Cass., IV Sez. pen., sentenza n. 43786/2010 ed altre).

Se questi articolati difensivi possono avere una qualche logica in sede penale (Cass., IV^ sez. pen., 43786/2010), in sede civile, sulla base della regola probatoria e di giudizio differente, le richieste risarcitorie debbono trovare accoglimento.

Infatti, la legge scientifica della dose dipendenza è ormai universale, e quindi poiché rilevano tutte le esposizioni, anche se ci fossero più fonti professionali e anche extraprofessionali, comunque sussiste una responsabilità in solido.

 

VI.2.a. Il mesotelioma.

L’associazione tra esposizione ad amianto e mesotelioma[38] maligno è pari al 90%, vicina al 100% tra i lavoratori[39]e«l’aumento del rischio è proporzionale alla dose cumulativa; anche esposizioni di breve durata e intensità possono essere associate all’insorgenza di un mesotelioma»[40] (Enzo Merler, Paolo Girardi, Chiara Panato e Vittoria Bressan[41]).

Sulla base della legge scientifica universale della causalità generale, esplicativa della causalità individuale, si trae la conclusione che in caso di dimostrata esposizione ad amianto, sia su basi tecniche (amplius capo VI.3), ovvero con segni patognomici, prove biologiche legate alla rilevazione strumentale di placche pleuriche e ispessimenti pleurici, e su base epidemiologica, si può raggiungere la certezza processuale, ‘oltre ogni ragionevole dubbio’, ai fini della responsabilità penale, ovvero alla elevata probabilità (50+1 in sede civile), ai fini dell’obbligo di ottenere la condanna al risarcimento del danno, oltre ai profili previdenziali (INAIL[42] e causa di servizio).

L’applicazione di tali regole esplicative permette di confermare il decorso causale riconducibile all’esposizione non cautelata a polveri e fibre di amianto (accompagnata da rilevazioni epidemiologiche e dal carattere patognomico delle placche pleuriche e degli ispessimenti pleurici), tanto più nel caso in cui possa essere escluso un decorso alternativo.

Il Consensus meetings di Lille e di Berlino ha permesso di confermare che l’insorgenza del mesotelioma, il rischio e i tempi di latenza sono legati alle “dosi cumulative, anche se non è possibile stabilire quale sia la dose cumulativa sufficiente”.

Nel corso della Seconda Conferenza di Consenso Italiana sul Mesotelioma Pleurico (Torino, 24-25 novembre 2011[43]), gli oncologi sono giunti all’unanime consenso della assenza di fondamento scientifico della c.d. teoria della “trigger dose[44] che peraltro non poteva essere ricondotta all’autorità del Prof. Selikoff e che, come per tutte le altre patologie neoplastiche, anche per il mesotelioma trova applicazione la teoria multistadio della cancerogenesi: «Le fibre di amianto (AF) agiscono attraverso meccanismi diversi. I principali fattori che condizionano il rischio per il Mesotelioma Maligno comprendono il tipo di fibra, le dimensioni, il livello di esposizione ed il tempo. La nostra revisione sistematica della letteratura ha mostrato che il rischio di MM aumentava con la dose cumulativa e con il carico polmonare di fibre, in accordo con le recensioni precedenti».

Queste conclusioni sono state confermate in occasione della Terza Conferenza di Consenso Italiana sul mesotelioma maligno della Pleura (Bari, 29-30 gennaio 2015), come è confermato dagli atti “III Italian Consensus Conference on Malignant Mesothelioma of the Pleura. Epidemiology, Public Health and Occupational Medicine related issues”, pubblicati in Med Lav 2015; 106, 5: 000-000 – primo numero del 2015.

Queste conclusioni sono coerenti con le risultanze dell’ultima monografia IARC in materia di amianto (Volume 100/C delle Monografie – 2012) che, nel capitolo dedicato alla carcinogenesi da asbesto, conferma entrambi i meccanismi patogenetici che sono alla base della cancerogenesi multistadio.

La giurisprudenza di legittimità ha precisato che «La latenza diminuisce con l’incremento dell’esposizione. Si tratta di una legge scientifica sufficientemente radicata nella comunità scientifica e di carattere universale. Non esiste una esposizione irrilevante. Studi accreditati indicano che la latenza minima è di circa 15 anni e di 32 anni quella media. Inoltre, l’esposizione lavorativa implica una latenza più breve () Sono rilevanti non solo le esposizioni iniziali che conducono inizialmente nel processo cancerogenetico, ma rilevano pure quelle successive fino all’induzione della patologia, dotate di effetto acceleratore, appunto, e di abbreviazione, quindi, della latenza. Interessa inoltre comprendere se, eventualmente, si tratti di legge universale o probabilistica. Occorre rammentare che questa Corte ha avuto modo di fornire indicazioni metodologiche proprio con riguardo a situazioni del genere di quella in esame (Sez IV, n. 18933 del 27/02/2014, Rv. 262139)” (pag. 164 della impugnata sentenza)» (Corte di Cassazione, IV^ sezione penale, sentenza n. 3615/2016[45]).

La concausa, anche per sola abbreviazione dei tempi di latenza, è sufficiente ai fini della configurabilità dell’evento e della conferma del nesso causale, anche nel caso in cui ci fossero eventuali esposizioni extraprofessionali (art. 41 c.p.)[46].

La c.d. teoria della “trigger dose” è risultata priva di fondamento, anche in sede penale (v. Cass. Sez. IV 988/2002; Cass. Sez IV n. 22165/2008; sez IV 33311/12 ed ex multis[47]) e, anche nel caso di più responsabili, si è giunti comunque ad affermare la responsabilità di tutti, e il conseguente obbligo di risarcimento dei danni in solido (Corte di Cassazione, IV Sezione Penale n°24997/12 ed ex multis)[48].

In sostanza la Corte di Cassazione, IV Sez. Pen., con la sentenza 8 maggio 2014, n. 18933, ha seppellito il presunto fondamento della «tesi della dose killer [che] è espressione di un vecchio e superato modello di cancerogenesi[49]», e pertanto “non esiste una esposizione irrilevante” (Corte di Cassazione, IV Sezione penale, n. 3615/2016) e quindi, laddove c’è stata esposizione ad amianto, lì c’è la responsabilità e dunque l’obbligo di risarcimento dei danni, anche nel caso di plurime esposizioni, professionali ed extraprofessionali che siano (art. 41 c.p.).

VI.2.b. Tumore del polmone dose dipendenza e sinergia con il fumo di sigaretta.

L’inalazione delle fibre di amianto induce tumore al polmone, in sinergia con il fumo di sigaretta. Questa neoplasia è multifattoriale, come lo sono il tumore alla laringe, all’ovaio e al colon, per fermarsi a quelle individuate dalla monografia IARC, e in questo caso le fibre di amianto agiscono in sinergia, ovvero potenziano gli effetti anche degli altri cancerogeni e di eventuali esposizioni extraprofessionali, compresi gli altri agenti causali, tra i quali il fumo di sigaretta.

Per tali motivi, anche in questi casi, si conferma la rilevanza della legge scientifica della dose dipendenza, pur nella non monofattorialità della malattia, e quindi tenendo conto che anche eventuali esposizioni extralavorative, comprese quelle del fumo di sigaretta, determina la conferma del nesso di causalità, anche quando le esposizioni ad amianto sono assunte a bassa dose, sulla base dell’art. 41 c.p., e tenendo conto dei principi di cui a Cassazione, sezione lavoro, 644/2005, ed ex multis.

Nel Consensus Report di Helsinki[50] del 1997 “Si stima che il rischio relativo di cancro del polmone aumenti dal 0.5 al 4% per ogni fibra per centimetro cubo per anno (fibre-anno) di esposizione cumulativa. Usando il limite superiore di questo range, si stima che una esposizione cumulativa di 25 fibre/anno incrementi il rischio di cancro del polmone di 2 volte. Casi clinici di asbestosi possono manifestarsi per esposizioni cumulative paragonabili”, senza che ci sia alcuna soglia di esposizione cumulativa a polveri e fibre di amianto al di sotto della quale può ritenersi escluso il rischio di insorgenza di tale neoplasia.

La dose cumulativa pari a 25 fibre/anno ha una rilevanza solo ai fini statistici di insorgenza di un certo numero di casi di cancro del polmone (due volte superiore al dato atteso di una popolazione non esposta), e questo dato non fa altro che confermare come la teoria multistadio della cancerogenesi costituisca il modello esplicativo sul nesso causale.

Non è necessaria l’asbestosi per poter affermare la riconducibilità dei tumori polmonari all’esposizione ad amianto (Egilman e Reinert).

La riconducibilità del tumore polmonare all’esposizione ad amianto è confermata anche dagli ultimi e più recenti studi[51].

Boffetta nel 1998, nel suo articolo sulla stima quantitativa del rischio da esposizione ad amianto, ha evidenziato come il modello più diffusamente accettato nella comunità scientifica fosse quello dose-risposta di tipo lineare senza soglia, ma afferma che anche modelli alternativi con una soglia a livelli bassi di esposizione possono essere accettati, non essendo disponibili dati relativi ad esposizioni cumulative al di sotto di 1fibra/ml. Riguardo al rapporto tra fibrosi polmonare e tumore del polmone, anche Foà e Colosio (1997) confermano le conclusioni alle quali sono giunti in maniera motivata Egilman e Reinert nel 1995, secondo i quali “il tumore del polmone può essere conseguente ad esposizione ad amianto in assenza di asbéstosi radiologicamente o istologicamente evidenziabile”, qualora il rapporto causale venga avvalorato sulla base della congruità dell’esposizione e del periodo di latenza.

Le tesi già sostenute da Richard Doll circa il carattere universale della legge scientifica definita “Teoria multistadio della cancerogenesi” (‘Mortality from lung cancer in asbestos workers’ – 1955[52]), hanno trovato unanime e definitiva conferma in tutti i lavori scientifici, unitamente al carattere di azione sinergica indotta dagli altri cancerogeni.

Il Ministero della Salute[53] ha confermato che c’è un aumento dell’insorgenza di neoplasie polmonari fino a 5 volte nel caso di esposizione ad amianto, che si moltiplica a 50 volte nel caso di esposizione sinergica ad amianto e a fumo di sigaretta (coerentemente con i criteri di Helsinki) e chiarisce che: “La presenza di asbestosi non è un requisito indispensabile per il tumore polmonare asbesto-correlato e, secondo i criteri diagnostici di Helsinki, non è necessario il riscontro radiologico o bioptico di asbestosi per attribuire all’asbesto un ruolo centrale nell’insorgenza del tumore polmonare”.

VI.2.c. Il tumore al colon.

L’agenzia IARC nella sua ultima monografia (IARC 2012. Asbestos. Actinolite, amosite, anthophyllite, chrysotile, crocidolite, tremolite. IARC Monogr Evaluation Carcinog Risk Chem Man, Vol. 100C), fa riferimento specifico all’aumentata incidenza di tumore del grosso intestino ed in generale dei tumori gastrointestinali tra coloro che sono stati esposti professionalmente a polveri e fibre di amianto.

Ronald E. Gordon ed altri (Carcinoma of the colon in asbestos-exposed workers: analysis of asbestos content in colon tissue), hanno premesso che precedenti lavori scientifici avevano consentito di appurare una più alta incidenza di decessi per tumore al colon tra coloro che erano stati esposti ad amianto [Selikoff et al., 1979[54]; Miller, 1978; Puntoni et al., 1979; Newhouse e Berry, 1979;Hilt et al., 1985; Ehrlich et al., 1985; Frumkin and Berlin, 1988].

Gli esami al microscopio elettronico ed ottico di tessuti di carcinomi al colon e al mesenterio in lavoratori esposti ad amianto hanno confermato la presenza di corpi di asbesto nei tessuti [Ehrlich et al., 1985; Kobayashi et al., 1987]. Gli studi di Ronald E. Gordon hanno permesso di confermare tale presenza di fibre e corpi di amianto nei tessuti delle neoplasie al colon di coloro che sono stati esposti ad amianto.

Il Gruppo di Lavoro di esperti IARC, che si è riunito a Lione dal 17 al 24 marzo 2009,  ha concluso che sussiste “una associazione positiva tra esposizione ad amianto e cancro del colon retto, basata su risultati abbastanza consistenti di studi di coorte occupazionali, oltre all’evidenza di relazioni positive esposizione-risposta tra esposizione cumulativa ad amianto e cancro del colon retto riportata costantemente nei più dettagliati studi di coorte”  (McDonald et al., 1980; Albin et al., 1990; Berry et al., 2000; Aliyu et al., 2005). La conclusione è stata ulteriormente supportata dai risultati di quattro grosse e ben strutturate meta analisi (Frumkin & Berlin 1988; Homa et al., 1994; IOM, 2006; Gamble, 2008).

La direttiva 2009/148/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 30 novembre 2009 “sulla protezione dei lavoratori contro i rischi connessi con un’esposizione all’amianto durante il lavoro”, all’allegato 1 “Raccomandazioni pratiche per l’accertamento clinico dei lavoratori, di cui all’articolo 18, paragrafo 2, secondo comma” recita: “In base alle conoscenze di cui si dispone attualmente, l’esposizione alle fibre libere di amianto può provocare le seguenti affezioni: asbestosi, mesotelioma, cancro del polmone, cancro gastrointestinale.

Il Governo italiano, ne il Piano Nazionale Amianto, approvato e pubblicato nel marzo 2013, ha previsto che “prioritariamente vanno indagate le patologie correlate ad esposizione ad amianto, così come elencate nella monografia n. 100 della IARC e classificate nei gruppi I e II: tumore del polmone, della laringe, dell’ovaio, del colon retto, dell’esofago, dello stomaco”.

Un successivo studio prospettico di popolazione esposta in modo prolungato ad amianto ha dimostrato una più alta incidenza dei casi di cancro al colon, totale e distale, e del cancro rettale (Offermans NSM e collaboratori (Occupational asbestos exposure and risk of esophageal, gastric and colorectal cancer in the prospective Netherlands, Cohort Study (Int. J. Cancer: 00, 00–00 (2014) VC 2014 UICC).

L’INAIL ha aggiornato la lista II delle malattie professionali[55] e vi ha incluso il tumore del colon[56]. La giurisprudenza di merito (Tribunale di Velletri, Sezione Lavoro, con sentenza n. 603/2015 e n. 1501/2015; Tribunale di Grosseto, Sezione Lavoro, sentenza n. 123/2020), ha riconosciuto tra le noxae patogene del tumore al colon anche l’amianto e per questo ha condannato l’INAIL alla costituzione della rendita in favore di due lavoratori già dichiarati esposti ad amianto con precedenti pronunce giudiziarie con le quali l’INPS era stato condannato a rivalutare la loro posizione contributiva ex art. 13, comma 8, Legge 257/92.

Anche la giurisprudenza di legittimità ha recepito queste leggi scientifiche e ha quindi rigettato diversi ricorsi INAIL, con i quali erano state impugnate le sentenze delle Corti territoriali che avevano riconosciuto il diritto alle prestazioni previdenziali per effetto dell’insorgenza di tale patologia (Cass. civ., Sez. lavoro, Ord. n. 7313, del 14/03/2019; Cass. civ., Sez. lavoro, Ord. n. 3975 del 19/02/2018; Cass. civ., Sez. lavoro, Sent. n. 10430, del 27/04/2017; Corte dei Conti Lazio, Sez. giurisdiz., Sent. n. 270 del 19/05/2015).

VI.2.d. Sul tumore alla laringe e alla faringe.

Sulla base delle risultanze dell’ultima monografia IARC in materia di amianto[57], il tumore alla laringe deve essere considerato a pieno titolo riconducibile all’esposizione ad amianto.

L’INAIL ha quindi integrato, nel 2014, la Lista I, quella relativa alle patologie di origine professionale certa, e vi ha inserito il tumore alla laringe, al pari del tumore all’ovaio, di cui è stata riconosciuta l’eziologia professionale (Corte d’Appello Genova, Sez. lavoro, Sent., 23/10/2020; Corte d’Appello Brescia, Sez. lavoro, Sent., 19/08/2020; Tribunale Brescia, Sez. lavoro, Sent., 07/10/2019; Tribunale Ivrea, Sent., 09/01/2019; Corte dei Conti Umbria, Sez. giurisdiz., Sent. n. 84 del 08/11/2018; Cass. civ., Sez. lavoro, Ord. n. 28454 del 07/11/2018; Cass. civ., Sez. lavoro, Ord., n. 4347 del 22/02/2018; Cass. civ., Sez. lavoro, Sent. n. 5704 del 07/03/2017; Corte dei Conti Lazio, Sez. giurisdiz., Sent. n. 270 del 19/05/2015; Cass. civ., Sez. VI – Lavoro, Ord. n. 926 del 21/01/2015; Cass., 26 marzo 2015, n. 6105; Cass., 11 novembre 2014, n. 23990; Cass. 19 giugno 2014, n. 13954; Corte dei Conti Emilia-Romagna, Sez. giurisdiz., Sent. n. 91 del 03/07/2013).

Queste conclusioni sono scientificamente condivisibili, sulla base della letteratura scientifica che ricollega all’esposizione ad amianto anche tutte le altre neoplasie del tratto gastro-intestinale.

Nel rapporto Eurogip[58] (2006) si evidenzia come il tumore alla laringe sia stato riconosciuto come asbesto correlato in 237 casi in Germania per il periodo dal 1997 al 2012, 15 casi in Danimarca per il periodo dal 1991 al 2003, altri 11 casi in Francia dal 1994 al 2002, e in Italia soltanto tre casi nel 2002, e pochi altri negli anni successivi.

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 5704 del 07.03.2017, ha cassato la sentenza della Corte di Appello di Venezia che aveva negato l’origine professionale del tumore alla laringe di un lavoratore esposto ad amianto assumendo che egli avesse l’abitudine voluttuaria al fumo di tabacco. Nel corpo motivazionale della sentenza viene richiamata la consolidata giurisprudenza di legittimità che, in materia di nesso causale tra attività lavorativa e malattia professionale, haapplicato la regola di cui all’art. 41 c.p., “per cui il rapporto causale tra evento e danno è governato dal principio dell’equivalenza delle condizioni, per il quale va riconosciuta l’efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito, anche in maniera indiretta e remota, alla produzione dell’evento” salvo l’intervento di un fattore extralavorativochepossa ritenersi causa esclusiva dell’infermità.

Una relazione positiva è stata riscontrata tra l’esposizione ad asbesto ed il tumore della faringe sulla base dei risultati di una serie di studi di coorte condotti su popolazioni esposte professionalmente all’amianto (Selikoff & Seidman, 1991; Sluis-Cremer et al., 1992; Reid et al., 2004; Pira et al., 2005).

Nello stesso rapporto Eurogip, si fa riferimento soltanto a due casi di tumore alla faringe, riconosciuti in Francia, dal 1994 al 2002.

VI.3. Sulla rilevanza degli accertamenti INAIL.

Il riconoscimento dell’origine professionale e la liquidazione della rendita, diretta e/o di reversibilità, ovvero l’indennizzo del danno biologico, sul presupposto dell’accertamento tecnico della sussistenza del rischio e della valutazione medico-legale, costituiscono elementi indiziari sui quali si può fondare il giudizio di condanna del datore di lavoro al risarcimento dei danni.

In più, in caso di patologie asbesto-correlate, viene erogata anche la prestazione aggiuntiva del Fondo Vittime Amianto (art. 1, commi 241/246, Legge 244/07), e deve essere rilasciata la certificazione di esposizione ad amianto ex art. 13, comma 7, Legge 257/92, con l’indicazione dei relativi periodi, luoghi e mansioni lavorative, a fronte di accertamenti tecnici del CON.T.A.R.P. – Consulenza Tecnica Accertamento Rischi e Prevenzione.

L’organo tecnico dell’INAIL ha infatti elaborato una banca dati (Amyant INAIL), nella quale risultano registrati i livelli di esposizione per ogni singola attività di tutte le mansioni nei distinti comparti lavorativi. Applicando questi dati, con i tempi di svolgimento delle diverse attività, con l’algoritmo dell’ente tedesco Berufsgenossenschaften, si giunge a determinare il livello di esposizione a polveri e fibre di amianto, che permette il rilascio della certificazione di esposizione.

La legge scientifica che l’INAIL ha maturato dall’ente tedesco, presuppone l’utilizzo della formula: E= Σ(cᵢ * hᵢ)/hanno (dove: E= esposizione media nel periodo preso in esame; cᵢ= esposizione derivante dalle singole attività; hᵢ= durata in ore delle singole attività; hanno= numero di ore lavorabili nel periodo preso in esame), che permette di poter calcolare i livelli espositivi su base presuntiva. Infatti, si applica ad una base temporale in rapporto alle mansioni e i livelli espositivi in casi analoghi. Quindi, assumendo l’ipotesi:30 giorni (lavorativi) di ferie (pari a 42 giorni calendariali) e 5 giorni lavorativi la settimana, da cui risultano 365 – 42 – 2×52 = 219 giorni lavorativi annui; – assumendo quanto indicato in [S], ovvero 200 ore massime di servizio durante 30 giorni consecutivi, risultano (219/30)*200=1460 ore di servizio annue; – periodo di tempo da considerare.

La Corte di Cassazione Civile, sezione lavoro, con la sentenza del 31.03.2011, n. 7495 (conforme tutta la giurisprudenza successiva, tra cui Cassazione Civile, Sez. 6- L, 26 febbraio 2015, n. 3957), e con le successive uniformi decisioni, ha stabilito che l’unica legge scientifica per formulare il giudizio tecnico è quella elaborata dall’INAIL, attraverso l’individuazione dei “livelli di concentrazione di fibre di amianto per tipo di attività, utilizzando a tale fine quelli reperibili presso la banca dati Amyant presso INAIL”.

Ne discende: «… le certificazioni INAIL (…) possono assumere rilievo ai fini di concorrere ad integrare la prova circa l’esposizione, questa Corte, con giurisprudenza consolidata, ha affermato (cfr., fra le altre, Cass. n. 23990 del 2014, n. 23207 del 2014, Cass. n. 14770 del 2008; Cass. n. 13361 del 2011) …» (Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, sentenza n. 5174 del 2015[59]).

Così anche: Cassazione, sezione lavoro, 15165/2019; Cassazione, sezione lavoro, 15651/2019 e Cassazione, sezione lavoro 16869/2020.

VI.4. I criteri per la conferma del nesso causale in sede civilistico-risarcitoria.

A prescindere dalla configurabilità o meno della responsabilità penale, ovvero anche nel caso in cui l’imputato fosse stato assolto, in sede civile, nel rispetto dell’autonomia dei due profili della giurisdizione, e a maggior ragione della diversità della regola probatoria e di giudizio, che dall ‘oltre ogni ragionevole dubbio’, passa al ‘più probabile che non’, dimostrato l’evento e perciò stesso, con tale regola di minor rigore, il nesso causale, si confermano i presupposti per la responsabilità civile per inadempimento contrattuale (artt. 1218, 1223 e 1453 c.c., in combinato disposto con l’art. 2087 c.c.), sia extracontrattuale (art. 2050 c.c. e/o art. 2051 c.c.).

In sede civilistica, per confermare il nesso causale è sufficiente l’aumento del rischio (cfr. Cass., Sez. Lav., 12.05.2004, n. 9057; Cass., Sez. Lav., 11.07.2011, n. 15156 e Cass., Sez. Lav., 26.10.2012, n. 18472) e non dell’evento (Cfr. Cass., Sez. Lav., 09.05.1998, n. 4721; Cass., Sez. Lav., 23.05.2003, n. 8204; Cass., Sez. Lav., 19.08.2003, n. 12138), e in ogni caso la probabilità qualificata[60] (cfr. Cass., Sez. Lav., 26.06.2009, n. 15078; Cass., Sez. Lav., 12.08.2009, n. 18246 e Cass., Sez. Lav., 29.03.2012, n. 5086); ovvero del 50% +1 (cioè la regola del “più probabile che non[61] – cfr. Cass., Sez. Lav., 08.10.2012, n. 17092 e Cass., Sez. Lav., 08.10.2012, n. 17172), sul presupposto dell’equivalenza causale (Cassazione civile, sez. III, 15 gennaio 2003, n. 484; Cassazione Civile, Sez. Lav., 16 febbraio 2012, n. 2251[62]; e ancora Cass., Sez. Lav., 26.06.2009, n. 15078; Cassazione, Sezione Lavoro, n. 5174/2015[63]).

Quindi, anche sulla base dei soli dati epidemiologici, si può giungere alla “conclusione probabilistica” (Cass., Sez. Lav., 12.05.2004, n. 9057, in Riv. giur. lav., 2005, 199; conf. Cass., Sez. Lav., 29.09.2000, n. 12909, in Giust. civ. Mass., 2000, 2019), sulla base del fatto che tutte le esposizioni ad amianto, anche a presunta ritenuta bassa dose, hanno un ruolo eziologico, e sulla base degli oneri pregnanti a carico del datore di lavoro, ovvero dei titolari delle posizioni di garanzia (Cass., Sez. Lav., n. 644/2005[64]).

La rilevanza delle esposizioni, ai fini della formulazione del giudizio sul nesso causale, oltre che evidentemente ai fini della sussistenza dell’inadempimento dell’obbligo di sicurezza, prima di tutto di natura contrattuale, e poi anche ai fini di una responsabilità civile extracontrattuale, non presuppone il superamento dei limiti di soglia (cfr. Cass., Sez. Lav., 23.05.2003, n. 8204 e Cass., Sez. Lav., 14.01.2005, n. 644) perché ciò che rileva è l’obbligo a carico del datore di lavoro di evitare ogni esposizione e quindi di dimostrare di aver adempiuto i suoi obblighi, ovvero che l’evento è riconducibile ad un decorso alternativo (Cass., Sez. Lav., 18.05.2011, n. 10935; in sede penale, Corte di Cassazione, IV Sez., sentenza n. 988/2003; ancora Cassazione, IV Sezione Penale, sentenza n. 33311/2012), e comunque evitabile per effetto dell’adempimento delle regole cautelari, anche di comune prudenza (Cass., Sez. Lav., 14.01.2005, n. 644).

Nel passaggio dalla causalità generale a quella individuale, il nesso risulta confermato in sede civilistica (e anche in sede penalistica) tutte quelle volte in cui risulta altamente probabile che l’esposizione professionale abbia quantomeno aumentato il rischio di insorgenza e/o anticipato i tempi di latenza e/o aggravato il decorso della patologia (Cass., IV Sez. pen., 09.05.2003, n. 37432, in Dir. prat. lav., 2003, 2758 e in Foro it., 2004, I, 69).

Sulla base dell’art. 41 c.p., che esprime il “principio dell’equivalenza causale”, è sufficiente anche la concausa (Cass., IV Sez. Pen., 01.03.2005, n. 7630, in Dir. prat. lav., 2005, 1513; conf. Cass., Sez. Lav., 09.09.2005, n. 17959, in Riv. giur. lav., 2006, 359), perché più cancerogeni «costituiscono sinergie» (Cass., IV Sez. Pen., 02.07.1999, in Foro it., 2000, II, 260; Cass., IV Sez. Pen., 11.07.2002, ivi, 2003, II, 324; Cass., IV Sez. Pen., 14.01.2003, n. 988, in Dir. prat. lav., 2003, 1057) in grado di potenziare anche gli effetti dell’esposizione lavorativa al minerale.

Infatti, come affermato dalla Cassazione, l’art. 41 c.p. contiene una regola «per cui il rapporto causale tra evento e danno è governato dal principio dell’equivalenza delle condizioni, principio secondo il quale va riconosciuta l’efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito, anche in maniera indiretta e remota, alla produzione dell’evento, salvo il temperamento previsto nello stesso, in forza del quale il nesso eziologico è interrotto dalla sopravvenienza di un fattore sufficiente da solo a produrre l’evento, tale da far degradare le cause antecedenti a semplici occasioni (v. Cass. 9-9-2005 n. 17959, Cass. 3-5-2003 n. 6722)»[65] (Tra le tante, ancora, Cassazione Civile, 24.01.2014, n. 1477; Cassazione, Sezione Lavoro, sentenza n. 17172/12; Cassazione, Sezione Lavoro, sentenza n. 17334/12).

Tutte le esposizioni, quindi, sono rilevanti, e a maggior ragione lo è quella per cui è causa perché ha quantomeno abbreviato i tempi di latenza e quindi di sopravvivenza della vittima; detta esposizione, inoltre, integra l’evento e il nesso causale, tanto più in sede civile, ove non trova applicazione la regola propria del giudizio penale della assoluta certezza (Corte di Cassazione, Sezione lavoro, con la sentenza 1477/2014, che richiama Corte di Cassazione, Sezione lavoro, n. 2251 del 2012[66] ed ex multis) e perché ogni ulteriore esposizione che aumenti il rischio e abbrevi i tempi di latenza rileva ai fini dell’affermazione del nesso causale (Cass., IV Sez. pen., sentenza n. 988/03 ed ex multis).

VI.5. Quanto al giudizio controfattuale.

Sul piano logico, ove si tenga conto della sola causalità omissiva, rileva quanto oggetto di verifica controfattuale: occorre sostituire alla condotta effettivamente posta in essere quella doverosa, imposta dalle regole cautelari; nel caso in cui l’adozione di queste regole avesse scongiurato l’insorgenza della patologia ovvero l’evento, evidentemente il nesso causale trova conferma, diversamente lo si esclude laddove l’evento si sarebbe comunque verificato.

In relazione alla sussistenza della legge scientifica universale della dose cumulativa, risulta confermato che il rispetto delle regole cautelari sarebbe stato efficace per evitare l’evento, che deve essere considerato tale anche per effetto della semplice abbreviazione dei tempi di latenza.

Quindi, se alla condotta dei titolari delle posizioni di garanzia viene sostituita quella doverosa lecita, l’esposizione ad amianto sarebbe stata evitata o fortemente ridotta e la singola patologia non si sarebbe manifestata, ovvero lo sarebbe stata in tempi significativamente successivi, e ciò avrebbe evitato l’evento.

Quindi, il nesso causale è confermato.

VII. La natura giuridica della responsabilità.

Sul titolare della posizione di garanzia, datore di lavoro, amministratore o semplicemente titolare dell’attività imprenditoriale, che ha utilizzato amianto o materiali che lo contenevano, grava l’obbligo di risarcimento di tutti i danni subiti per effetto dell’esposizione lavorativa, sia quelli della vittima primaria sia quelli dei familiari, prima di tutto a titolo di responsabilità contrattuale (artt. 1218, 1223 e 1453 c.c., e/o 2087 c.c.) e, poi, in via alternativa, anche extracontrattuale, sia a titolo di responsabilità per lo svolgimento di attività pericolose (art. 2050 c.c.), sia per inadempimento degli obblighi di custodia (art. 2051 c.c.), sia per violazione dell’obbligo di evitare danni ingiusti (artt. 2043 e 2059 c.c.) sia per responsabilità civile da reato (ex artt. 589 c.p. e/o 590 c.p. etc., in combinato disposto con le norme di cui agli artt. 185 c.p. e 2043 e 2059 c.c.), diretta e vicaria (1228 e 2049 c.c.).

VII.1. La responsabilità contrattuale.

La responsabilità del datore di lavoro è, prima di tutto, «di natura contrattuale, per cui “ai fini del relativo accertamento, incombe sul lavoratore che lamenti di aver subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare l’esistenza di tale danno, come pure la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’uno e l’altro elemento, mentre grava sul datore di lavoro – una volta che il lavoratore abbia provato le predette circostanze – l’onere di provare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, ovvero di aver adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi del danno medesimo” (v. Cass. 17-2-2009 n. 3788, Cass. 17-2-2009 n. 3786, Cass. 7-3-2006 n. 4840, Cass. 24-7-2006 n. 16881, Cass. 6-7-2002 n. 9856, Cass. 18-2-2000 n. 1886).In sostanza “la responsabilità dell’imprenditore per la mancata adozione delle misure idonee a tutelare l’integrità fisica del lavoratore discende o da norme specifiche o, quando queste non siano rinvenibili, dalla norma di ordine generale di cui all’art. 2087 c.c., la quale impone all’imprenditore l’obbligo di adottare nell’esercizio dell’impresa tutte quelle misure che, secondo la particolarità del lavoro in concreto svolto dai dipendenti, si rendano necessarie a tutelare l’integrità fisica dei lavoratori” (v.fra le altre Cass. 19-4-2003 n. 6377, Cass. 1-10-2003 n. 16645)”.

VII.1. Sull’onere della prova.

Il datore di lavoro «ha l’onere di dimostrare di aver adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno», che costituiscono il suo obbligo contrattuale, in relazione alle norme di cui agli artt. 1218 e 1223 c.c. (Conforme: Cass. Sez. Lav., 13.05.08 n. 11928 e Cass. Sez. Lav., 25.06.08 n. 17309; Cass., Sez. Lav., sentenze n. 3786 e n. 3788 del 17 febbraio 2009; Cass. Sez. Lav. 02.07.09, n. 18107; Cassazione, Sez. Lav., n. 1477/2014, in linea con SS.UU. n. 13533 del 2001).

Gli obblighi cautelari specifici sono quelli di prevenzione tecnica (artt. 4 e ss. del D.P.R. 303 del 1956), protezione individuale (artt. 377 e 387 e ss. del D.P.R. 547 del 1955), e  le ulteriori cautele di cui al D.L.vo 277 del 1991 e del D.L.vo 626 del 1994, poi trasfuse nel D.L.vo 81/2008, e quelli ulteriori di cui all’art. 2087 c.c., in relazione alla «particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica», «necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale» del prestatore d’opera (Corte di Cassazione, Sez. Lav., sentenza 1477/2014; Corte di Cassazione, Sez. Lav., sentenza 15156/2011; Corte di Cassazione, Sez. Lav. 14.04.08, Sentenza n. 9817; ed ex multis), il tutto rapportato alla pericolosità dei materiali utilizzati, e alla possibilità di utilizzare quelli sostitutivi privi di dannosità per la salute umana[67].

C’è quindi un onere della prova di aver adempiuto tutti gli obblighi di sicurezza e tutela dell’integrità psicofisica del prestatore d’opera, e si può ottenere il rigetto della domanda risarcitoria solo se si dimostra che l’evento si sarebbe comunque verificato, ovvero che è dovuto ad altri fatti e circostanze non imputabili, ovvero a forza maggiore o caso fortuito.

VII.2. La responsabilità extracontrattuale.

L’esercizio di attività pericolosa (2050 c.c.), e la violazione degli obblighi di custodia (2051 c.c.) e del neminem laedere (artt. 2043 e 2059 c.c.), nonché la lesione di beni che sono protetti da norme penali (artt. 589, 590 etc. c.p., in combinato disposto con gli artt. 185 c.p. e 2043 e 2059 c.c.), impongono l’obbligo di risarcimento di tutti i danni.

VII.2.1. La responsabilità per lo svolgimento di attività pericolosa.

L’utilizzo di materiali di amianto e/o contenenti amianto, in luogo di quelli sostitutivi, e la successiva mancata bonifica, impone il risarcimento dei danni in caso di insorgenza di malattia professionale asbesto-correlata, sulla base dell’art. 2050 c.c., poiché l’evento è stato causato dall’esercizio di attività pericolose (Corte di Cassazione, IV Sez. Pen., sentenza n. 20047/2010).

Infatti, l’amianto, proprio sulla base della sua pericolosità, aveva portato all’introduzione di una serie di regole cautelari[68], per evitare che ci fossero esposizioni professionali (Corte di Cassazione, IV Sez. Pen., con sentenza n. 49215/2012, già più volte citata), che avrebbero impedito l’insorgenza delle patologie asbesto correlate (cfr. Cass. pen., sez. IV, 11 febbraio 2003, n. 20032; Cass. pen., sez. IV, 11 luglio 2002, n. 988).

VII.2.2. La responsabilità ex art. 2051 c.c.

Il datore di lavoro ha inoltre precisi obblighi di custodia (2051 c.c.), tenendo conto del divieto di esposizione, in vigore già prima della messa al bando del minerale per effetto della L. 257/92, per cui nel caso di esposizione e di danni, conseguenza della malattia/infortunio[69], egli è chiamato a risarcirli anche per tale ulteriore titolo di responsabilità (cfr. Cass. Civ., Sez. III, 24530/09; Cass. Civ., Sez. Unite, 12019/91).

Infatti il custode, inteso come effettivo detentore del potere fisico sulla cosa, ha l’obbligo di governala e usarla evitandone ogni pregiudizio, anche se legato a particolari contingenze (cfr. Cass. Civ., Sez. III, 1859/2000), e nel caso di specie alla inalazione di polveri e fibre di amianto, conseguenza della violazione delle regole cautelari, imposte anche in relazione all’alta lesività del materiale e all’obbligo di evitare ogni forma di esposizione (Cassazione, IV Sezione Penale, sentenza 49215/2012).

VII.2.3. Responsabilità ex artt. 2043 e 2059 c.c.

Le norme di cui all’art. 2043 c.c., in uno a quelle di cui all’art. 2059 c.c., in combinato disposto con le norme costituzionali (artt. 2, 4, 29, 30, 31, 35 e 36 della Costituzione) e con quelle comunitarie, anche parificate, in ragione della sussistenza dell’illecito aquiliano per violazione del precetto del neminem laedere, obbligano all’integrale risarcimento di tutti i danni, sia patrimoniali sia non patrimoniali.

VIII. La misura soggettiva della colpa per i profili di responsabilità extracontrattuale.

Per i profili di responsabilità extracontrattuale, aquiliana e/o civile da reato, è necessaria la sussistenza della colpa, che si sostanzia nella violazione delle già citate regole cautelari, oltre che nella prevedibilità ed evitabilità dell’evento.

È necessario quindi dimostrare, prima di tutto, che alla comunità scientifica, e quindi anche al mondo imprenditoriale, erano noti i rischi legati all’esposizione ad amianto.

Proprio su queste acquisizioni scientifiche si sono basate e si basano una serie di regole cautelari dettate dagli igienisti industriali e poi recepite dal legislatore, fino alla indennizzabilità dell’asbestosi già con la L. 455/1943 e poi con la riproposizione di tutte quelle regole cautelari recepite negli artt. 4, 19, 20 e 21 del d.p.r. 303/56 e negli artt. 377 e 387 del d.p.r. 547/55, senza poter prescindere dalla norma di chiusura (art. 2087 c.c.) e dal successivo compendio normativo, di cui al DLg.vo 277/91, fino alla L. 257/1992 e al DLgs.vo 626/1994, norme poi tutte confluite nel DLg.vo 81/2008.

L’evento, il singolo evento, come il fenomeno epidemico tutt’ora in corso (una vera e propria strage silenziosa), era largamente prevedibile proprio alla luce della letteratura scientifica e del compendio delle regole cautelari che quegli eventi miravano ad impedire.

La prevedibilità consiste nella «possibilità di riconoscere il pericolo che a una data condotta possa conseguire la realizzazione di un reato»[70] e sussiste «qualora le conoscenze dell’epoca dell’azione permettano di porre in relazione causale le condotte e i risultati temuti»[71]. Tra le suddette conoscenze devono ritenersi annoverati, in una logica di valutazione ex ante, «il conoscibile e il concretamente conosciuto»[72] dal soggetto nel momento in cui agisce.

Secondo una diversa – ma equivalente – formulazione di altra giurisprudenza[73], il rimprovero a titolo di colpa deve essere mosso esclusivamente qualora l’evento sia prevedibile ex ante, grazie ad una valutazione fondata sulle conoscenze nomologiche[74] che sono imposte al soggetto agente anche in relazione a una particolare situazione di fatto.

Per valutare la prevedibilità dell’evento è sufficiente che il soggetto agente possa rappresentarsi la potenzialità dannosa del proprio agire rispetto al bene protetto (in questo caso la salute). Le regole cautelari, infatti, hanno una funzione precauzionale rispetto a classi di eventi, ossia debbono essere adottate anche qualora non si conoscano in modo specifico tutti gli effetti dannosi di una determinata attività, ovvero tali effetti non siano tutti conosciuti scientificamente. È sufficiente la potenziale idoneità della condotta a dar vita ad una situazione di danno, e anche agli effetti penali non è necessaria una specifica rappresentazione ex ante dell’evento dannoso quale si è concretamente verificato, valutando la prevedibilità in astratto e non in concreto, in coerenza con la funzione preventiva delle norme cautelari. Nel caso in cui sussista il minimo dubbio di verificazione dell’evento, tutti i titolari delle posizioni di garanzia debbono comunque attivarsi positivamente per evitarlo[75].

La colpa si sostanzia anche nella prevedibilità ed evitabilità dell’evento, che integrano la responsabilità civile da reato, in relazione alle norme di cui agli artt. 589 e 590 c.p. (Corte di Cassazione, IV Sezione Penale, sentenza n. 49215/12 e in precedenza Cass., Sez. IV, 1/4/2010, n, 20047 ed ex multis[76]).

L’obbligo risarcitorio sussiste anche nel caso in cui l’esposizione si ritenga fosse stata poco intensa (Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, sentenza n. 644/2005), ovvero al di sotto dei limiti di cui agli artt. 24 e 31 del D.L.vo 277/91 (Corte di Cassazione, IV Sezione Penale, sentenza n. 38991/2010), poiché le soglie non esonerano il datore di lavoro dagli obblighi di sicurezza nel caso di loro mancato superamento, piuttosto gli impongono ulteriori obblighi cautelari per ridurre le fonti di esposizione (Cass., Sez. IV, 20 marzo 2000, n. 3567[77]). Ne consegue che in capo al datore di lavoro sussiste l’obbligo di adottare la migliore tecnologia possibile in tutti i casi nei quali i livelli di esposizione possano essere ulteriormente abbattuti, ovvero totalmente evitati, anche nel caso in cui non si fossero superate le soglie di cui agli artt. 24 e 31 del D.L.vo 277/91 (Cassazione, IV Sezione Penale, sentenza 5117/2008).

L’evento, quale concretizzazione del rischio che le misure cautelari miravano ad evitare, poiché prevedibile ed evitabile, integra a tutti gli effetti la fattispecie di cui agli artt. 2043 e 2059 c.c. e 2087 c.c., e dunque l’obbligo di risarcimento dei danni.

IX. I danni risarcibili.

Ci si limiterà in questa sede, ad approfondire solo alcune delle voci di danno risarcibili.

IX.1 L’indennizzo INAIL.

L’INAIL indennizza il danno patrimoniale, per diminuite capacità di lavoro, e quello biologico, solo nel caso in cui il grado invalidante raggiunga il 16%, con una rendita mensile.

Nel caso in cui il grado invalidante non raggiunga questa soglia (dal 6% al 15%), l’INAIL indennizza il solo danno biologico, con quantificazione che non tiene conto dell’integralità della lesione, con specifico riferimento ai profili dinamico-relazionali, e nessuna prestazione viene erogata laddove il grado di invalidità non raggiunga la soglia minima del 6%.

In caso di decesso, provocato dalla malattia professionale, il coniuge ha diritto alla rendita di reversibilità nella misura del 50%.

In questa medesima prospettiva va ribadito, anche il significato del riferimento – contenuto nell’art. 13, co. II, lett. a), d.lgs. n. 38/2000 – agli aspetti dinamico-relazionali del danno biologico indennizzabile, che sussiste un danno differenziale quantitativo, e qualitativo, e quindi il diritto all’integrale ristoro del pregiudizio non patrimoniale[78], che non può essere confinato nella sola prospettiva indennitaria[79], di per sé estranea alle direttive costituzionali del ristoro integrale e personalizzato del pregiudizio alla persona nella sua complessiva proiezione esistenziale. Sono perciò fondate le domande di risarcimento del maggior danno, anche biologico, subito dalla vittima primaria, oltre che dai familiari; deve pertanto essere calcolato l’ulteriore importo dovuto a titolo di integrale risarcimento dei danni e quindi del differenziale (quantitativo e qualitativo), nel rispetto dell’omogeneità (e comparabilità) dei titoli risarcitori[80].

IX.2 Il risarcimento del danno differenziale.

Il lavoratore malato, ovvero gli eredi di quello deceduto, hanno diritto al totale risarcimento di tutti i danni, prima di tutto di quelli patrimoniali e poi di quelli non patrimoniali, sofferti anche in proprio dagli stretti congiunti e da tutti coloro che avessero un significativo rapporto personale con la vittima (SS.UU., n. 26972 e 26973 del 2008).

I pregiudizi non patrimoniali non consistono nella sola lesione biologica e psicobiologica (art. 32 Cost.), ma travolgono la persona intera, con sofferenze interiori e lesioni alla personalità e alla dignità morale (artt. 2 e 3 della Costituzione), che integrano il c.d. danno morale e alla vita familiare e sociale, che riguarda anche i famigliari (artt. 29, 30 e 31 della Costituzione, che a loro volta sono concatenati con quelli di cui agli artt. 35, 36 e 41 II co. della Costituzione e non possono prescindere da quelli della Cedu e della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, i quali ultimi rilevano ai fini della personalizzazione della loro quantificazione – così Corte di Cassazione, III Sez. Civ., sentenza n. 2352 del 2010, che qui si intende riscritta), in quanto in più occasioni loro stessi sono stati esposti e hanno un concreto rischio di ammalarsi che per molti si è concretizzato.

Il lavoratore malato ha diritto al risarcimento del danno differenziale, secondo il criterio delle poste omogenee (così Cassazione, sezione lavoro, sentenza n. 25618/2018[81]), con un metodo che quindi scomputa l’indennizzo dal danno biologico e dal danno patrimoniale per diminuite capacità di lavoro, con integrale ristoro di tutte le altre voci di danno. In caso di decesso con liquidazione in favore degli eredi, legittimi e/o testamentari, sul presupposto del diritto all’integrale ristoro.

Sia il lavoratore che ha contratto la patologia, sia i suoi famigliari hanno diritto al risarcimento del «danno biologico (cioè la lesione della salute), [di] quello morale (cioè la sofferenza interiore) e quello dinamico-relazionale (altrimenti definibile esistenziale, e consistente nel peggioramento delle condizioni di vita quotidiane, risarcibile nel caso in cui l’illecito abbia violato diritti fondamentali della persona) costituiscono pregiudizi non patrimoniali ontologicamente diversi e tutti risarcibili» (Corte di Cassazione, III Sez. Civile, con la sentenza 19.02.2013, n. 4033).

La prova dell’entità del danno può essere anche presuntiva e si può raggiungere anche attraverso l’utilizzo del potere di indagine del consulente tecnico di ufficio (Cass. 16471/09; 21728/06 e 1901/2010 ed ex multis), per cui rilevano:

  • lo sconvolgimento che i fatti lesivi provocano nella vittima primaria e nei familiari;
  • la tipologia ed entità degli stati, temporanei e permanenti, di invalidità riportati dal danneggiato, parametri dai quali già di per sé si può dedurre il livello “minimo presuntivo” di incidenza delle lesioni sul piano della “sfera morale” del danneggiato; dell’età e del sesso della vittima;
  • l’attività lavorativa o gli hobby svolti dal danneggiato;
  • l’essere la vittima stata oggetto di un’ingiusta lesione della propria persona e della propria dignità umana;
  • i disagi ed i fastidi patiti in relazione allo svolgimento delle attività quotidiane;
  • la necessità di affrontare operazioni chirurgiche riparatrici, esami invasivi o terapie riabilitative; le perdite di tempo e le frustrazioni incorse in visite mediche, sedute riabilitative, accertamenti medico-legali, sessioni con i propri avvocati; dell’essersi trovato costretto ad affrontare dapprima un iter stragiudiziale e poi giudiziale, con tutti i relativi stress.

 

IX.3 La non applicabilità della regola dell’esonero.

I datori di lavoro continuano a difendersi invocando la regola dell’esonero di cui all’art. 10 del dpr 1124/65, oltre ad assumere la congruità della regola INAIL, per evitare la condanna al risarcimento dei danni differenziali e complementari[82].

Infatti, tra i pregiudizi non coperti dall’indennizzo INAIL, che in ogni caso non riguarda tutti gli eredi e/o i famigliari della vittima, debbono essere considerati quelli legati allo «sconvolgimento conseguente alla percezione della propria integrità violata»[83], agli stress, fastidi, disagi, dispiaceri, infelicità, amarezze, imbarazzi, sentimenti di «rabbia»[84], frustrazioni ed altre emozioni negative, per il riposo forzato, il turbamento derivante dalla non accettazione del proprio stato e al «sentimento di lesa dignità»[85] per il fatto di dipendere, temporaneamente o in via permanente, in tutto o in parte, dagli altri, anche per le funzioni più elementari della vita, dall’igiene personale sino all’espletamento delle più basilari funzioni corporali e al fatto di dover affrontare un iter legale per la tutela dei propri diritti, ecc.; all’amarezza che scaturisce dalla consapevolezza di non riuscire a stare accanto ai propri cari, familiari ed amici come prima della diagnosi della patologia, cui consegue, quasi sempre, la impossibilità di poter svolgere perfino le più elementari funzioni della vita, ecc.), spaventi, angosce, timori e «prove negative della vita» causati dall’evento dannoso (per esempio, la preoccupazione per il fatto di aver corso o di dover affrontare un determinato potenziale o concreto pericolo per la propria salute o vita[86]; tra i quali la paura per un ricovero, per un’anestesia, per un’operazione o per il dolore fisico), preoccupazioni e timori per il futuro (ad esempio, per le sorti della propria famiglia, per la propria posizione sociale, per il rischio di perdere il lavoro o di non riuscire a concorrere come in precedenza sul mercato del lavoro – il che, di questi tempi, è un serio problema); ovvero di quei perturbamenti dell’animo, ossia di ogni pregiudizio “immateriale” – circoscritto nel tempo (transeunte) o destinato a permanere – derivante dalla alterazione in peius dell’integrità morale (ricordando qui una felice espressione utilizzata dalla Cassazione, della modifica negativa della «sfera dell’intimo sentire»[87]) e non suscettibile di «accertamento scientifico», che per nessun motivo e ragione possono essere ricompresi nei pregiudizi di cui alla rendita INAIL e che sono risarcibili autonomamente.

Allo stesso modo, i pregiudizi sofferti dai famigliari.

 

X. Il danno da esposizione.

Anche il danno da esposizione deve essere risarcito, sia al lavoratore che agli eventuali congiunti, che subito esposizione indiretta per la contaminazione dei loro cari impegnati nell’attività di lavoro in siti dove il minerale era stato utilizzato (Cassazione, sezione lavoro, 24217/2017)[88].

Con la recente Cassazione, IV sezione penale, 45935/2019, si è affermato il principio della sussistenza di un danno da infiammazione[89], oltre alle conseguenze morali ed esistenziali.

La condizione di preoccupazione, e di sofferenza, ovvero dei veri e propri disturbi fobici e post traumatici da stress, si fondano sulla evidente considerazione che in tutti i casi di mesotelioma si riscontrano ispessimenti e placche pleuriche e per il fatto che, in ogni caso, si inducono danni al DNA cellulare[90] ed al funzionamento della replicazione cellulare[91].

Il processo infiammatorio, del resto, creando delle micro lesioni nei capillari del parenchima, costituisce, già di per se, un danno organico, se non altro perché favorisce l’insorgenza di infezioni, e in ogni caso affatica il cuore e induce danni al sistema cardiocircolatorio e cardiovascolare (c.d. cuore polmonare).

Il Tribunale di Pisa, Sezione lavoro, con sentenza n. 153/2016, pubblicata in data 27.01.2017, ha confermato che per i lavoratori esposti che hanno contratto placche pleuriche ed ispessimenti pleurici e che hanno comunque paura di contrarre il mesotelioma, ovvero altra patologia tumorale, l’entità del risarcimento deve essere quantificata con un “aumento (anche in relazione all’art. 185 c.p.), considerando la particolare penosità connessa al continuo confronto che il ricorrente deve sostenere con l’eventualità di un decorso infausto del proprio stato di salute, anche perché il ricorrente è costretto a regolare i controlli medici con l’inevitabile rinnovazione, ogni volta, dell’apprensione circa il responso dei sanitari”.

Il lavoratore, anche semplicemente esposto ad amianto, se lo è a determinate concentrazioni (più di 100 ff/ll nella media delle 8 ore lavorative per ogni anno e per oltre 10 anni), oltre ad aver diritto all’accredito delle maggiorazioni contributive ex art. 13 comma 8 L. 257/1992, considerato un vero e proprio risarcimento (Cass. Civ. Sezione VI Lavoro, del 09.02.2015, n. 2351)[92], ha diritto a vedersi risarcititi tutti i pregiudizi che ha subito, che debbono qualificarsi come ingiusti.

Infatti, anche qualora non siano state diagnosticate patologie asbesto correlate, vi è quel turbamento psichico[93] che, seppur in assenza del danno biologico vero e proprio, si traduce in lesione psichica, con ricadute sulla sfera esistenziale e sulla vita di relazione, con il c.d. stress da amianto[94], ovvero paura di «ammalarsi».

Sotto il profilo psicologico, il lavoratore esposto modifica la sua stessa identità e il suo ruolo nella società e nella famiglia, modifica il suo carattere e la sua sensibilità, perché diventa pienamente consapevole di poter contrarre una patologia tumorale, anche dopo decenni, e di essere rispetto a questa eventualità totalmente impotente[95].

Avv. Ezio Bonanni

CHIOSA

La lettura di questo pregevole articolo, efficacemente dettagliato nella sua disamina dei variegati aspetti connessi alle tematiche risarcitorie derivanti dall’esposizione ad amianto, mi induce ad esternare alcune riflessioni di carattere pratico.

Numerose volte ho intrapreso battaglie giudiziarie notificando ricorsi e depositando querele farcite di nozioni giuridiche, di dottrina, di pronunce giurisprudenziali, così approdando nelle aule giudiziarie certa di ottenere un pronto riscontro alle aspettative risarcitorie dei miei clienti, spesso eredi di vittime inconsapevoli.

Altrettante numerose volte ho però compreso che celerità non è un termine noto nel nostro sistema giudiziario.

Nei mari tempestosi dei Tribunali, delle Corti di Appello e della Suprema Corte, ove navigano sovente le difese accorate di troppi lavoratori deceduti, constato, ormai, con amara rassegnazione (da non equiparare a sfiducia nella giurisdizione) che nella prassi giudiziaria non sempre gli auspici risarcitori sono pienamente realizzabili e ristorabili in tempi ragionevolmente certi e secondo le legittime aspettative.

E ciò vale prevalentemente in ambito penale, ove le lungaggini procedurali, lo spettro della prescrizione e i contrastanti orientamenti giurisprudenziali in tema del nesso di causalità, rappresentano le secche su cui  inevitabilmente si arenano le speranze di ottenere “giustizia”.

La rotta percorsa dalle vittime e dai loro familiari nelle aule giudiziarie si snoda attraverso tre gradi di giudizio, nel corso dei quali si spera di ottenere la conferma della sentenza di condanna, per poi finalmente quantificare l’ammontare del quantum risarcitorio in sede civile.

Accade, quindi, sovente di navigare a bordo della medesima nave, con il medesimo carico di aspettative ed in balia del mare burrascoso della giustizia anche per molti anni.

Accade che, anche solo per superare il primo grado di giudizio, non basti neppure un decennio.

Ed accade anche che, in caso di esito processuale con pronuncia assolutoria definitiva a favore dei datori di lavoro, oltre al danno si aggiunge la beffa di dover pagare le spese processuali di questo interminabile viaggio tra le onde del tempestoso mare dell’in-giustizia.

E così, quelle rare volte in cui vengono avanzate offerte risarcitorie dai datori di lavoro, le medesime, pur non essendo mai pienamente ristorative, rappresentano un pur sempre un  approdo che mette almeno la parole fine ad una lenta agonia consumata al beccheggio di ricordi angoscianti e dolori mai sopiti.

Accettare quindi importi a titolo risarcitorio non pienamente satisfattivi, non rappresenta una resa, ma solo l’epilogo di un’amara constatazione identificabile con il fallimento dell’elefantiaco apparato giurisdizionale che non riesce in taluni casi a stare al passo con lo scorrere continuo del diritto vivente.

In questo scenario, in cui si registrano anche contrastanti pronunce giurisprudenziali, si auspica da molto tempo anche un intervento delle Sezioni Unite della Cassazione Penale sull’avversata questione attinente alla parcellizzazione delle singole responsabilità dei datori di lavoro che si avvicendano tra loro nell’assunzione delle posizioni di garanzia; infatti assumere le cariche dirigenziali anche solo per pochi anni conduce il più delle volte all’esenzione da responsabilità penale per l’esposizione cumulativa ad amianto ( ipotesi mesotelioma).

E, quindi non mi resta che convenire con quanto espresso dall’autore Avv. Ezio Bonanni “…omissis… In sede penale, la parte civile eventualmente costituita (ai sensi degli artt. 74 e ss. c.p.p.), sconta l’applicazione di regole molto più rigorose in tema di affermazione della responsabilità e quindi dell’obbligo risarcitorio, anche in caso di citazione del responsabile civile (83 e ss. c.p.p.). Lo sviluppo attuale della giurisprudenza della Corte di legittimità, che sta annullando quasi tutte le sentenze di condanna, suggerisce una diversa opzione per la tutela risarcitoria delle vittime. Quindi con la necessità della tutela civilistica e/o previdenziale…omissis…”.

Purtuttavia analoghe considerazioni, sia pur attinenti a differenti aspetti, riguardano anche i ricorsi giudiziari esperiti innanzi innanzi al Tribunale civile, ove, ma solo a titolo esemplificativo ma non esaustivo, si discute in via preliminare anche in merito al Giudice innanzi al quale incardinare il ricorso (g.o o g.d.l.) per la differente natura dei danni di cui si richiede il risarcimento, giungendo finanche in alcuni e paradossali casi, a coesistere nel medesimo Tribunale ma in uffici differenti,  due giudizi aventi medesimo oggetto.

Nel recentissimo ed interessantissimo Convegno tenutosi al Tribunale di Milano lo scorso 30 maggio 2022 alla presenza dell’Avv. Bonanni e di altre autorevoli ed illustri personalità del mondo accademico, giudiziario e scientifico, si è dibattuto a lungo sulle molteplici problematiche connesse al rischio amianto, alla prevenzione del danno, alla tutela delle vittime e, al termine di un proficuo scambio di opinioni e di personali esperienze lavorative, si è giunti unanimemente ad auspicare un intervento legislativo  finalizzato a disciplinare una materia così complessa e variegata che possa prevedere l’erogazione di un indennizzo a favore delle vittime dell’amianto e dei loro familiari, anche nell’ottica di contenimento dei costi della giustizia le cui preziose, ma esigue risorse potrebbero essere proficuamente dirottate altrove e non più impiegate in defatiganti processi che solo all’esito di svariati decenni offrono risposte satisfattive alle vittime dell’amianto.

Avv. Emanuela Sborgia


[1]         H. Stephano, Thesaurus graecae linguae, vol. I, Parigi 1831-1856 – Rocci L., Vocabolario greco-italiano, Dante Alighieri Ed., 38° edizione, Roma 1995 – Montanari F., Vocabolario della lingua greca, Loescher Ed., Torino 1995.

[2]         L’asbestosi è una grave malattia respiratoria ed è stata, in ordine di tempo, la prima malattia correlata all’inalazione di fibre d’amianto, caratterizzata da fibrosi polmonare a progressivo aggravamento che conduce ad insufficienza respiratoria con complicanze cardiocircolatorie, tant’è vero che già dal 1943 fu contemplata tra le malattie professionali indennizzabili con la L. 455/1943, e per effetto dell’art. 4 L. 780/1978, che ha sostituito l’art. 145 del DPR 1124/65, nella determinazione del grado invalidante ai fini INAIL si deve tener conto delle complicazioni cardiocircolatorie.

           Questa patologia lede la funzionalità della respirazione e anche quella cardiaca, ed è irreversibile, anche nel caso in cui si l’esposizione venga a cessare.  Tale capacità di progressione è dovuta alla persistente azione infiammatoria che le fibre di amianto presentano nel polmone e nelle reazioni immunitarie. Si induce la formazione di un tessuto fibroso nell’interstizio polmonare, zona deputata agli scambi gassosi, con conseguente riduzione della capacità di diffusione dell’ossigeno dall’aria respirata al sangue. La malattia esordisce in genere dopo 10-15 anni dalla prima esposizione, in modo subdolo, e il primo sintomo è la dispnea da sforzo, che aumenta con l’aggravarsi e l’estendersi della fibrosi parenchimale. La tosse (secca o produttiva) è altrettanto frequente ed è talora accompagnata da broncospasmo; se sono presenti placche pleuriche può insorgere dolore toracico. Successivamente compaiono segni di insufficienza respiratoria più marcati, come la cianosi e l’ippocratismo digitale.

           Si manifesta per esposizioni medio-alte ed è, quindi, tipicamente una malattia professionale; la sua incidenza è drasticamente diminuita a seguito dell’emanazione della legge che proibisce l’utilizzo dell’amianto (legge 257 del 1992), anche se l’INAIL, ancora nel 2008 e negli anni successivi, ha ricevuto una media di 800 segnalazioni ogni anno di nuovi casi di asbestosi, che ai 5 anni sono risultate per circa il 90% con esito infausto.

[3]         International Agency for Research on Cancer (IARC, agenzia dell’OMS, nella sua ultima monografia in materia di amianto –  World Health Organization IARC monographs on the evaluation of carcinogenic risks to humans – Vol. 100C “arsenic, metals, fibres, and dusts volume 100 C – A review of human carcinogens” ASBESTOS – Lyon, France – 2012): “There is sufficient evidence in humans for the carcinogenicity of all forms of asbestos (chrysotile, crocidolite, amosite, tremolite, actinolite, and anthophyllite). Asbestos causes mesothelioma and cancer of the lung, larynx, and ovary. Also positive associations have been observed between exposure to all forms of asbestos and cancer of the pharynx, stomach, and colorectum”.

[4]         Driscoll T, Nelson DI, Steenland K, Leigh J, Concha-Barrientos M, Fingerhut M et al. The global burden of non-malignant respiratory disease due to occupational airborne exposures. Am J Ind Med. 2005;48(6):432–45.

[5]         “The Helsinki declaration on menagement elimination of asbestos – related diseases”: amplius capitolo IV.

[6]         L’assenza del piano pandemico, e con esso dei dispositivi di protezione, lo smantellamento della sanità territoriale, e in materia di sicurezza sul lavoro anche la scarsità dei mezzi e delle risorse umane, ha determinato una situazione drammatica sul piano sanitario e sociale, e non solo, ma anche in un contesto economico. La pandemia ha messo in luce la fragilità del sistema di prevenzione, cui anche l’eroico impegno del personale medico e paramedico ha dovuto pagare il prezzo delle stesse popolazioni con la più alta incidenza di mortalità in Italia.

[7]         Così il Prof. Gaetano Veneto nel corso della tredicesima puntata di ONA TV: ‘Lavoratori e tutele nell’era del coronavirus’.

[8]         Molti dei nostri autorevoli scienziati sono stati valorizzati solo all’estero, come il Prof. Marcello Migliore (ONA TV: ‘Mesotelioma, amianto e malattie del lavoro’).

[9]         La Corte Costituzionale ha dichiarato la legittimità costituzionale dell’art. 13 co. 8 della L. 257/92, sul presupposto che anche questi benefici previdenziali, riconosciuti a chi è stato soltanto esposto, hanno comunque la loro natura giuridica di indennizzo, rispetto ad un danno che si è già manifestato. Infatti le fibre, come chiarito da Cassazione, IV sezione penale, 45935/2019, hanno capacità di infiammazione e costituiscono il terreno fertile delle successive patologie neoplastiche. In più, proprio perché il prepensionamento permette di interrompere la situazione di rischio, vi è anche l’ulteriore finalità di prevenzione, in coerenza con le norme di cui agli artt. 32 e 38 Cost., che perciò stesso si sommano a quelle latu sensu risarcitorie (Corte di Cassazione, VI sezione civile, sentenza del 09.02.2015, n. 2351, ed ex multis).

           Infatti, l’imponenza del numero dei casi di riconoscimento dell’esposizione ad amianto ex art. 13 co. 8 L. 257/92 (lavoratori non ancora malati) e delle malattie professionali, e il susseguirsi degli accertamenti giudiziari e delle decisioni favorevoli ai lavoratori, e anche le stesse sentenze civili e penali, con condanna al risarcimento dei danni differenziali e complementari, ha portato alla sensibilizzazione dell’opinione pubblica e alla cristallizzazione di un quadro di oggettivo allarme, anche per la sostenibilità dei conti pubblici. L’amianto è stato infatti utilizzato prima di tutto dallo Stato in tutte le sue articolazioni, e anche da imprese di Stato e perfino nelle scuole e negli ospedali. Soltanto questi accertamenti, in sede amministrativa e giudiziaria, hanno permesso di mettere in luce, e di dimostrare se ancora non ce ne fosse stato bisogno, che l’amianto ha provocato, sta provocando e provocherà decine di migliaia di decessi, e di altrettanti casi di patologie, altamente invalidanti.

[10]       Grazie all’impegno dei commissari, tra i quali chi scrive, il Ministro dell’Ambiente, Gen. Sergio Costa, ha disposto nel gennaio 2020 lo stanziamento di 385.000.000 per la progettazione delle bonifiche degli ospedali e delle scuole, con un crono programma per i prossimi anni.

[11]       Le soglie sono di maggiore allarme, ovvero impongono ulteriori regole cautelari al datore di lavoro (così Cassazione, IV sezione penale, 38991/2010). In realtà, le soglie sono lo strumento legislativo utilizzato ad arte per sorvolare sul rischio. Per molti anni, se non per decenni, anche le stesse disposizioni del Ministero della Salute, circolare n. 45/1986, sono rimaste nel cassetto, e pertanto le esposizioni sono proseguite anche nelle scuole.

[12]       Spesso i responsabili si spogliano di tutti i loro beni non appena vengano raggiunti dal sospetto di poter essere chiamati a rispondere dei danni che hanno provocato, spesso estinguendo le vecchie società, oppure facendole fallire, e in alcuni casi con proseguimento dell’attività con diverse ragioni sociali.

           Prof. Tito Boeri, quale Presidente dell’INPS, nel corso dell’assemblea nazionale sull’amianto tenutasi in Senato in data 30.11.2015, ha stimato in 85 anni il tempo necessario per la bonifica dei materiali di amianto. In realtà, mantenendo il ritmo attuale, si impiegherebbe almeno il triplo del periodo stimato.

[13]       Soltanto l’Unione Europea (28 Stati) e Algeria, Arabia Saudita, Argentina, Australia, Bahrain, Brunei, Cile, Corea del Sud, Egitto, Gabon, Giappone, Giordania, Honduras, Islanda, Israele, Kuwait, Mauritius, Mozambico, Nuova Caledonia, Oman, Qatar, Seychelles, Sud Africa, Serbia, Slovacchia, Svizzera, Uruguay. L’elenco aggiornato dei Paesi è reperibile sul sito dell’International Ban Asbestos Secretariat, alla pagina: http://ibasecretariat.org/lka_alpha_asb_ban_280704.php

[14]       “2013 Minerals Yearbook”, U.S. Department of the Interior – U.S. Geological Survey, di Robert L. Virta. Nel 2014,  la Russia ne ha estratto circa 1.100.000, la Cina oltre 400.000, il Brasile circa 284.000, il Kazakhstan 240.000, l’India 270.000, e tra gli utilizzatori la Russia (608.000), la Cina (507.000), l’India (379.000), il Brasile (154,000) ed il Kazakhstan (68.000), come risulta dal sito  http://www.ibasecretariat.org/, consultato in data 27.08.2015.

[15]       Concha-Barrientos M, Nelson D, Driscoll T, Steenland N, Punnett L, Fingerhut M et al. Chapter 21. Selected occupational risk factors. In Ezzati M, Lopez A, Rodgers A, Murray C, editors. Comparative quantification of health risks: global and regional burden of disease attributable to selected major risk factors. Geneva: World Health Organization;2004:1651–801 (http://www.who.int/healthinfo/global_burden_disease/cra/en/, accessed 11 March 2014).

[16]              Per maggiore approfondimenti cfr. ‘Libro bianco delle morti di amianto in Italia’, edizione ONA, 2021 consultabile al link:

https://onanotiziarioamianto.it/wp-content/uploads/2021/05/QTO-134-Libro-bianco-Ed.-2021-1.pdf

[17]       Il datore di lavoro, e con lui i dirigenti ed i responsabili, proprio perché utilizzano e traggono profitto dalle energie psicofisiche di coloro che sono alle loro dipendenze, ne debbono proteggere l’incolumità, per salvaguardare non solo quel patrimonio di esperienze professionali, utile nell’ambito della dinamica del rapporto, ma soprattutto per evitare danni irreversibili alla salute e alla dignità del prestatore d’opera e dei suoi familiari.

[18]       L’equivalente monetario non restituisce certamente l’integrità psichica e fisica e non tutela pienamente la dignità del lavoratore e dei suoi familiari rispetto all’esito irreversibile della lesione della salute e di tutti gli altri diritti che in sua assenza non possono essere pienamente fruiti.

[19]       Cassazione, Sezione Penale, Sez. IV, sent. n. 5037/2000, testualmente: «… le posizioni di garanzia – e quindi l’obbligo giuridico di impedire l’evento – sono anche, (…) posizioni di solidarietà che l’ordinamento giuridico accolla a determinati soggetti sia per proteggere determinati beni giuridici da tutti i pericoli che possono minacciarne l’integrità, ed è questa la posizione di protezione, sia per neutralizzare determinate fonti di pericolo, in modo da garantire l’integrità di tutti i beni giuridici che ne possono risultare minacciati, ed è questa la posizione di controllo, un esempio della quale è la posizione del datore di lavoro nei confronti dei lavoratori alle sue dipendenze. Questa solidarietà riceve, incontestabilmente, un particolare spessore, una particolare luce, dalla Carta Costituzionale, la quale negli artt. 2 e 3, pone, come è noto, al centro dell’architettura costituzionale la persona umana, riconoscendone, nell’art. 2, i diritti inviolabili sia come singolo, sia nelle formazioni sociali in cui si sviluppa la sua personalità chiedendo, conseguentemente, nello stesso articolo, l’adempimento dei doveri di solidarietà politica, economica e sociale e facendo, pertanto, della solidarietà a vari livelli, uno dei valori della Carta e, affermando, nell’art. 3, che è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana. Ed è logica conseguenza di queste solenni affermazioni l’ulteriore affermazione che si legge nell’art. 32, che la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto del cittadino e come interesse della collettività ed è certamente attuazione di questi principi il complesso di norme che costituendo i datori di lavoro e le persone allo stesso equiparabili nella posizione di garanzia detta di controllo, intende garantire la salute, l’incolumità psico-fisica del lavoratore».

           La stessa Corte precisa che: «La ratio della disposizione va ricercata nell’intenzione dell’ordinamento di assicurare a determinati beni giuridici una tutela rafforzata, attribuendo ad altri soggetti, diversi dall’interessato, l’obbligo di evitarne la lesione e ciò perché il titolare non ha il completo dominio delle situazioni che potrebbero mettere a rischio l’integrità dei suoi beni» (Corte di Cassazione, IV Sez. Pen., sent. n. 5037/2000).

[20]       I parametri della prudenza, diligenza e perizia (art. 43 c.p.), debbono essere letti e interpretati non solo nell’ottica della colpa (profilo psicologico), proprio della responsabilità penale ed extracontrattuale, anche aquiliana, ma anche quali regole generiche di condotta del titolare della posizione di garanzia, il quale quindi, anche al di là di regole cautelari specifiche, deve in ogni caso adoperarsi perché siano adottate tutte quelle misure operative specifiche, e in continuo addivenire, fatte emergere dalla scienza e dettate dalla tecnica, per la tutela del bene protetto: così, di fronte a «plurime modalità operative», debbono essere adottate quelle che tutelino la salute e l’incolumità psicofisica, anche ove ciò non fosse disposto da regole cautelari specifiche (Cassazione, Sezione Lavoro, sentenza n. 2251/2012, in precedenza cfr. Cass. Pen., 03.10.2001, n. 35819). Cass. Pen., 03.10.2001, n. 35819, «(…) nel caso di esistenza di plurime modalità operative utilizzabili per il compimento di un’attività rientrante nel ciclo produttivo, il datore di lavoro, i dirigenti ed i preposti hanno l’obbligo di privilegiare quella che, in astratto ma anche in concreto, si presenti come caratterizzata da minore pericolosità per l’incolumità dei lavoratori con una valutazione comparativa del rapporto tra la gravità del rischio e i costi della soluzione prescelta (…) che non può non privilegiare la salute e la sicurezza dei lavoratori (…)».

[21]       La stessa Corte di Cassazione ha ribadito che “versa in colpa il datore di lavoro che, … si sia limitato a rispettare i valori limite … e non abbia osservato l’obbligo di tenere conto delle tecnologie adottate o adottabili nello stesso settore, delle indicazioni della scienza e della tecnica …” (Corte di Cassazione, IV Sez. pen., 05.10.1999).

[22]       Nel caso di esposizione ad amianto, l’inadempimento e/o l’illecito sussistono anche per la «“mancata riduzione della polverosità dell’ambiente di lavoro, (…) mancata adozione di procedimenti di lavorazione idonei a limitare le operazioni suscettibili di creare ulteriore polverosità e (…) mancata istruzione adeguata dei dipendenti in ordine alla pericolosità delle lavorazioni a cui erano addetti e alle cautele da osservare (relative alle tute, stivali ecc. e al trattamento di detti indumenti)”, considerando tali omissioni rilevanti “a prescindere dalle questioni relative alla dotazione di mascherine e alle loro caratteristiche tecniche” all’epoca»(Corte di Cassazione, Sez. Lav., sentenza n. 1477/14). La stessa Corte di Cassazione prosegue affermando che “la responsabilità dell’imprenditore ex art. 2087 c.c. () non è circoscritta alla violazione di regole d’esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, sanzionando anche, alla luce delle garanzie costituzionali del lavoratore, l’omessa predisposizione di tutte le misure e cautele atte a preservare l’integrità psicofisica del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto conto della concreta realtà aziendale e della maggiore o minore possibilità di indagare sull’esistenza di fattori di rischio in un determinato momento storico. Pertanto, qualora sia accertato che il danno è stato causato dalla nocività dell’attività lavorativa per esposizione all’amianto, è onere del datore di lavoro provare di avere adottato, pur in difetto di una specifica disposizione preventiva, le misure generiche di prudenza necessarie alla tutela della salute dal rischio espositivo secondo le conoscenze del tempo di insorgenza della malattia” (v. da ultimo Cass. 3.8.2012 n. 13956, cfr. Cass. 1-2-2008 n. 2491, Cass. 14- 1-2005 n. 644)» (Corte di Cassazione, Sezione lavoro, sentenza 1477/2014).

[23]       Così Monti e altri, Cass. Pen., Sez. IV, 9 maggio 2003, in Ragiusan, 2005, 249-250, 196, in Foro It., 2004, 2, 69, in Riv. Pen., 2004, 762. In base a questa impostazione si è così affermato (cfr. Trioni e altri, App. Milano, Sez. IV, 30 agosto 2004, in Riv. Critica Dir. Lav., 2004, 1065) che anche nel caso di decesso di un lavoratore per mesotelioma a causa dell’esposizione all’amianto (esposizione intervenuta in un’epoca nella quale non si avevano conferme scientifiche circa il nesso tra l’asbesto e questa patologia) è in ogni caso sussistente la colpa specifica per violazione di norme, anche quando la norma è posta per prevenire altra patologia, come l’asbestosi, e non già il mesotelioma; tali misure cautelari, infatti (come quelle stabilite dall’art. 21 del D.P.R. 19 marzo 1956 n. 303), sebbene pensate per prevenire le malattie respiratorie da inalazione di polveri allora conosciute, erano comunque generali ed astratte, e finalizzate a impedire qualsiasi danno che le polveri potessero determinare alla salute nello svolgimento del rapporto di lavoro, quindi anche per evitare quei danni che in ogni caso erano conosciuti, oltre a qualsiasi altro danno, seppure sconosciuto nel 1956, in quanto il bene protetto (e cioè la salute) era il medesimo. Cfr. pure: Friggè c. Ansaldo Energia s.p.a. e altri, Trib. Milano, 26 giugno 2004, in Lavoro nella Giur., 2005, 185; Gastaldi, Trib. Carrara, 13 gennaio 2004, in Riv. Pen., 2004, 347.Questa giurisprudenza si è delineata già negli anni ’90: Calamandrei e altri, Cass. Pen., Sez. IV, 11 maggio 1998, cit., e Macola e altri, Pret. Padova, 3 giugno 1998, in Riv. Trim. Dir. Pen. Economia, 1998, 720, con affermazione della responsabilità penale in base al principio per il quale la prevedibilità dell’evento sussiste laddove l’imputato potesse prevedere che, adottando le misure imposte, si sarebbe potuto evitare un danno grave alla salute ed all’incolumità dei lavoratori, e cioè un danno dello stesso genere di quello poi effettivamente verificatosi, senza che fosse necessaria la previsione dell’evento specifico (per esempio, la morte per mesotelioma o per tumore polmonare). Questa decisione venne poi definitivamente confermata dalla Corte di Cassazione, IV Sezione Penale, sentenza 11.07.2002 – 14.01.2003 n. 988.

           Infatti, anche prima dell’entrata in vigore della L. 257/92, vi era il divieto di esposizione, a prescindere dalla soglia (Cassazione, IV sezione penale, 49215/2012). Nella giurisprudenza della Sezione Lavoro della Corte di Cassazione: «(…) a nulla rileva che il rapporto di lavoro si sia svolto in periodo anche antecedente al 1980, in riferimento al quale è stata ravvisata l’insorgenza della patologia, manifestatasi, dopo un lungo periodo di latenza, solo nel 1993, mentre specifiche norme per il trattamento dei materiali contenenti amianto sono state introdotte per la prima volta col D.P.R. 10 febbraio 1982, n. 15.

                             Devono, altresì, esser tenute presenti altre norme dello stesso D.P.R. n. 303 del 1956, ove si disciplina il dovere del datore di lavoro di evitare il contatto dei lavoratori con polveri nocive: cosi l’art. 9, che prevede il ricambio d’aria, l’art. 15, che impone di ridurre al minimo il sollevamento di polvere nell’ambiente mediante aspiratori, l’art. 18, che proibisce l’accumulo delle sostanze nocive, l’art. 19, che impone di adibire locali separati per le lavorazioni insalubri, l’art. 20, che difende l’aria dagli inquinamenti con prodotti nocivi specificamente mediante l’uso di aspiratori, l’art. 25, che prescrive, quando possa esservi dubbio sulla pericolosità dell’atmosfera, che i lavoratori siano forniti di apparecchi di protezione (cfr., in tali termini, Cass. cit. 30 giugno 2005 n. 14010)» (Cass. civ., Sez. Lavoro, 11 luglio 2011, n. 15159).

[24]       Così ancora, da ultimo, Cass. Civ., Sez. Lav., 11 luglio 2011, n. 15159, cit.

[25]       Si è affermata la responsabilità anche di quel datore di lavoro per il quale l’esposizione era stata inferiore per periodo ed intensità, poiché comunque rilevante nel decorso causale quantomeno per anticipare i tempi di latenza. Va ricordato che il D.L.vo 277/91, imponeva all’art. 24, n. 2, di accertare l’entità dell’esposizione ad amianto e di formulare tutte le valutazioni tenendo conto del rischio per la salute; l’art. 26 imponeva l’obbligo di informare i lavoratori (che prima era riconducibile all’art. 4 del d.p.r. 303/56), imposto in ogni caso dalle norme di lealtà, correttezza e buona fede, che si impongono alle parti nell’esecuzione degli obblighi contrattuali (artt. 1175 e 1375 c.c.); l’art. 27 dettava specifiche norme che imponevano misure tecniche, organizzative e procedurali; l’art. 28 codificava regole cautelari già affermate dagli igienisti industriali e comunque ricavabili dal sistema di cui al d.p.r. 303/56 (artt. 19, 20 e 21), consistenti nelle misure igieniche di pulitura dei locali, delle attrezzature e degli impianti, con l’aspirazione localizzata delle polveri di amianto e la predisposizione di aree speciali che «consentano ai lavoratori di mangiare, bere e sostarvi senza rischio di contaminazione da polvere di amianto (…)»; e al capo “b) dispone che gli indumenti di lavoro o protettivi siano riposti in luogo separato da quello destinato agli abiti civili. Il lavaggio è effettuato dall’impresa in lavanderie appositamente attrezzate, con una macchina adibita esclusivamente a questa attività. Il trasporto è effettuato in imballaggi chiusi, opportunamente etichettati. L’attività di lavaggio è comunque compresa fra quelle indicate all’art. 22; c) provvede a che i mezzi individuali di protezione di cui all’art. 27, comma 2, lettera c), siano custoditi in locali all’uopo destinati, controllati e puliti dopo ogni utilizzazione, provvedendo altresì a far riparare o sostituire quelli difettosi prima di ogni nuova utilizzazione. La pulitura di detti mezzi è effettuata mediante aspirazione”. L’art. 29 imponeva il controllo sanitario dei lavoratori esposti, con precisi obblighi; l’art. 30 imponeva l’obbligo di controllo dell’esposizione dei lavoratori. L’art. 33 dettava obblighi aggiuntivi in ordine al confinamento e alla separazione delle lavorazioni che determinavano aerodispersione di polveri e fibre di amianto, che enucleavano le disposizioni di cui al DPR 303/56; che dovevano trovare applicazione nella esecuzione di «lavori di demolizione e rimozione dell’amianto». L’art. 34 disponeva che il datore di lavoro avrebbe dovuto iscrivere il nominativo dei lavoratori esposti ad amianto in un apposito registro, con l’obbligo, di cui all’art. 35, di comunicarlo ai lavoratori interessati tramite il medico competente, il quale avrebbe dovuto tener conto del registro e della cartella sanitaria e di rischio di cui all’art. 4, comma I, lettera q). Questo percorso normativo ha avuto la sua definizione con le norme di cui al D.L.vo 81/2008, in particolare nel titolo IX, al III capo, e nel resto del testo normativo.

           Poiché tutte le patologie asbesto correlate sono dose dipendenti, è di tutta evidenza come, in caso di insorgenza di una di queste patologie, alla violazione delle regole cautelari da parte di più datori di lavoro, sussiste la responsabilità in solido di tutti (Cass., III Sez. Civile, sentenza n. 5893/2016), ovvero di un eventuale unico convenuto per il tutto, anche laddove si siano verificate esposizioni in più siti lavorativi, poiché tutte le esposizioni rilevano in relazione all’art. 41 c.p. quantomeno ai fini della anticipazione dei tempi di latenza (Cass., Sez. lav., sentenza 5086/2012).

[26]       L’affermazione di responsabilità alla base dell’obbligo risarcitorio non richiede alcuna prova della esatta entità della pericolosità dell’ambiente lavorativo: è sufficiente verificare che, per i lavori che danno luogo normalmente alla formazione di polveri, il datore e/o i committenti, e i dirigenti e/o responsabili abbiano omesso di adottare tutte le misure che avrebbero portato alla eliminazione, ovvero alla semplice riduzione del rischio (Cass., Sez. III, 21 settembre 1995, n. 9775).

[27]       La Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con sentenza n. 1477/2014, ha ribadito l’obbligo del rispetto delle misure cautelari, anche se “all’epoca non fossero state ancora emanate specifiche norme per il trattamento dei materiali contenenti amianto (introdotte col D.P.R. 10 febbraio 1982, n. 15)” (cfr., in tali termini, Cass. cit. 30 giugno 2005 n. 14010, e conforme Cass. civ., Sez. Lavoro, 11 luglio 2011, n. 15159), poiché tra le c.d. polveri vi rientrano anche i materiali di amianto, per «impedire o ridurre, per quanto è possibile, lo sviluppo e la diffusione nell’ambiente di lavoro soggiungendo che “le misure da adottare a tal fine devono tenere conto della natura delle polveri e della loro concentrazione”, cioè devono avere caratteristiche adeguate alla pericolosità delle polveri».

[28]       Con obbligo di risarcire anche di danni subiti da familiari iure proprio.

[29]       Legge di copertura, esplicativa del decorso ai fini della formulazione del giudizio sulla causalità individuale. Anche per il mesotelioma trova ormai applicazione la teoria multistadio della cancerogenesi che la Corte di Cassazione, IV sezione penale, sentenza 3615/2016, considera ormai universale richiamando precedenti pronunce di legittimità.

[30]       L’adozione degli strumenti di cautela, dettati per il rischio amianto in relazione all’asbestosi, avrebbero evitato il rischio cancerogeno (riferito al mesotelioma e al tumore polmonare), e che pertanto non ci fossero i presupposti della responsabilità civile, contrattuale ed extracontrattuale.

[31]       www.csddl.it: ‘Il nesso di causalità in tema di patologie asbesto correlate’.

[32]       In sede penale, la parte civile eventualmente costituita (ai sensi degli artt. 74 e ss. c.p.p.), sconta l’applicazione di regole molto più rigorose in tema di affermazione della responsabilità e quindi dell’obbligo risarcitorio, anche in caso di citazione del responsabile civile (83 e ss. c.p.p.). Lo sviluppo attuale della giurisprudenza della Corte di legittimità, che sta annullando quasi tutte le sentenze di condanna, suggerisce una diversa opzione per la tutela risarcitoria delle vittime. Quindi con la necessità della tutela civilistica e/o previdenziale.

[33]       Queste tesi, sostenute dall’Osservatorio Nazionale Amianto hanno ricevuto recente ulteriore avallo scientifico nel corso della “The Helsinki declaration on menagement elimination of asbestos – related diseases” -10/13.02.2014, pubblicato su ESPOO, Finland. Gli scienziati indipendneti, riuniti nella conferenza internazionale sul monitoraggio e sorveglianza delle patologie asbesto correlate hanno dichiarato “la prevenzione primaria è l’unica via effettiva per eliminare le patologie asbesto -correlate”; nella versione in inglese “primary prevention is the only effective way to eliminate ARDs”.

[34]       Poiché già prima dell’entrata in vigore della L. 257/92, sussisteva nel nostro ordinamento un divieto di esposizione professionale ad amianto, e dovendo essere considerata perciò stesso le attività che ne determinavano l’utilizzo come pericolose (2050 c.c.), ovvero dovessero essere coniugate con pressanti obblighi di custodia (2051 c.c.), la responsabilità extracontrattuale sussiste ben oltre il solco di quella aquiliana, ovvero civile da reato, e dunque non è necessaria la sussistenza di un rapporto di lavoro per l’obbligo di risarcimento dei danni (Cass., Sez. Pen., sentenza n. 20047/2010; Cass., IV Sez. Pen., sentenza n. 49215/2012; Cass., Sez. Lav., n. 14010/2005).

[35]       Il percorso normativo, che ha condotto ai divieti di cui alla L. 257/92, non può certo rendere legittime quelle condotte, antecedenti l’entrata in vigore di quest’ultima legge, che reiteratamente hanno disatteso, oltre alle regole cautelari specifiche e generiche, anche le elementari accortezze, imposte dall’obbligo di diligenza, perizia e prudenza, da cui si attinge la conferma anche dei profili psicologici (colpa, se non dolo) propri della responsabilità aquiliana, ovvero civile da reato, che si vanno ad aggiungere a tutti gli altri che la vittima e i suoi familiari possono far valere.

           Infatti, l’entrata in vigore della L. 257/92 (28.04.1992) costituisce la presa di coscienza del legislatore che il rischio amianto è talmente imponente che non ne è possibile un uso controllato e legittimo che possa essere armonizzato con il pregnante obbligo giuridico di tutela della salute nei luoghi di vita e di lavoro, su cui si articola l’intero ordinamento costituzionale (art. 32 in riferimento agli artt. 2, 3 e 4, in combinato disposto con gli artt. 35, 36 e 41 II co. della Costituzione), anche alla luce dell’efficacia degli strumenti cautelari che se fossero stati adottati nei luoghi di lavoro, avrebbero quantomeno attenuato i numeri di quello che è un vero e proprio genocidio (Cass., IV Sez. Pen., sentenza n. 49215/2012, citata).

[36]       Come già rilevato, in relazione alla sussistenza della legge scientifica della rilevanza della dose cumulativa e della dose dipendenza, sia per le patologie fibrotiche che per quelle neoplastiche, tutte le esposizioni rilevano ai fini dell’insorgenza, ovvero dell’anticipazione della latenza di queste patologie: quindi nel caso in cui il lavoratore abbia svolto la sua attività alle dipendenze di più datori, presso i quali è stato esposto ad amianto, tutti ne rispondono, anche quelli per i quali l’esposizione è stata minore per intensità e durata.

           Infatti, questo principio è stato recepito da Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, sentenza n. 5086 del 29.03.2012, che ha infatti affermato la responsabilità di una società in ordine ai danni subiti da un lavoratore affetto da patologia asbesto correlata ancorché nell’ambito di questo rapporto la sua esposizione fosse stata più breve e meno intensa rispetto a tutte le altre.

[37]       Il rischio e l’abbreviazione dei tempi di latenza sono direttamente proporzionali all’entità dell’esposizione per intensità e durata (‘Mortality from lug cancer in asbestos workers’ – 1955 – Richard Doll), per tutte le patologie neoplastiche (mesotelioma, cancro al polmone, alla laringe e all’ovaio, ovvero al colon e agli organi del tratto gastrointestinale).

           Le condotte omissive rilevano in ordine al decorso causale, oltre che della sussistenza dei profili psicologici, per il fatto che la condotta alternativa lecita, se posta in essere, secondo gli obblighi di legge, avrebbe evitato o quantomeno fortemente diminuito i tempi e i livelli espositivi a polveri e fibre di amianto di ognuno dei singoli lavoratori, e quindi evitato l’insorgenza di un gran numero di tali patologie, e rispetto a tutti di abbreviare i tempi di latenza, sussistendo dunque, oltre alla causalità generale, anche la conferma di tale modello esplicativo per confermare la sussistenza del nesso di causalità nel caso del singolo lavoratore danneggiato.

[38]       Questa neoplasia si origina dalle cellule del mesotelio, delle diverse sierose (pleura, pericardio, peritoneo e tunica vaginale del testicolo).

[39]       Marinaccio A, Scarselli A, Merler E, Iavicoli S., Mesothelioma incidence surveillance systems and claims for workers’ compensation. Epidemiological evidence and prospects for an integrated framework. BMC Public Health 2012;12:314. Brown T, Darnton A, Fortunato L, Rushton L, British Occupation Burden Study Group. Occupational cancer in Britain. Respiratory cancer sites: larynx, lung and mesothelioma. Br J Cancer 2012;107 Suppl 1:S56-70.

[40]       Lacourt A, Gramond C, Rolland P et al., Occupational and non-occupational attributable risk of asbestos exposure for malignant pleural mesothelioma. Thorax 2014;69(6):532-9. Magnani C, Fubini B, Mirabelli D et al., Pleural mesothelioma: epidemiological and public health issues. Report from the Second Italian Consensus Conference on Pleural Mesothelioma. Med Lav 2012;104(3):191-202. Hodgson JT, Darnton A., The quantitative risks of mesothelioma and lung cancer in relation to asbestos exposure. Ann Occup Hyg 2000; 44(8):565-601.

[41]       In Elevato rischio di mesotelioma pleurico e tumore del polmone tra i lavoratori esposti ad amianto titolati a richiedere un pensionamento anticipato pubblicato su Epidemiologia e prevenzione, n. 40 (1): 26-34, gennaio/febbraio 2016.

[42]          Per la quale, per le patologie della Lista I INAIL vi è la presunzione legale di origine, ovvero si presume il nesso causale, con onere della prova, in caso contrario, a carico di INAIL – amplius ‘Il nesso di causalità in tema di patologie asbesto correlate’, opera cit. capo VI, nota 62.

[43]       Pinto C et al. Second Italian Consensus Conference on Malignant Pleural Mesothelioma: State of the art and recommendations. Cancer Treat Rev (2012), http://dx.doi.org/10.1016/j.ctrv.2012.11.004

[44]       Secondo questa teoria, sostenuta dai consulenti di coloro che sono tratti a giudizio per responsabilità legata ad esposizione ad amianto, il mesotelioma sarebbe provocato da una sola singola fibra di amianto. Quindi, essendo impossibile poter individuare i termini e le modalità di inalazione ovvero di ingestione di tale unica fibra, sarebbe altrettanto impossibile individuare eventuali responsabilità, sia in sede civile che soprattutto in sede penale

[45]       La sentenza in esame permette la sintesi di alcuni principi fondamentali che governano la formulazione del giudizio sul nesso causale in materia di mesotelioma:

  • La latenza diminuisce con l’incremento dell’esposizione
  • Si tratta di una legge scientifica sufficientemente radicata nella comunità scientifica e di carattere universale.
  • Non esiste una esposizione irrilevante.
  • Studi accreditati indicano che la latenza minima è di circa 15 anni e di 32 anni quella media. Inoltre, l’esposizione lavorativa implica una latenza più breve () .
  • Sono rilevanti non solo le esposizioni iniziali che conducono inizialmente nel processo cancerogenetico, ma rilevano pure quelle successive fino all’induzione della patologia, dotate di effetto acceleratore, appunto, e di abbreviazione, quindi, della latenza”.

[46] Infatti, “a prescindere dall’individuazione della dose-innescante, le esposizioni successive e, quindi, le ulteriori dosi aggiuntive devono essere considerate concausa dell’evento proprio perché esse abbreviano la latenza ed anticipano di conseguenza l’insorgenza della malattia, accorciano la latenza, aggravano la patologia e, nei casi estremi, anticipano la morte. E’ noto, infatti, che la degenerazione delle cellule possiede uno sviluppo estremamente lento, tanto che si parla ordinariamente di tempi di latenza … [omissis] … sussiste un rapporto esponenziale della dose di cancerogeno assorbita in termini di risposta tumorale, per cui l’aumento della detta dose di cancerogeno assorbito non potrà che comportare evidentemente un accrescimento della frequenza con cui il tumore tende a manifestarsi” (Corte di Cassazione, IV Sezione penale, pronuncia del 16 marzo 2015, n. 11128; coerentemente a Cass., IV Sez. Pen., n. 988/2003; Cass., IV Sez. pen., n. 33311/2012 ed ex multis, con una inversione rispetto alle pronunce della IV Sezione Penale, n. 38991/10 e n. 43786/10, che invece avevano circoscritto l’applicabilità di tali principi sempre ed esclusivamente per tutte le altre patologie, mentre per quanto riguarda il mesotelioma avevano affermato che non  sussisteva unanimità scientifica).

[47]       La Corte di Cassazione, IV Sezione Penale, n. 33311 del 27.08.2012 ha precisato che: «(…) non assume rilievo decisivo l’individuazione dell’esatto momento di insorgenza della patologia (Sezione IV, 11.04.2008, n. 22165)» ed ha aggiunto:«dovendosi reputare prevedibile che la condotta doverosa avrebbe potuto incidere positivamente anche solo sul suo tempo di latenza, ampiamente motivata appare la statuizione gravata nella parte in cui giudicata inattendibile la teoria della cosiddetta trigger dose, assume che il mesotelioma è patologia dose dipendente.

           Correttamente la sentenza impugnata ha chiarito come da una conclusione scientificamente non contestabile dello studioso [Irving Selikoff] si era giunti ad elaborare l’inaccettabile tesi secondo la quale poiché l’insorgenza della patologia oncologica era causata anche dalla sola iniziale esposizione (c.d. “trigger dose” o “dose killer”), tutte le esposizioni successive, pur in presenza di concentrazioni anche elevatissima di fibre cancerogene, dovevano reputarsi ininfluenti.

           Trattasi di una vera e propria distorsione dell’intuizione del Selikoff, il quale aveva voluto solo mettere in guardia sulla pericolosità del contatto con le fibre d’amianto, potendo l’alterazione patologica essere stimolata anche solo da brevi contatti e in presenza di percentuali di dispersione nell’aria modeste. Non già che si fosse in presenza, vera e propria anomalia mai registrata nello studio delle affezioni oncologiche, di un processo cancerogeno indipendente dalla durata e intensità dell’esposizione.

           Ciò ha trovato puntuale conferma nelle risultanze peritali alle quali il giudice di merito ha ampiamente attinto. Infatti, la molteplicità di alterazioni innestate dall’inalazione delle fibre tossiche necessita del prolungarsi dell’esposizione e dal detto prolungamento dipende la durata della latenza e, in definitiva, della vita, essendo ovvio che a configurare il delitto di omicidio è bastevole l’accelerazione della fine della vita. Pertanto, di nessun significato risulta l’affermazione che talune delle vittime venne a decedere in età avanzata. La morte, infatti, costituisce limite certo della vita e a venir punita è la sua ingiusta anticipazione per opera di terzi, sia essa dolosa, che colposa.

           L’autonomia dei segnali preposti alla moltiplicazione cellulare, l’insensibilità, viceversa, ai segnali antiproliferativi, l’evasione dei processi di logoramento della crescita cellulare, l’acquisizione di potenziale duplicativo illimitato, lo sviluppo di capacità angiogenica che assicuri l’arrivo di ossigeno e dei nutrienti e, infine, la perdita delle coesioni cellulari, necessarie per i comportamenti invasivi e metastatici, sono tutti processi che per svilupparsi e, comunque, rafforzarsi e accelerare il loro corso giammai possono essere indipendenti dalla quantità della dose.

           Ciò ancor più a tener conto che l’accumulo delle fibre all’interno dei polmoni, continuando l’esposizione, non può che crescere, nel mentre solo col concorso, in assenza d’ulteriore esposizione, di molti anni, lentamente il detto organo tende a liberarsi delle sostanze tossiche, essendo stato accertato, dagli studi di Casale Monferrato, dei quali appresso si dirà, che l’accumulo tende a dimezzarsi solo dopo 10/12 anni dall’ultima esposizione

[48]       Tali conclusioni rilevano anche per le altre neoplasie, ivi compreso il tumore polmonare, in caso di lavoratore che avesse anche l’abitudine voluttuaria al fumo di tabacco, essendo ben noto l’effetto moltiplicativo e sinergico dei due cancerogeni.

[49]       La Corte di legittimità ha annullato la Sentenza della Corte di Appello di Torino, in quanto aveva escluso il nesso causale tra le esposizioni successive all’insorgenza della patologia e l’evento morte: «L’enunciazione, in breve, è non motivata ed incoerente rispetto alla precedente esposizione di carenza di presupposto scientifico accreditato che condiziona la tesi accusatoria () in tale situazione, la pronuncia deve essere annullata con rinvio. La questione dovrà essere esaminata nuovamente a fondo. I dubbi, le incertezze, le contraddizioni dovranno essere se possibile risolti in modo convincente. Come già enunciato si dovrà compiere, con l’ausilio di esperti qualificati ed indipendenti, una documentata metanalisi della letteratura scientifica universale. Le opinioni e le enunciazioni degli esperti di parte dovranno essere vagliati, se necessario, con l’aiuto di periti. Ma ci si dovrà astenere da valutazioni ed enunciazioni scientifiche proprie. Infatti, né il giudice di merito né quello di legittimità possono ritenersi ad alcun titolo detentori di sapere scientifico, che deve essere invece veicolato nel processo dagli esperti. Alla luce di tali principi sarà pure vagliata la questione inerente alla dipendenza da mesotelioma della morte del lavoratore R.». Si afferma, altresì, che «è superata alla luce delle più recenti acquisizioni scientifiche che indicano un processo ben più complesso, implicante l’intervento di molte variabili oltre alla dose innescante. Inoltre, costituisce sapere scientifico condiviso il fatto che l’evidenza epidemiologica disponibile sia univoca nell’indicare una relazione proporzionale tra dose cumulativa ed incidenza, nel senso che all’aumento dell’esposizione per intensità e durata aumentano i casi di tumore all’interno della popolazione esposta. Ancora, l’orientamento prevalente della giurisprudenza di legittimità è indirizzato nel senso della rilevanza dell’effetto acceleratore. Infine, gli studi citati dai periti e dai i consulenti della difesa circa i soggetti che dopo una breve esposizione hanno sviluppato la patologia a distanza di molti decenni non costituiscono una prova sfavorevole alla tesi dell’effetto acceleratore. Si aggiunge che la teoria dell’effetto acceleratore sostenuta in sede epidemiologica ha trovato convincente conferma anche in sede di patologia sperimentale».

[50]       Consensus Report “Asbestos, asbestosis, and cancer: the Helsinki criteria for diagnosis and attribution” (1997)

[51]       Lo studio australiano, condotto a Wittenon, nel 2005, dall’Occupational & Environmental Epidemiology Group, School of Population Health, University of Western Australia, Crawley, ha evidenziato che, tra il 1990 e il 2002, ci furono 58 casi di tumore al polmone, il 36% dei quali presentava una evidenza radiografica di asbestosi. Di qui la conclusione a mente della quale nella coorte dei lavoratori e residenti di Wittenoom, l’asbestosi non è un precursore del cancro al polmone causato dall’amianto.

           In altri termini, i dati osservati hanno dimostrato che l’amianto di per sé causa il tumore al polmone, che può svilupparsi in presenza o meno di asbestosi.

           Parimenti, lo studio condotto in Canada dall’ INRS-Institut Armand-Fr

[52]       Uno studio di mortalità dei titolari di rendita per asbestosi in Italia (1980-1990) ha messo in evidenza un incremento significativo dei tumori polmonari, pleurici e peritoneali sia tra gli uomini che tra le donne ed un incremento significativo dei tumori intestinali soltanto tra le donne (Germani,1996).

[53]       Ministero della Salute, “Stato dell’arte e prospettive in materia di contrasto alle patologie asbesto-correlate”, “Quaderno del Ministero della Salute n. 15”, pagg. 39-42, maggio-giugno 2012, paragrafo dedicato al tumore al polmone.

[54]       Su 17.800 lavoratori di materiali isolanti in amianto, dove ci si aspettava il 38.1 di decessi causati al cancro al colon e al retto, se ne verificarono 59 [Selikoff et al., 1979].

[55]       Quella di limitata probabilità.

[56]       Come da Gazzetta Ufficiale del 12.09.2014.

[57]       “There is sufficient evidence in humans for the carcinogenicity of all forms of asbestos (chrysotile, crocidolite, amosite, tremolite, actinolite, and anthophyllite). Asbestos causes mesothelioma and cancer of the lung, larynx, and ovary…”.

[58]       Eurogip: ente di diritto pubblico creato nel 1991 dalla Sezione Infortuni sul lavoro – malattie Professionali della Sicurezza Sociale francese.

[59]          Con questa pronuncia è stata annullata la sentenza della Corte di Appello di Bologna, che aveva deciso di rigettare la domanda risarcitoria di un lavoratore afflitto da tumore polmonare riconosciuto dall’INAIL come di origine professionale solo perché egli era un fumatore, senza che ci fosse la prova del fatto che solo l’abitudine al fumo ne avesse determinato l’insorgenza. Tale principio è stato confermato da Cassazione Civile, Sez. lav., 26 marzo 2015, n. 6105.

[60]       È quindi sufficiente, per il collegamento causale la “probabilità qualificata” (Corte di Cassazione Civile, 24.01.2014, n. 1477, che richiama Cass. 12.05.2004, n. 9057), come già in precedenza affermato dalla stessa Corte (Cass. Sez. Lav., n. 5086/12), la quale puntualizza che, anche in caso di più fonti di esposizione a polveri e fibre di amianto, sussiste comunque la responsabilità del datore di lavoro pur se l’esposizione che gli si attribuisce è inferiore a quella extraprofessionale oppure a quella causata da altri datori di lavoro: «Pertanto, applicando i principi della “probabilità qualificata” e della “equivalenza causale” più volte affermati in materia da questa Corte (v. fra le altre Cass. 11-6-2004 n. 11128, Cass. 12-5-2004 n. 9057, Cass. 21-6-2006 n. 14308, Cass. 8-10-2007 n. 21021, Cass. 26-6- 2009 n. 15080, Cass. 10-2-2011 n. 3227, nonché Cass. 3-5-2003 n. 6722, Cass. 9-9-2005 n. 17959, Cass. 4-6-2008 n. 14770, Cass. 17-6- 2011 n. 13361) la Corte di merito, sulla base delle risultanze della prova testimoniale ha accertato in particolare “la presenza di amianto nei rivestimenti della struttura dei forai di cottura, nei cui pressi il B. operava, nonché nelle sconnessure dei circa 1.000 carrelli sui quali il materiale refrattario veniva collocato e nei materassini usati dai fuochisti” nonché “l’inquinamento ambientale, provocato dallo sfarinamento delle guarnizioni delle porte dei forni e dalla presenza dei residui di amianto nell’ambiente di lavoro fino alle pulizie dei locali”».

[61]       La Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con la sentenza n. 1477 del 2014 richiama la «relazione probabilistica concreta tra comportamento ed evento dannoso, secondo il criterio, ispirato alla regola della normalità causale ossia del “più probabile che non” (v. fra le altre Cass. 16- 1-2009 n. 975, cfr. Cass. 16-10-2007 n. 21619, Cass. 11-5-2009 n. 10741, Cass. 8-7-2010 n. 16123, Cass. 21-7-2011 n. 15991)». Tale decisione è coerente con la giurisprudenza consolidata (cfr. Cass. Sez. Unite, sent. 581/08 ed ex multis Cass. 16 ottobre 2007, n. 21619; Cass. 18 aprile 2007, n. 9238; Cass. 5 settembre 2006, n. 19047; Cass. 4 marzo 2004, n. 4400; Cass. 21 gennaio 2000, n. 632), per cui in sede civile è sufficiente per integrare il nesso causale la «probabilità qualificata» (Cass., sentenza 6388/98).

[62]       Secondo la Corte, la valutazione di elevata probabilità di produzione dell’evento costituisce «l’elemento qualificante in materia di accertamento del nesso causale (cfr., ad es., da ultimo, Cass. 16 gennaio 2009 n. 975) oltre che della colpa». Infatti: «Quanto all’incidenza del rapporto di causalità, nel caso di specie trova applicazione la regola dell’art. 41 c.p., per la quale il rapporto causale tra evento e danno ègovernato dal principio dell’equivalenza delle condizioni, principio secondo il quale va riconosciuta l’efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito, anche in maniera indiretta e remota, alla produzione dell’evento, salvo il temperamento previsto nello stesso art. 41 c.p., in forza del quale il nesso eziologico è interrotto dalla sopravvenienza di un fattore sufficiente da solo a produrre l’evento, tale da far degradare le cause antecedenti a semplici occasioni (Cass. 9.09.05 n. 17959)» (Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, sentenza n. 2251/2012).

[63]       Cassazione, Sezione Lavoro, n. 5174/2015: “che in materia di nesso causale tra attività lavorativa e malattia professionale, trova diretta applicazione la regola contenuta nell’art. 41 c.p., per cui il rapporto causale tra evento e danno è governato dal principio dell’equivalenza delle condizioni, secondo il quale va riconosciuta l’efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito, anche in maniera indiretta e remota, alla produzione dell’evento, mentre solamente se possa essere con certezza ravvisato l’intervento di un fattore estraneo all’attività lavorativa, che sia di per sé sufficiente a produrre l’infermità tanto da far degradare altre evenienze a semplici occasioni, deve escludersi l’esistenza del nesso eziologico richiesto dalla legge”.

[64]       In assenza di prova del decorso alternativo che grava sul datore di lavoro, si conferma l’obbligo risarcitorio anche nel caso di tumore polmonare con sinergia tra diversi cancerogeni, alcuni dei quali extralavorativi.

           Il nesso causale è confermato dalla capacità che hanno tutte le esposizioni ad amianto di anticipare i tempi di latenza, rispetto ad un processo cancerogeno che può pure essersi generato in seguito ad altre esposizioni, fossero anche di natura extraprofessionale, e anche nel caso in cui quelle dedotte fossero più limitate per intensità e durata, e dunque con l’obbligo del risarcimento per il totale. Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, sentenza n. 5086/2012. Le altre esposizioni, e quindi il loro contributo causale, in relazione ai danni subiti, possono portare ad una graduazione dell’entità del risarcimento, con l’applicazione di un criterio riconducibile alle norme di cui all’art. 1227 c.c..

[65]       Pertanto sussiste il nesso causale, come chiarito dalla Corte di Cassazione, Sezione lavoro, sentenza n. 15078 del 26.06.2009: «la valutazione di elevata probabilità di produzione dell’evento costituendo l’elemento qualificante in materia di accertamento del nesso causale (cfr., ad es., da ultimo, Cass. 16 gennaio 2009 n. 975) oltre che della colpa».

[66]       In sede civilistica rileva quanto evidenziato dalla Corte di Cassazione, Sezione lavoro, con la sentenza n. 2251 del 2012, nella quale testualmente: «Quanto all’incidenza del rapporto di casualità, nel caso di specie trova applicazione la regola dell’art. 41 c.p., per la quale il rapporto causale tra evento e danno è governato dal principio dell’equivalenza delle condizioni, principio secondo il quale va riconosciuta l’efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito, anche in maniera indiretta e remota, alla produzione dell’evento, salvo il temperamento previsto nello stesso art. 41 c.p., in forza del quale il nessun eziologico è interrotto dalla sopravvivenza di un fattore sufficiente da solo a produrre l’evento, tale da far degradare le cause antecedenti a semplici occasioni (Cass. 9.09.05 n. 17959)». Secondo la sentenza citata, ogni esposizione morbigena rileva perché contribuisce ad aggravare la condizione di rischio e di lesione e perché abbrevia i tempi di latenza, oltre ad avere un effetto moltiplicatore e acceleratore del processo cancerogeno. In tema di responsabilità dell’imprenditore ex art. 2087, la Corte afferma: «La responsabilità non ha nulla di oggettivo, ma rappresenta uno dei contenuti del contratto di lavoro, costituito dall’obbligo di predisporre tutte le misure e le cautele idonee a preservare l’integrità psicofisica e la salute del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto conto del concreto tipo di lavorazione e del connesso rischio (v. anche Cass. 1.02.08 n. 2491). In ragione di tale obiettivo, correttamente il giudice di merito ha ritenuto che la semplice rimozione dei residui della lavorazione dell’amianto non fosse sufficiente a rendere salubre l’ambiente di lavoro, in ragione della conosciuta nocività delle fibre volatili liberate dal materiale di amianto e che l’omissione di idonee misure di questo tipo (consistenti non solo nell’adozione di specifici dispositivi di sicurezza, ma anche nella diversa organizzazione delle operazioni di lavoro) costituisce violazione dell’obbligo di sicurezza.

[67]       L’obbligo di adozione di tali misure sussisteva anche ove si ritenesse che al tempo non fossero ancora state dettate norme specifiche per la tutela dalle polveri di amianto e anche per le patologie che all’epoca non erano ancora ritenute causate dal minerale. Rispetto al rischio amianto, infatti, il bene giuridico protetto è la salute, e per proteggerlo erano state dettate ed imposte queste regole cautelari, che erano efficaci perché impeditive dell’evento, che si sostanzia anche nell’anticipazione dei tempi di latenza, e che comunque le stesse miravano ad evitare (Corte di Cassazione, IV Sezione Penale, sentenza 988/2003 ed ex multis).

[68]       È sufficiente richiamare il compendio di regole cautelari che parte  dal R.D. 442/1909, che ha definito insalubri le lavorazioni dell’amianto e ne ha fatto divieto di lavorazione alle donne e ai fanciulli, e il contenuto delle norme di cui alla L. 455/1943, che ha riconosciuto l’asbestosi come malattia professionale indennizzabile dall’INAIL, con specifiche norme di carattere preventivo e precauzionale, e poi ancora quelle di cui al DPR 547/55 e 303/56 prescrivevano una serie di cautele da adottare nello svolgimento delle lavorazioni a contatto con polveri, come già ampiamente specificato nei capi che precedono.

[69]       Le malattie professionali asbesto correlate debbono essere ritenute malattie/infortunio (tra le tante, Cass., Sez. I, sentenza n. 11894 del 6 febbraio 2002 ud. – dep. 23 marzo 2002 – imp. Capogrosso e altri – rv. 221072).

[70]         Cass., sez. IV, 22 maggio-24 giugno 2008 n. 25648, Pres. Galbiati – Est. Brichetti – Ric. Ottonello et al.

[71]       Cass., sez. IV, 7 febbraio-20 marzo 2008, n. 12361, p. 3.

[72]       Cass., sez. IV, 22 maggio-24 giugno 2008, n. 25648, p. 5.

[73]       Cass.,sez. IV, 1 ottobre-23 ottobre 2008, n. 39882, Pres. Galbiati – Est. Brichetti, Ric. Z., Dir. e Gius. (online), p. 10 e in precedenza Cass., Sez. IV, 22 novembre 2007-1 febbraio 2008, n. 5117.

[74]       In tali pronunce, l’espressione “conoscenze nomologiche” sembrerebbe indicare il complesso delle leggi causali – dello stesso tipo di quelle necessarie ex post per spiegare il nesso causale – la cui conoscenza è doverosa ex ante per l’agente. L’accertamento della prevedibilità deve essere, quindi, effettuato utilizzando la base nomologica ottenuta con la spiegazione causale, espungendo da questa le sole conoscenze acquisite successivamente al momento in cui è stato commesso il fatto.

[75]       Cass., sez. IV, 22 novembre 2007-1 febbraio 2008, n. 5117, Pres. Morgigni – Est. Piccialli – Rie. Biasotti et al.

           Anche a voler applicare l’orientamento più restrittivo, che tenga quindi conto della concreta capacità dell’agente di uniformarsi alla regola cautelare e della sua efficacia, non di meno sussiste la responsabilità e dunque l’obbligo risarcitorio, in quanto l’utilizzo di materiali alternativi, privi di dannosità per la salute, e l’adozione di tutti gli strumenti di prevenzione tecnica (artt. 4, 19, 20 e 21 del DPR 303 del 1956) e di protezione individuale (artt. 377 e 387 del DPR 547/55), e degli obblighi di prudenza, perizia e diligenza (art. 43 c.p.) e quelli di cui all’art. 2087 c.c., avrebbero avuto concreta possibilità di evitare l’evento, o quantomeno evitato l’anticipazione dei tempi di latenza  della patologia, per cui sussiste l’obbligo di risarcimento anche per i profili di responsabilità aquiliana.

[76]       La Corte di Cassazione chiarisce che, nell’impossibilità di evitare tutte le esposizioni ad amianto, e tenendo conto che non c’è un limite al di sotto del quale il rischio si annulla, il Legislatore ne ha vietato l’utilizzo, con obbligo di risarcire i danni per le precedenti esposizioni (Cassazione, sentenza 20047/2010 ed ex multis).

[77]       Corte di Cassazione, Sez. IV, 20 marzo 2000, n. 3567: «Il datore di lavoro è obbligato a tenere conto delle tecnologie () adottabili nello stesso settore () l’obbligo del datore di lavoro di prevenzione contro gli agenti chimici scatta pur quando le concentrazioni atmosferiche non superino determinati parametri quantitativi, ma risultino comunque tecnologicamente passibili di ulteriori abbattimenti (…)».

[78]       Per un approfondimento cfr. A. Ciriello, Sicurezza e infortuni sul lavoro: responsabilità e danno, in corso di pubblicazione, p. 447 ss.; R. Riverso, Approdi giurisprudenziali in tema di danno iure proprio e iure hereditatis. Aspetti processuali. L’applicabilità del rito del lavoro. Il danno da morte del lavoratore, tanatologico e terminale. Criteri di liquidazione, in G. Moro-R. Tosato (a cura di), Malattie da amianto. Danni alla persona ed esperienze giurisprudenziali, Roma, 2012 p. 131, il quale ribadisce che «il riferimento agli aspetti dinamico relazionali considera i riflessi indotti dalla menomazione della capacità psico-fisica in modo indifferenziato su tutti i soggetti infortunati o tecnopatici; non riguarda invece gli aspetti soggettivi e la personalizzazione del danno che restano affidati alla tutela risarcitoria».

[79]       Come osserva App. Roma (ud. 21 ottobre 2014), cit., il danno biologico nel sistema indennitario concerne la lezione della salute «secondo le ricadute di effetti dinamico-relazionali di un uomo medio».

[80]       La tesi dello scorporo delle poste ai fini della comparazione di titoli risarcitori omogenei costituisce l’esito d’un faticoso. ma consapevole, percorso giurisprudenziale: cfr. A. Ciriello, Sicurezza e infortuni sul lavoro, cit., p. 457 s.; M. D’Oriano, La liquidazione del danno alla persona, cit., p. 23 ss.; C. Parise, Tra previdenza e lavoro: questioni controverse, cit., p. 18 ss. 

[81]       Già in precedenza la Suprema Corte aveva ribadito, con la nota ordinanza della VI sez. civile n. 25618/2018, che “…il criterio corretto è rappresentato da quello “per poste” sottraendo l’indennizzo Inail dal credito risarcitorio solo quando l’uno e l’altro siano destinati a ristorare pregiudizi identici. Corollari di tale modus procedendi sono che: a) se per una voce di danno l’indennizzo Inail eccede il credito civilistico, nulla potrà pretendere per quel danno la vittima dal responsabile; b) se per una voce di danno l’indennizzo Inail eccede il credito civilistico, il responsabile non potrà pretendere che l’eventuale eccedenza sia riportata a defalco di altri crediti risarcitori della vittima (così, ex plurimis, Cass. n. 27669717; Cass. n. 13222/15) Corte di Cassazione -VI sez. civ. – Ordinanza n. 25618 del 15/10/2018”.

[82]       La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 45/2009, precisa che «le conseguenze in tema di riparto degli oneri probatori nella domanda di danno differenziale da infortunio sul lavoro … ed in particolare dalla natura contrattuale della responsabilità, è che esso si pone negli stessi termini che nell’art. 1218 c.c. sull’inadempimento delle obbligazioni».

           La regola dell’esonero era stata già via via erosa dalla giurisprudenza, anche costituzionale, e in ultimo la Corte di Cassazione ha stabilito che «L’esonero del datore di lavoro dalla responsabilità civile per i danni occorsi al lavoratore infortunato e la limitazione dell’azione risarcitoria di quest’ultimo al cosiddetto danno differenziale nel caso di esclusione di detto esonero per la presenza di responsabilità di rilievo penale, a norma dell’art. 10 D.P.R. n. 1124 del 1965 e delle inerenti pronunce della Corte Cost., riguarda l’ambito della copertura assicurativa, cioè il danno patrimoniale collegato alla riduzione della capacità lavorativa generica». Tale esonero, secondo la Corte,non riguarda gli altri danni, che debbono essere tutti risarciti, sia quelli subiti dal lavoratore defunto sia quelli patiti dai suoi familiari: «Invece – in armonia con i principi ricavabili dalle sentenze della Corte cost. n. 356 485 del 1991 e con il conseguente orientamento della giurisprudenza ordinaria sui limiti della surroga dell’assicuratore tale esonero non riguarda il danno alla salute o biologico e il danno morale di cui all’art. 2059 c.c., entrambi di natura non patrimoniale, al cui integrale risarcimento il lavoratore ha diritto ove sussistano i presupposti della relativa responsabilità del datore di lavoro (cfr., ex aliis, Cass. n. 8182/2001 e successive conformi)» (Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, sentenza n. 777/2015 ed ex multis).

[83]       Così, efficacemente, si rinviene in App. Torino, sez. III, 5 ottobre 2009, n. 1315, est. Scotti, in www.dirittoegiustizia.it, 2009, 12.

[84]       Cfr. su questa «reazione naturale» quale componente del danno morale Trib. Roma, sez. XI, 13 luglio 2009, in www.altalex.it, nonché da ultimo Trib. Torino, Sez. distaccata Chivasso, 15 giugno 2011, n. 38, g.u. Vicini, ined., in cui, in un caso di responsabilità medica, si è tenuto distinto dal «dolore nocicettivo della sofferenza fisica per le lesioni e i loro postumi, che coincide con il danno biologico», il dolore «c.d. psicosociale, rappresentato dal senso di inadeguatezza, di rabbia che inevitabilmente prova colui che non è più in grado di condurre una vita normale, soprattutto allorché ciò sia la conseguenza di una ingiusta condotta altrui».

[85]       Questa felice espressione si rinviene in R. Domenici, La quantificazione del dolore, cit., 205.

[86]       Cfr., ancora da ultimo, Cass. civ., Sez. III, 13 maggio 2009, n. 11059, in Resp. civ., 2009, 7, 658, in cui la Suprema Corte, in occasione dell’ennesima sentenza sul disastro ambientale di Seveso, ha affermato la risarcibilità del danno morale occorso a 86 cittadini residenti in prossimità dell’impianto da cui, nel 1976, fuoriuscì una nube tossica composta da diossina. Nello specifico, la Cassazione, asserendo il principio per cui «il danno non patrimoniale consistente nel patema d’animo e nella sofferenza interna ben può essere provato per presunzioni e che la prova per inferenza induttiva non postula che il fatto ignoto da dimostrare sia l’unico riflesso possibile di un fatto noto, essendo sufficiente la rilevante probabilità del determinarsi dell’uno in dipendenza del verificarsi dell’altro secondo criteri di regolarità causale», ha ritenuto che fosse stato correttamente riconosciuto dal giudice del merito il danno morale consistente nel «patema d’animo e nella sofferenza interna», provocati in ciascuna delle vittime dalla «preoccupazione per il proprio stato di salute».ConformeCassazione, Sez. Lav., Sentenza n. 649 del 23 gennaio 1999 (Rv. 522582): «(…) non costituendo la sezione lavoro, nell’ambito della pretura, un diverso organo di giustizia, la questione se una controversia spetti al giudice del lavoro, ovvero ad altro magistrato della stessa pretura, non pone un problema di competenza in senso proprio, ma di distribuzione delle cause all’interno dello stesso ufficio (Cass. nn. 12210/92; 518/92; 11651/91 ed altre). Deve aggiungersi che, ai sensi degli artt. 2 e 3 della legge 1.2.1989, n. 30, come interpretata autenticamente dall’art. 1 della legge 11.7.1989, n. 251, i rapporti tra la pretura circondariale e le sue sezioni periferiche, ai fini della distribuzione delle cause, non pongono problemi di competenza in senso stretto, ma solo problemi di organizzazione interna (conf. Cass. n. 9582/97)».

[87]       Così Cass. civ., Sez. III, ord., 25 febbraio 2008, n . 4712, in Danno e resp., 2008, 5, 553, in Corr. giur., 2008, 5, 621.

[88]       Soltanto con l’art. 14 n. 2 lettera B del Dlgs 277/91 è stato reso obbligatorio il “lavaggio … effettuato dall’impresa in lavanderie appositamente attrezzate, con macchine adibite esclusivamente a questa attività. Il trasporto, sia all’interno che all’esterno dello stabilimento, è effettuato in imballaggi chiusi, opportunamente etichettati”. In precedenza, tale obbligo si ricava dalla norma di chiusura di cui all’art. 2087 c.c..

           In molti casi, i lavoratori esposti, pur avendo già subito un pregiudizio alla salute per effetto dell’inalazione ed ingestione di polveri e fibre di amianto, non hanno ancora contratto una delle classiche patologie asbesto correlate, che hanno tempi di latenza molto lunghi, anche fino a 50 anni, e in molti casi tale esposizione è stata estesa anche ai famigliari, in particolare alle moglie di questi sventurati, colpevoli solamente di aver lavato le tute ai loro mariti e che spesso hanno pagato e purtroppo continueranno a pagare con la vita quello che per loro era un gesto d’amore, e che invece per i datori di lavoro è stato come infliggere una sentenza di morte.

           Anche in assenza di diagnosi di patologia asbesto correlata, in ogni caso il danno già c’è, per la sola esposizione alle polveri di amianto, perché si determina un pregiudizio grave per lesione rilevante del diritto alla salute, ovvero per violazione dell’art. 32 Cost., e quindi con il diritto al risarcimento del danno morale, anche in assenza di prova di una concreta ripercussione esistenziale.

           Per questi motivi, oltre ad essere risarcibile il danno da paura di ammalarsi, ovvero di ammalarsi di più gravi patologie, per quanto riguarda il lavoratore (Cassazione, sezione lavoro, 24217/2017, e nella giurisprudenza di merito Tribunale di Massa Carrara, Sezione lavoro, sentenza n. 212/2013 e sentenza n. 213/2013), debbono essere risarciti di tali danni anche i familiari vittime di esposizione domestica, anche in assenza di insorgenza di patologia asbesto correlata, ovvero di un danno biologico che sia nosologicamente rilevante.

[89]       Pubblicazione dal titolo “Aspirin delays mesothelioma growth by inhibiting HMGB1-mediated tumor progression”, di H Yang,L Pellegrini, A Napolitano, C Giorgi, S Jube1, A Preti, CJ Jennings, F De Marchis, EG Flores, D Larson, I Pagano, M Tanji, A Powers, S Kanodia, G Gaudino, S Pastorino, HI Pass, P Pinton, ME Bianchi and M Carbone, tutti scienziati di fama internazionale, da cui si evince come il processo tumorale ha origine da quello infiammatorio indotto dalle fibre di amianto, sia in riferimento all’insorgenza del mesotelioma che in riferimento all’insorgenza delle altre patologie asbesto correlate tumorali.

[90]       “A Molecular Epidemiology Case Control Study on Pleural Malignant Mesothelioma” a cura di Claudia Bolognesi, Fernanda Martini, Mauro Tognon, Rosa Filiberti, Monica Neri, Emanuela Perrone, Eleonora Landini, Paolo A. Canessa, Gian Paolo Ivaldi, Pietro Betta, Luciano Mutti e Riccardo Puntoni.

[91]       Anche l’aspetto psicologico influisce sulla cancerogenesi. In tal guisa è di tutta evidenza come anche la semplice esposizione, ovvero l’insorgenza di patologie fibrotiche, apparentemente non mortali, costituiscono, comunque, un pregiudizio grave per la vittima e per i familiari.

[92]       Più ampiamente: E. Bonanni “Benefici contributivi per esposizione ad amianto”, Diritto dei lavori, anno IX, n. 2, luglio 2015.

[93]       G. Tagliagambe, Danno biologico e danno morale per esposizione all’amianto (nota a Pret. Torino 10 novembre 1995, Bonelli e altro c. Ferrovie dello Stato), in Riv. crit. dir. lav., 1996, II, 727.

[94]       R.L. Rabin, Esposizione ad amianto e “stress emozionale” per il timore di malattia futura, in Danno e Responsabilità, 1998, II, 757.

[95]       Sotto questo profilo, non vi è dubbio che per questi lavoratori debbono essere risarciti anche i danni da semplice esposizione e tale diritto si estende, in alcuni contesti, anche ad intere comunità, come per esempio per quella di Casale Monferrato, come lo fu con la sentenza del Tribunale Penale di Torino n. 565/2012, confermata in appello e poi però annullata dalla Corte di Cassazione solo per la prescrizione del reato di cui all’art. 434 c.p.. Il danno da esposizione non può che essere quantificato equitativamente, tanto più che costituisce una voce del tutto slegata dal danno biologico, e può essere classificato quale pregiudizio morale e/o esistenziale e soltanto nel caso in cui la lesione psichica diventi patologia può dar vita a un vero e proprio danno biologico (disturbo post-traumatico da stress).

Richard Rogers nel ricordo di Renzo Piano. Gli intellettuali borghesi e il loro impegno per l’umanità futura.

‘Cosa mi resta di lui nel cuore? La consolazione che siamo ciò che abbiamo visto, i libri che abbiamo letto, le persone che abbiamo incontrato. Non saresti nessuno senza le letture, i film, i luoghi visitati, le persone cui hai voluto bene. Richard è una parte di me e questa consapevolezza, in qualche modo, mi consola in questo momento davvero triste.’

Richard Rogers e Renzo Piano hanno collaborato, negli anni Settanta, alla progettazione del Centre Pompidou parigino, il Beaubourg. Erano giovani e aperti al futuro. Inglese, nato a Firenze, alfiere di un’architettura etica, civile e democratica, Rogers ha firmato entre autres il Millennium Dome a Londra, il Palazzo dei Diritti dell’Uomo a Strasburgo, il Museo dell’Arte Islamica a Doha. Ha vinto il Premio Pritzker. Si è raccontato nell’autobiografia, intitolata, non a caso, A Place for All People: Life, Architecture, and the Fair Society (2017). È stato in sintesi un intellettuale borghese, appartenente a quella classe che sola ha agito in nome e per conto dell’umanità.

Annalisa Paradiso

Lo smart Working, la sua evoluzione e la sua strutturazione al tempo del Coronavirus.

  1. Introduzione

Lo Smart Working fino all’arrivo della pandemia era una modalità di lavoro semi sconosciuta, tra le aziende, tra le Pubbliche Amministrazioni, nel mondo del lavoro in generale. La recente emergenza legata al Coronavirus ha ribaltato completamente la prospettiva, rimettendolo sotto la giusta prospettiva e sfruttando la sua principale caratteristica: quella di essere indipendente dal posto in cui si lavora. Questa sua caratteristica ha fatto sì che si potesse continuare a lavorare e ad evitare la diffusione del virus.

Durante questo periodo di crisi, secondo l’Osservatorio del Politecnico di Milano, gli smart worker sono passati da 570.000[1] a oltre 8 milioni[2]. Questo dato è stato recentemente confermato dall’INAPP (Istituto Nazionale per le Analisi delle Politiche Pubbliche)[3] secondo cui oltre 7,2 milioni degli attuali occupati lavorano in Smart Working e di cui il 61% almeno 3 giorni a settimana.

Cercheremo di chiarire in dettaglio cosa significhi lavorare in modalità “Smart”, sia analizzandone la evoluzione normativa della legge sia approfondendo successivamente gli impatti benefici che ha avuto nella gestione del lavoro in piena emergenza Coronavirus. Si vedrà poi di individuare quali saranno le resistenze che bisognerà vincere per far sì che questa modalità di lavoro possa dispiegare i propri benefici sia nei confronti dei lavoratori che delle aziende e della PA.

  • Excursus legislativo

Lo Smart Working è un modello organizzativo in grado di portare notevoli vantaggi alle organizzazioni che lo adottano: in termini di produttività, di raggiungimento degli obiettivi, ma anche in termini di welfare e qualità della vita del lavoratore.

Tuttavia, il concetto di Smart Working resta ancora oggi avvolto in un alone di confusione, sovrapposto a pratiche per certi versi simili come il Telelavoro e il Lavoro da Remoto, ma in realtà molto diverse. Iniziamo con una definizione.

Lo Smart Working, o Lavoro Agile, è una nuova filosofia manageriale fondata sulla restituzione alle persone di flessibilità e autonomia nella scelta degli spazi, degli orari e degli strumenti da utilizzare a fronte di una maggiore responsabilizzazione sui risultati.

Un nuovo approccio al modo di lavorare e collaborare all’interno di un’azienda che si basa su quattro pilastri fondamentali:

  1. revisione della cultura organizzativa
  2. flessibilità rispetto a orari e luoghi di lavoro
  3. dotazione tecnologica
  4. spazi fisici

Lo smart Working è regolato dalla legge N. 81 del 22 Maggio 2017[4]

A livello giuridico, va dunque inteso come modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo scritto tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa.

Altri elementi rilevanti sono:

  1. la parità di trattamento economico e normativo;
  2. il diritto all’apprendimento permanente;
  3. gli aspetti legati alla salute e alla sicurezza.

Su quest’ultimo aspetto i lavoratori che decidono di aderire a un accordo di Smart Working sono tutelati in caso di infortuni e malattie professionali per quelle prestazioni che decidono di effettuare all’esterno dei locali aziendali sia quando si trovano in itinere. Per superare questo vincolo burocratico in fase di emergenza pandemica è stata introdotta la procedura semplificata per l’accesso al lavoro agile, che non prevede di stipulare un accordo scritto con il lavoratore e che si basa esclusivamente sulla modulistica (un template per comunicare l’elenco dei lavoratori coinvolti) e sull’applicativo informatico resi disponibili dal Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali. Tuttavia nel 2022 questo non avviene ancora nel settore pubblico dove torna ad essere necessario un accordo tra le parti. Ricordiamo che nel decreto Legge cosiddetto “Cura Italia” [5] lo Smart working era obbligatorio ove possibile, e prorogato più volte fino al 31 Luglio 2021[6]. Dopo questa ultima data è stata tolta l’obbligatorietà, lasciando però la procedura semplificata fino al 31 Marzo 2022. Con il nuovo Decreto Covid del 17 Marzo viene prolungata la procedura semplificata fino al 30 Giugno, affiancato però dall’estensione della tutela prevista per i lavoratori fragili. La grande novità che darà una svolta alla contrattazione tra le parti quando si uscirà da questa fase ancora emergenziale è il protocollo nazionale dello Smart Working nel Settore privato[7] firmato il 7 Dicembre 2021 tra il Ministero del Lavoro e rappresentanze sindacali. Questo protocollo prevede innanzitutto, che l’adesione allo Smart Working avvenga su base volontaria ed è subordinata alla sottoscrizione di un accordo individuale, fermo restando il diritto di recesso.

In attesa di una nuova legge che ponga rimedio alle approssimazioni e lacune della legge N. 81 del 22 Maggio 2017, questo protocollo fornisce tutti gli strumenti necessari per una regolamentazione strutturata dello Smart Working nella contrattazione di secondo livello.

  • Lo Smart Working nella PA

Per quanto riguarda l’applicazione nella PA, questa legge ha avuto una evoluzione con la riforma Madia[8] che introduceva il tema dello Smart Working. Tuttavia nella PA non ha avuto quel salto dimensionale che ci si aspettava per due motivi.

Una prima motivazione è che la norma introdotta, benché sufficientemente chiara dal punto di vista degli obblighi e delle scadenze, non prevedeva specifiche risorse e misure di accompagnamento a disposizione né tanto meno sanzioni in caso di mancato rispetto dei termini.

Una seconda motivazione, ancora più profonda, risiede nel fatto che l’innovazione organizzativa non può essere imposta per decreto come purtroppo nel settore pubblico si tende a pensare: le difficoltà incontrate mettono in evidenza come, per rendere possibile un vero passaggio allo SW nella PA, occorra cambiare prospettiva e non vedere e presentare questa iniziativa solo come un mero adempimento normativo, ma come un cambiamento culturale che deve passare da un coinvolgimento dei lavoratori e, soprattutto, da un’adesione vera ai nuovi principi organizzativi da parte del management della PA.

Questo perché una visione “legalista” (o formalistica), oltre a contrastare con lo spirito stesso dello SW, limita molto la portata dei progetti portando gli enti pubblici meno convinti a fare il minimo indispensabile e non consentendo all’organizzazione di cogliere le reali opportunità che il cambiamento permetterebbe di ottenere. Per fare questo, occorre che ciascuna PA sia stimolata ad interpretare lo Smart Working in base alle proprie esigenze e caratteristiche, come un’opportunità di trasformazione della cultura dell’ente e di innovazione del modello di servizio al cittadino, facendo tesoro di altre esperienze già presenti nel comparto pubblico.

  • Lo Smart Working nelle Imprese

Come abbiamo potuto vedere negli ultimi due anni, grazie alla pandemia, c’è stata una forte accelerazione, anche legislativa, dello Smart Working. Si sta passando da un approccio al lavoro “di nicchia” a una forma di lavoro globalmente strutturato soprattutto grazie al protocollo nazionale dello Smart Working nel Settore privato[9] e agli incentivi legati alla digitalizzazione delle industrie soprattutto delle PMI.

Per le grandi imprese la sfida dei prossimi anni sarà quella di far superare allo Smart Working lo status di “progetto” o iniziativa specifica, per rendere tale approccio il nuovo modo di lavorare, introducendo nuovi e più profondi sistemi di engagement. Ovvero bisogna riuscire a coinvolgere i lavoratori non soltanto nel “come” realizzare un lavoro ma anche nel “cosa” bisogna fare e “perché” farlo nell’interesse dell’impresa e delle sue esigenze e finalità.

  • Conclusioni

Ovviamente la crisi conseguente al Coronavirus ha accelerato il processo ma i problemi legati alla sua introduzione sistematica nelle aziende è ancora sul tavolo.

Occorre sottolineare ancora una volta che quello che organizzazioni e persone stanno vivendo non è il “vero” Smart Working, ma un lavoro da remoto forzato ed estremo, che porta con sé anche alcune criticità tipiche del telelavoro: senso di isolamento, difficoltà a disconnettersi e a mantenere un equilibrio tra vita privata e professionale.

Pur al netto di questa inevitabile “forzatura”, organizzazioni e persone hanno compiuto in questi due anni un percorso di apprendimento e crescita di consapevolezza che, in condizioni “normali”, avrebbe richiesto molti più anni! Molte persone stanno imparando ad utilizzare strumenti di collaborazione innovativi, a relazionarsi e coordinarsi efficacemente in team dispersi, a mantenere relazioni informali positive attraverso una molteplicità di strumenti digitali. Molti manager e lavoratori, un tempo scettici nei confronti dell’applicazione dello Smart Working, si sono resi conto di quante attività, che avevano sempre assunto richiedessero la presenza in ufficio, possano essere fatte da remoto attraverso strumenti digitali, con una efficacia pari o superiore e con risparmio di tempi ed energie (anche fisiche) prima insospettabili.

Tuttavia il problema più grande che bisognerà risolvere per rendere maturo lo Smart Working, è ripensare tutta l’organizzazione del lavoro in una ottica “result oriented”.

Per applicare lo Smart Working nelle aziende bisogna agire sulle leve seguenti:

  1. rendere più flessibili gli spazi e gli orari di lavoro;
  2. ripensare gli ambienti della sede di lavoro;
  3. sviluppare nuovi strumenti e competenze digitali;
  4. dotarsi della tecnologia adeguata per lavorare da remoto;
  5. diffondere modelli manageriali basati su autonomia, consapevolezza e responsabilità dei lavoratori;
  6. diffondere cultura orientata ai risultati.

I primi 4 punti non sono mai un problema per una grande impresa e comunque sono stati normati con il protocollo nazionale dello Smart Working nel Settore privato. Inoltre, per chi si trovasse in difficoltà con la dotazione tecnologica, attingendo ai fondi del PNRR[10] sarà possibile recuperare il gap. I problemi risiedono nei punti 5 e 6 che riguardano diffusamente sia il mondo industriale, grande e piccolo, e sia la PA e sono direttamente legati alla qualità del management e al coinvolgimento partecipato, nelle scelte organizzative dell’area e/o settore e in quelle più ampie, strategiche dell’azienda privata o nella branca specifica della PA dei lavoratori. Per questi ultimi, l’obiettivo del lavoro agile non deve essere solo quello di una maggiore flessibilità, ma piuttosto quello di un pieno coinvolgimento dei soggetti interessati.

Per quanto riguarda il management, questo risente pesantemente dell’inaridimento culturale progressivo degli ultimi vent’anni. Una volta i grandi gruppi industriali, Telecom, Eni, Enel avevano le scuole di formazione dei loro quadri dirigenti dove venivano istruiti alle migliori pratiche gestionali. Ora queste scuole non esistono più e i risultati si vedono. Spesso i manager vivono all’interno dei loro fogli Excel completamente staccati dal processo produttivo e dove i loro obiettivi annuali, a cui sono spesso legati lauti premi in denaro, consistono nel far lavorare i loro team per un certo numero di ore. Quindi sono molto spesso rapporti di lavoro basati sull’autorità piuttosto che sull’autorevolezza. Non di rado i clienti instaurano direttamente rapporti fiduciari con i lavoratori che stanno, per così dire, “sul pezzo”, così spesso l’inadeguatezza del management traspare in maniera evidente anche ai clienti finali.

In questa situazione, la legge 81 del 2017 è risultata “visionaria” circa lo smart working, con un’encomiabile ed ottimistica lettura del mondo industriale, ipotizzando quello che il mondo industriale dovrà diventare perché il progresso legato alla digitalizzazione è inarrestabile e inevitabile. È un po’ quello che è successo con lo Statuto dei lavoratori del 1970 che aveva codificato la maturazione dei diritti dei lavoratori e la aveva imposta per legge. Ora la differenza tra la legge 300 del ‘70 e la legge 81 del 2017 è che la seconda ha costruito un cappello normativo a chi vuole adottare lo Smart Working evitando fughe in avanti e distorsioni mentre la prima ha riconosciuto dei diritti sacrosanti di tutti i lavoratori che fino a quel punto erano stati alla mercé dei datori (privati e, un po’ meno, pubblici) cambiando radicalmente la vita dei lavoratori nelle fabbriche e negli uffici. Detto così sembrerebbe che la legge sullo Smart Working abbia una forza legislativa minore. In realtà non è così perché il legislatore ha capito, prima della gran parte degli industriali, che la spinta produttiva di moltissimi lavoratori potrebbe aumentare, migliorando al tempo stesso per loro la conciliazione tempo vita-tempo lavoro. È, a parere non solo mio, una intuizione eccellente perché prefigura quello che solitamente si dovrebbe fare nelle industrie che lavorano con beni immateriali, quelli che una volta si chiamavano lavori di concetto, e cioè il gioco di squadra. Il gioco di squadra migliora il rendimento. È un modo di gestire aziende private ed Enti della PA che consente di avere un lavoro finale che è più grande della sommatoria dei singoli lavori svolti dai singoli lavoratori. Chi ha avuto la fortuna di provarlo sa di cosa si sta parlando. Questi due anni di “palestra” hanno dimostrato la validità di quella intuizione legislativa e le aziende più “illuminate” hanno deciso di non tornare più indietro rispetto a questa nuova modalità di lavoro.

Tuttavia ne restano ancora tante di organizzazioni private e pubbliche che hanno delle ingiustificate riserve verso lo Smart Working, legate soprattutto alla loro arretratezza culturale e non ad oggettivi motivi ostativi.

Ecco perché in questo quadro normativo, il tema del controllo da parte delle imprese sul lavoratore in modalità agile, perde la sua forza, perché questa modalità si fonda sulla fiducia reciproca che nessuna legge potrà mai regolare fino in fondo. Lo Smart Working o è su base fiduciaria, o non è.

A tutto questo si oppongono tutte le forze conservatrici che misurano il lavoro “da quanto tempo tieni le gambe sotto la scrivania”. A costoro interessa avere i lavoratori tutti nell’ovile. La presenza fisica dei lavoratori è il certificato di esistenza in vita di questo management, ancorato ai vecchi schemi e che vedono, in un vetusto e piatto modello fordista delle imprese, l’unico modello possibile. Molti di loro gestiscono i permessi e poco più. Se si dovesse diffondere lo Smart Working, questi manager si troverebbero in difficoltà per far capire la loro esistenza lavorativa. In conclusione credo che i lavoratori, sia pubblici che privati, devono faticare non poco a far sì che si imponga questo nuovo modello di lavoro, in tutte le situazioni dove questo è possibile. In questo senso il Coronavirus ha dato il suo contributo perché ha costretto molte aziende, “obtorto collo”, ad applicarlo ma solo in ottica di riduzione del danno non certo perché convinti della bontà del modello. Ora, a crisi in via di esaurimento, molti passi avanti si sono fatti. Resta forse la parte più complessa: il pieno e consapevole endorsement da parte dell’industria e della PA.

Pasquale Maiorano


[1] https://www.digital4.biz/hr/smart-working/osservatorio-smart-working-2019/  Mariano Corso Docente di Leadership & Innovation del Politecnico di Milano e Responsabile Scientifico di P4I-Partners4Innovation

[2]https://www.ilsole24ore.com/art/lavoro-cgil-8-milioni-italiani-smart-working-epidemia-covid-19-AD7aAMR

[3] https://www.inapp.org/it/inapp-comunica/sala-stampa/comunicati-stampa/oltre-72-milioni-di-occupati-lavorano-da-remoto

[4]https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2017/06/13/17G00096/sg

[5] https://www.ticonsiglio.com/wp-content/uploads/2021/08/decreto-legge-17-marzo-2020-n-18.pdf

[6] https://www.ticonsiglio.com/wp-content/uploads/2021/04/decreto-legge-52-del-22-aprile-2021.pdf

[7] https://www.ticonsiglio.com/wp-content/uploads/2021/12/protocollo-nazionale-lavoro-agile-7-12-21.pdf

[8]http://www.funzionepubblica.gov.it/articolo/dipartimento/01-06-2017/direttiva-n-3-del-2017-materia-di-lavoro-agile

[9] https://www.ticonsiglio.com/wp-content/uploads/2021/12/protocollo-nazionale-lavoro-agile-7-12-21.pdf

[10] https://www.industriaitaliana.it/mise-pnrr-digitalizzazione-transizione-4-0/

In Flanders fields, the poppies blow Between the crosses, row on row – in memoria dei “militi ignoti” di tutte le guerre

I versi, famosissimi, di John McCrae rievocano la terribile battaglia di Passchendaele (la terza battaglia di Ypres), combattuta nelle Fiandre tra il luglio e il novembre 1917, tra i Britannici e i loro alleati e l’Impero tedesco. Il cimitero di guerra britannico aduna 1600 lapidi di soldati non identificati. Militi ignoti. Ma Rudyard Kipling scelse per l’epigrafe il biblico, e struggente, Known unto God, ‘noto a Dio’.

Nelle settimane che precedono la celebrazione del Remembrance Day, soldati e veterani della Royal British Legion offrono papaveri rossi di carta che si appuntano sulla giacca. Qualcuno però aggiunge o sostituisce al fiore rosso un papavero bianco, simbolo di pace.

We shall not sleep, though poppies grow

                       In Flanders fields

Annalisa Paradiso

ANALISI DEL LAVORO IRREGOLARE IN AGRICOLTURA

  1. Premessa

Il comparto agricolo è sempre stato ritenuto uno dei settori dove, per una serie di concause, si sviluppa maggiormente lavoro irregolare caratterizzato spesso dal proliferarsi del turpe fenomeno del caporalato che fino ad oggi non si è riusciti a debellare definitivamente. Oltretutto l’incidenza della presenza di manodopera straniera abbinata ad una disciplina da rivedere per accedere all’indennità di disoccupazione agricola alimentano in modo chiaro l’impiego di lavoratori irregolari nel comparto agricolo.    

  • Le cause del lavoro agricolo irregolare

Si definisce lavoro irregolare svolto nel comparto agricolo quel rapporto lavorativo, che non rispetta né parzialmente, né totalmente, il complesso normativo che disciplina e regola il lavoro nel Paese risultando privo dell’opportuna tutela che, invece, viene concessa al lavoro agricolo regolare. L’accezione “irregolare” rappresenta una definizione abbastanza comune, usata anche in altri settori, per indicare l’assenza di registrazioni legali, come quella ufficiale, dei pagamenti delle imposte e dei contributi necessari per la previdenza sociale. La peculiarità di questa accezione trova la sua intrinseca natura proprio nella forma non dichiarata alle pubbliche autorità[1], e di conseguenza ignota al complesso amministrativo che provoca un perfetto accostamento tra mancanza di dichiarazione e mancanza di tutela a sostegno del lavoratore. Il fenomeno del lavoro agricolo irregolare continua a costituire un punto cruciale che interessa il comparto giuridico quanto quello economico-sociale, e che, proprio per ciò, deve essere affrontato considerando le due principali cause che fanno da sfondo a tale tematica. La prima causa può essere imputata ad un repentino mutamento evolutivo del mercato del lavoro, caratterizzato, in passato, da evidenti connotati pubblicisti, soprattutto per quello che riguardava la genesi delle condizioni lavorative, e, in seguito, da una forte propensione alla flessibilità lavorativa, all’atipicità dei contratti e alla liberalizzazione dello stesso mercato. In questo modo si è assottigliata ancor più la linea di confine tra lavoro regolare e irregolare[2]. La seconda causa è imputabile ai nefasti effetti della crisi economica che hanno portato verso scelte organizzative tendenti alla riduzione dei costi, delle tasse e del lavoro, radicando ulteriormente il problema.

Questo intreccio, inevitabilmente, ha portato ad uno scompenso di natura socio-economica, permettendo ai soggetti del mercato del lavoro agricolo di attuare alcune scelte, da un lato dettate dal profitto, dall’altro dettate dalla disperazione, creando delle tipologie abbastanza differenti.

Purtroppo in Italia, ma purtroppo anche nel resto d’Europa, il costo del lavoro nel suo complesso risulta decisamente alto, per cui i datori di lavoro tendono a ridurre al minimo, tali spese, visto che la mancata dichiarazione del lavoratore rappresenta una tentazione appetibile sul piano economico.

Il lavoratore, dal canto suo, accetta, senza resistenza alcuna, ogni opportunità lavorativa, seppure mal retribuita e a condizioni precarie, perché spinto dalla necessità di guadagnare quel che basta per la sussistenza di sé e di un’eventuale famiglia. Elementi come la natura stagionale delle mansioni lavorative, l’ampia presenza della manodopera a basso costo causata soprattutto dal continuo flusso di immigrazione clandestina, e l’accesso facilitato ad ammortizzatori sociali, come la disoccupazione agricola[3]spettante dopo cinquantuno giorni lavorativi, validamente certificati, sono le cause che favoriscono il lavoro irregolare nel settore agricolo.

Inoltre da una analisi del fenomeno nel comparto agricolo si evince facilmente come  le situazioni appena enunciate siano divenute cause che inevitabilmente hanno portato il datore di lavoro agricolo  a far ricorso all’irregolarità, radicandosi nella trama settoriale del comparto agricolo[4].

  • L’origine e gli effetti del lavoro agricolo irregolare

Il lavoro irregolare nell’ambito del comparto agricolo ha, alle sue spalle, una storia davvero lunga, radicata nelle differenti culture locali d’Italia. I mezzi d’informazione, difatti, hanno iniziato a trattare tale questione durante gli anni settanta, ma con scarso interesse, per poi focalizzare nuovamente l’attenzione verso i primi anni del duemila, in seguito ad alcuni gravi fatti di cronaca. Tutto ciò ha avuto come conseguenza una mobilitazione, seppur in ritardo, di sindacati e movimenti a tutela delle fasce più deboli. Occorre, però, fare una piccola premessa storica che possa chiarire, il panorama che ha fatto da sfondo, fin dai suoi primordi, al movimento del caporalato. Stando a diversi resoconti storici, questo sistema di reclutamento della manodopera si è sviluppato, più o meno allo stesso modo, in gran parte del territorio italiano nel momento in cui si è avuto un graduale passaggio dall’agricoltura di sussistenza ad una di proporzioni maggiori, dettata da esigenze del mercato agricolo pretenziose. 

A partire dal seicento-settecento vi furono le prime migrazioni stagionali interne al territorio italiano, dove erano presenti figure simili a quella dell’attuale caporale che avevano come compito quello di convogliare la forza lavoro per poi metterla a disposizione dei latifondisti. Nella prima metà dell’ottocento, con una progressiva crescita dei centri agricoli, si ebbe una rivoluzione socio-economica che diede vita all’agricoltura dei capitali. Fu in questo periodo che si svilupparono figure che acquisirono un ruolo quasi simile a quello dell’attuale caporale, differente dall’antico fattore, chiamato spesso “massaro”[5]  a cui venivano affidati, dai proprietari terrieri, compiti di amministrazione dei diversi lavori, affinché lo svolgimento degli stessi venisse correttamente svolto.

Spostandoci nel tempo, a partire dalla fine degli anni sessanta, iniziò a prendere forma il percorso riguardante l’attuale caporale.  Il caporale nasce come un ex bracciante con delle capacità superiori nella norma, dotato di uno spirito di intraprendenza abbastanza deciso, che solitamente ha avuto modo di lavorare in contesti extranazionali, acquisendo una maggiore esperienza sul campo. Dapprima, come ex braccianti, i caporali, coi soldi risparmiati, acquistavano mezzi di trasporto capienti, atti al trasporto sul luogo di lavoro, e offrivano passaggi agli altri lavoratori in cambio di una modesta somma di denaro, un investimento in una forma sempre più consolidata. La messa a profitto del mezzo di trasporto fu la prima tappa che segnò l’avvento dell’odierno caporalato. Verso i primi anni ottanta soggetti terzi al mondo agricolo, spesso legati alla criminalità locale, iniziarono ad intravedere la possibilità di trarre profitti dall’attività di trasporto e, in seguito, da quella di intermediazione. Inizia, in questo periodo, l’era del caporalato duro, ove si ricorre alla violenza e si stipano braccianti in automezzi come animali, in una precaria condizione igienico-sanitaria. Invece l’evoluzione, in ogni caso, ha continuato il suo progresso, arrivando a creare una sorta di “omologazione” apparentemente regolare, in cui i caporali, mediante l’utilizzo di veri e propri autobus, si impegnano a trasportare i braccianti per conto di “cooperative” agricole di mera facciata che sostengono di aver regolarmente assunto i lavoratori. Questa nuova forma di caporalato è sospinta da una tendenza all’elusione delle normative, che permette, dunque, di poter facilmente aggirare i controlli delle autorità. In modo particolare l’assenza di norme riguardanti la sicurezza sul posto di lavoro nei campi sembra essere totalmente assente.

Nel mondo del lavoro agricolo ogni soggetto dovrebbe lavorare con le adeguate protezioni, ovviamente standardizzate per il tipo di mansione svolta, invece spesso essendoci una totale illegalità, l’uso delle protezioni è assente, e di conseguenza abbiamo la diffusione della malasanità che non si ferma soltanto sul posto di lavoro, ma continua il suo tragitto anche nei luoghi in cui i lavoratori, in questo caso quasi sempre extracomunitari, soggiornano. La figura di riferimento principale, in questo caso, è quella del caporale, che rappresenta un elemento di intermediazione tra le imprese agricole e i lavoratori. Al caporale spetta il compito di organizzare una manovalanza qualificata, a seconda delle richieste dell’imprenditore agricolo, attraverso un sistema di reclutamento laddove lo stesso prende una percentuale sul salario dei braccianti. Alle prime luci dell’alba, i caporali si recano nei punti di “raccolta”, e caricano sui pulmini tutti i braccianti, trasportandoli direttamente sul luogo di lavoro, dove finiscono con occuparsi della stessa organizzazione direttiva e di controllo, stabilendo ritmi e orari lavorativi, spesso con l’uso dell’intimidazione e della violenza per ottenere efficienza ed efficacia in modo tempestivo[6].

Il caporale, a sua volta, lavora per un’impresa utilizzatrice di natura fittizia, che solitamente non è collegata all’imprenditore agricolo per evitare problemi di natura legale, e che si occupa della sua retribuzione. I braccianti, invece, vengono direttamente retribuiti dal caporale che, attraverso l’uso di tangenti, specula sull’ammontare totale. Proprio per questo, dunque, dobbiamo pensare all’intermediazione tra braccianti e imprenditori come a un qualcosa di dinamico ed eterogeneo, che assume caratteri e connotati differenti, mutevoli nel tempo e nello spazio, e che per questo necessita di approfonditi interventi “chirurgici”, atti a debellare, modo definito, l’illegalità del mondo agricolo[7].

4.  Indagine conoscitiva sul lavoro agricolo irregolare in Italia

Esaminando i dati resi noti negli ultimi anni dall’Istat, sul piano economico nazionale, il comparto agricolo risulta essere tra i settori in cui vi è il più alto tasso d’irregolarità nei rapporti di lavoro con un incremento della presenza nei campi, da parte dei lavoratori sfruttati, che, a quanto pare, ha raggiunto la cifra di 430.000, di cui 100.000 risultano essere stranieri. Stando inoltre ai dati che emergono dal focus Censis, reso noto durante l’assemblea della cooperazione agroalimentare e della pesca del 2019, in agricoltura la quota del sommerso ha raggiunto il 16,9% ed è cresciuta nel periodo tra il 2014-2017 di 0,5%.[8]  

La criminalità organizzata, ovviamente, specula sullo sfruttamento della manodopera a basso costo che rappresenta una fonte di economia illegale che si aggira tra i 14 e i 17 miliardi. In modo particolare è stato quantificato un danno contributivo dovuto all’evasione pari a 420.000.000 di euro l’anno, a cui va aggiunta quella quota di reddito, pari al circa il 50% della retribuzione spettante, per contratto nazionale, al lavoratore, che viene prelevata dal caporale.

Questi dati emergono dalla ricerca condotta da Flai-CGIL[9] che ha interessato ben quattordici regioni, e sessantacinque province, col solo intento di individuare i flussi di manodopera stagionale e i focolai delle aree in cui lo sfruttamento del lavoro sembra essere più presente. Sono stati controllati oltre ottanta focolai di rischio, di cui trentasei caratterizzati da un tasso di sfruttamento della manodopera davvero alto, dal nord al sud, perché il caporalato risulta essere diffuso su tutto il territorio nazionale.

Oltre le regioni del sud Italia, ossia Basilicata, Calabria, Campania, Puglia e Sicilia, v’è stato un boom del fenomeno al centro nord, con particolare riguardo per l’Emilia Romagna, il Piemonte, la Lombardia, la Toscana, il Veneto e il Lazio.

I lavoratori agricoli, vittime del caporalato, percepiscono, approssimativamente, una somma di denaro che si aggira tra i venticinque e i trenta euro per un corrispettivo di dieci o dodici ore di lavoro, pari ad appena due euro per ogni ora trascorsa a lavorare. A tale paga, però, devono essere sottratte quelle che potremmo definire come le “tangenti” giornaliere che consistono in: cinque euro adoperate per il semplice trasporto sul luogo di lavoro, tre euro e cinquanta per il pasto, un euro e cinquanta per ogni bottiglia d’acqua consumata.

Pur essendo aumentate le ispezioni del 59% soltanto nel 2015, considerando i dati forniti dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali riguardanti tutti gli interventi, attuati dalle autorità preposte alla vigilanza all’interno del comparto agricolo, risulta che sono state effettuate più di 8.700 ispezioni all’interno delle imprese agricole, e in questo modo s’è riscontrato un tasso d’irregolarità molto alto. Nonostante ciò il sommerso economico, così come il lavoro nero e irregolare, ha raggiunto livelli di criticità che potremmo definire endemica per quel che riguarda il contesto agricolo italiano. Le indagini[10] che sono state condotte in passato, precisamente nel 2012, danno un quadro abbastanza chiaro da cui emerge come il fenomeno del caporalato, non abbia avuto difficoltà ad aggirare le azioni apportate dagli interventi governativi posti in essere nel corso degli anni. Infatti i risultati ottenuti dalle autorità ispettive, durante i mesi di luglio e agosto del 2012, si è potuto stabilire che il 60,47 % delle imprese agricole versava in uno stato di totale irregolarità.

Sempre dallo stesso controllo, inoltre, è scaturita una situazione riguardante i lavoratori, con una percentuale del 17% di lavoratori irregolari, una del 13% per i lavoratori in nero, di cui il 31% fa totale riferimento all’impiego di manodopera straniera. L’agricoltura, quindi, risulta essere il settore in cui il mercato del lavoro è quasi totalmente nelle mani dei caporali, che col passaparola delle reti prettamente informali riescono ad acquisire manodopera a basso costo, considerando che questo comparto è, infatti, interessato da un’elevata diffusione di seconde attività che vengono prestate marginalmente, in modo occasionale e nella più totale irregolarità lavorativa. Già dal 2011, si aveva a che fare con una cifra che ruotava attorno ai 2.938.000 lavoratori irregolari che erano appunto impiegati nel comparto agricolo, tra cui vi erano circa 2.301.000 lavoratori dipendenti, e 640.000 lavoratori autonomi.

Da tali dati è emerso come il comparto agricolo risulti essere il settore con la maggiore incidenza di lavoratori irregolari, considerando che tale comparto fa denotare una crescita preoccupante del tasso di irregolarità tenendo in considerazione un’indagine conoscitiva arco temporale che parte dal 1999, pari al 22,6%, arrivando al 2016, con un tasso del 26,5%. L’irregolarità del rapporto di lavoro in agricoltura scaturisce dal carattere stagionale dell’attività agricola, che necessita dell’ampio utilizzo della manodopera giornaliera, essendo il prodotto agricolo tendenzialmente caratterizzato da una deperibilità abbastanza celere. Ovviamente l’irregolarità viene manifestata in due modi: attraverso il lavoro nero ed attraverso quello fittizio. Nel primo troviamo un lavoro che viene effettivamente svolto, ma che non viene dichiarato per aggirare il pagamento dei contributi sociali e per sfuggire al prelievo fiscale effettuato dallo Stato. Nel secondo, invece, troviamo un lavoro che non è mai stato effettivamente svolto, ma viene dichiarato per poter beneficiare, mediante iscrizione negli elenchi agricoli, dei sussidi e dei trasferimenti pubblici che possono essere di varia natura.

  • La presenza dei lavoratori stranieri all’interno del mercato del lavoro agricolo italiano

Considerando l’indagine[11] effettuata dall’INEA sull’impiego dei lavoratori immigrati all’interno del comparto agricolo italiani, si è riusciti ad ottenere un quadro abbastanza chiaro con delle situazioni che risultano essere molto interessanti.

Riferendosi all’incremento del fenomeno migratorio che continua a perdurare dandoci una stima che già nel 2012, si aggirava attorno alle 36.000 unità con un numero complessivo di stranieri occupati all’interno delle zone rurali italiane che è pari a 269.000. Al continuo incremento finiscono col contribuire i lavoratori extracomunitari, 143.620 in tutta la loro totalità (quindi con un incremento del 13%, considerando un prospetto del 2011) e i lavoratori comunitari, che invece hanno un incremento pari al 18%. Cercando di interpretare tale fenomeno con circoscrizioni territoriali, emerge che nel nord Italia vi è stata una vera e propria concentrazione di stranieri[12], con una totalità di 110.000 persone, seguita dal sud Italia che conta la presenza di 85.000 lavoratori stranieri. Per quello che concerne il centro Italia e le isole, invece, abbiamo dei risultati decisamente più delimitati, dove troviamo 42.000 e 29.000 lavoratori, con la Sardegna che ha un suo bilancio in attivo per il minor numero di lavoratori stranieri, e la Sicilia, invece, che vede un incremento spropositato di 20.000 stranieri rispetto al passato. Il ricorso ai lavoratori stranieri ha una sua relazione con le scelte degli imprenditori agricoli italiani, perché, visto che tale situazione continua a perdurare nel tempo, si può asserire che l’aumento della produzione agricola intensiva, affinché si possano rispettare i termini del mercato ortofrutticolo, porti ad una necessità di manodopera economica in quantità superiori.

In questo modo, dunque, si è avuta una radicale trasformazione delle aziende agricole italiane che, in passato, avevano sempre fatto affidamento sulla manodopera di tipo familiare, mediante le collaborazioni occasionali o familiari, e che adesso iniziano ad investire su quella non familiare, con particolare tendenza al sud e al nord Italia, fatta eccezione per la Sardegna, ove ancora è dominante la presenza di manodopera familiare caratterizzata dall’impiego di lavoratori stranieri. Per tutti i lavoratori provenienti dai Paesi comunitari, in sostanza, può dirsi che l’aumento verificatosi è strettamente legato sia alle relazioni consolidatesi, col passar del tempo, tra i sistemi datoriali e la manodopera, con un’impressionante facilità di mobilitazione delle persone che avviene grazie alla totale mancanza delle barriere nell’Unione Europea.

I lavorati extracomunitari, d’altronde, sono praticamente occupati nelle coltivazioni arboree e nella filiera della zootecnia, con un ridotto utilizzo della loro manodopera nelle colture industriali e nel florovivaismo, anche se risulta essere in crescita il numero dei lavoratori extracomunitari coinvolti sia all’interno delle aziende agrituristiche che nel processo di trasformazione e commercializzazione dei prodotti agricoli. Invece i lavoratori comunitari sono impiegati per lo più nelle attività da ricollegare alle colture arboree, in particolar modo in Trentino e in Puglia, affinché si possa effettuare la raccolta dei fruttiferi e dell’uva da tavola. La stagionalità dei rapporti di lavoro, come sempre, viene confermata, con una propensione all’aumento nelle regioni meridionali e nelle isole italiane. Per quel che riguarda l’aspetto contrattuale, per il 71,8% dei casi presi in esame, si hanno dei rapporti di lavoro regolari, però c’è da dire che sono molto presenti le situazioni in cui vi è la regolarità meramente parziale, in cui assistiamo a delle dichiarazioni nettamente inferiori di tutte le giornate di lavoro effettuate, oppure di ore di lavoro che sono state fatte svolgere in più, a discapito di quelle previste dal contratto di lavoro. La maggior parte della legalità caratterizzante i rapporti di lavoro è concentrata nel centro-nord, ricordando di segnalare la Calabria, in passato caratterizzata da stime di irregolarità del tutto vicine al 90%, che in seguito ha potuto intraprendere un cambiamento positivo di tutta la situazione, con fenomeni di irregolarità lavorativa che non hanno superato la soglia del 50%. Per quello che concerne l’aspetto retributivo, abbiamo una situazione, su tutto il territorio nazionale, che risulta essere davvero frammentata, visto che in regioni come la Puglia e la Calabria la maggior parte di tutti i lavoratori extracomunitari finiscono col ricevere un salario nettamente inferiore a quello che, di norma, dovrebbe spettare. Nonostante i lavoratori comunitari abbiano delle caratteristiche abbastanza similari a quelle dei lavoratori extracomunitari, s’è avuto un incremento dei rapporti di lavoro legati alla stagionalità (si pensi all’incremento del 90%) causato dalla prevalenza di impiego durante l’attività di raccolta.

Con i lavoratori comunitari, infatti, il livello d’irregolarità contrattuale, per quel che fa riferimento all’attività lavorativa, risulta essere decisamente più contenuto (23%) grazie all’assenza della clandestinità e grazie alla consapevolezza, da parte di questi lavoratori, dei propri diritti. Si pensi che, negli anni, s’è avuta una sempre più massiccia presenza di cittadini provenienti dalla Romania, all’interno del territorio nazionale, che ha aumentato il numero della componente di lavoratori comunitari agricoli stranieri, riuscendo perfino a superare la famosa componente nord africana, che pur avendo sempre dei numeri alti, è stata sorpassata da quella proveniente dall’est europeo.  Infine occorre evidenziare l’assenza di specifiche misure organiche, sull’intero territorio nazionale, riguardo il fenomeno migratorio per il comparto agricolo. Tutto ciò comporta metodiche d’assunzione che non riescono a facilitare il rispetto delle normative e la differenza che viene a crearsi fra le condizioni di vita nelle zone in cui vi è un’enorme propensione migratoria, rispetto ad altre in cui la propensione è decisamente ridotta.

ABSTRACT

L’autore ha effettuato in maniera esaustiva una analisi del fenomeno relativo al lavoro irregolare in agricoltura partendo dalle cause che sono all’origine di tale fenomeno e gli effetti che hanno prodotto nell’ambito del mercato del lavoro agricolo italiano. Infine è stato anche analizzata l’importanza della presenza di lavoratori stranieri, comunitari ed extracomunitari, nell’ambito del mercato del lavoro italiano riferito al comparto agricolo   


[1]Comunicazione della Commissione Europea sul Lavoro Non Dichiarato, 98-219

[2]Salvatore Dovere, Antonio Salvato, Lavoro <<nero>> e irregolare. Percorsi giurisprudenziali, Giuffrè, 2011

[3] Art. 8, 2° comma, della legge 12 Marzo 1968 n. 334

[4]Pietro Alò,  Il caporalato nella tarda modernità,Wip Edizioni, 2010

[5] Sono palesi due principali differenze tra il massaro e il caporale. Il massaro offriva servizi indispensabili per conto dell’azienda. L’attuale caporale offre un servizio all’azienda, ma senza esserne dipendente.

[6]P. RAUSEI, Intermediazione illecita con sfruttamento della manodopera, in DPL, 2011, 34, 1990.

[7]Vecchi e nuovi mediatori. Storia, geografia ed etnografia del caporalato in agricoltura, Domenico Perrotta, rivista Meridiana, 2014

[8] Redazione Ansa Roma 30 ottobre 2019 10:11

[9] CGIL-FLAI, Terzo Rapporto Agromafie e Caporalato, Osservatorio Placido Rizzotto, 2016

[10] Indagini fornite da Eurispes.

[11] Manuela Cicerchia, Indagine sull’impiego degli immigrati in agricoltura in Italia, Istituto Nazionale di Economia Agraria, 2014

[12] Cecilia Manzi, Elena Catanese, Roberto Gismondi, L’evoluzione delle aziende agricole in Italia: evidenze dall’indagine SPA 2013, Dati Istat, 2015

La felicità alla fine dei tempi – lavoro “umano” e medicina “solidale” di Gino Strada.

‘Ormai solo in una sala operatoria riesco ad essere felice’.

Queste parole di Gino Strada – un soliloquio crepuscolare – disvelano un tratto autobiografico certo intenzionale e romantico. Ma non solo. Socchiudono l’uscio alla riflessione intima sull’autenticità della vita, quando si decide di non vivere più le vite dettate o ispirate da altri. Racchiudono la sintesi estrema di ciò per cui vale la pena di esistere, nata nel cuore di un uomo maturo e non più sensibile al denaro e agli orpelli mondani. Suggeriscono il valore fondante del lavoro per la dignità umana. E restituiscono il ricordo di un uomo a tratti impolitico, un medico di generosità suprema, abnegazione e altissimo senso dell’impegno umanitario. C’è ancora felicità alla fine dei tempi e molta abbraccia il lavoro.

Annalisa Paradiso

IL CENTRO STUDI E LA SUA RIVISTA

LA RIPRESA DOPO UNA TRAGICA PANDEMIA ED UNA GUERRA

(TRAGEDIA O FARSA BIPOLARE CON RICADUTA INTERNAZIONALE?)

LE RAGIONI DI UN AMPLIAMENTO DI ORIZZONTI E TEMI

Cari Lettori, Amici e Soci del Centro,

dopo oltre un anno di sospensione del lavoro e delle attività del Centro Studi di Diritto dei Lavori, dell’Ambiente e della Sicurezza e, come vedremo più avanti, di altre branche del lavoro umano, anche le più nuove e lontane, con questo Editoriale potremo riprendere il filo del discorso con il classico e lapidario Esergo dei classici latini: Heri dicebamus.

IL CONTESTO

Per ritessere la tela strappata così a lungo, per varie ragioni, si riporta, in stralcio, quanto scritto nell’Editoriale del primo numero di questa Rivista, a metà del 2007 per esporre, in sintesi, contenuti e prospettive di questo faticoso ma, per noi, stimolante e vitale tentativo di coinvolgimento di intelletti e coscienze su questo tema universale: il lavoro.

Chi siamo? Perché questa Rivista? Attorno a chi scrive, da molti anni ormai, liberamente, pur se in stretto ma non “clientelare” contatto con l’Università Barese, un gruppo di cultori, della parola, avvocati, giovani ricercatori liberi, magistrati, funzionari pubblici (Ministeri del Welfare, della Giustizia, altre Amministrazioni pubbliche) discutono, scrivono, partecipano a convegni, pubblicano, su supporto cartaceo, contributi su tematiche del nuovo e più ampio Diritto del Lavoro, quello “dei lavori” come ormai, da oltre un decennio, con felice formula si sintetizza tutta la problematica connessa ad ogni forma di espressione regolamentata del lavoro nella società moderna….. La scelta della rivista on line è quasi ovvia anzi, forse, necessitata: se è vero, come è vero, che la stampa quotidiana e periodica Nord Americana e Nord Europea, in questi ultimi mesi, a partire dalla fine dello scorso gennaio 2007, ha intonato il suo de profundis, dando per scontato che nei prossimi 10 – 12 anni i supporti cartacei dell’informazione resteranno veri e propri ruderi e insieme prodotti da “proteggere” come memoria storica, a fronte della diffusione generalizzata dell’informazione, dello studio e della ricerca sempre più esclusivamente on line, allora la nostra scelta non poteva essere diversa.”

Quindici anni hanno confermato le “ragioni di una presenza” oggi su queste tematiche, sempre più pressanti nella società capitalistica, giunta ad un bivio pericoloso e difficile con canoni rapidamente modificati dall’assetto geo-politico-economico del Pianeta ad Occidente come, soprattutto, nel frastagliato Oriente. Non a caso nell’ultimo Editoriale del numero cartaceo dell’aprile 2020, scrivevamo: “Quest’anno, con la sua improvvisa apparizione, già nei primi giorni di febbraio, una nube sembra diffondersi e svilupparsi su tutti i cieli dei Paesi, dalla Corea al Giappone, dalla lontana Cina fino a giungere in Europa, in Italia in particolare, e fino alle lontane Americhe, quella di un’epidemia che sembrerebbe assumere addirittura la forma pandemica. Così passano in second’ordine i gravi problemi che affliggono inesorabilmente tutto il mondo, se non affrontati immediatamente: il pauroso disastro ambientale, insieme alla crescente, amara ed indegna, sempre più grave contrapposizione fra grandissimi (pochi) ricchi ed immense folle di indigenti, con le conseguenti incontrollabili migrazioni, diventano solo occasioni di convegni di studio e, peggio, valido terreno di coltura per operazioni politiche e giri di valzer di piccolo cabotaggio.”

I due richiami ai precedenti Editoriali permettono di aprire una parentesi che potrà servire da sfondo e riferimento per quanto in seguito affronteremo nel presentare contenuti nuovi e strumenti conoscitivi, il meno possibile viziati e deviati da un’informazione scritta, oggi, sempre più, “pilotata”, da messaggi deviati e fake news, da trattare con attenzione e confermato senso di responsabilità. Questo, per poter riprendere con impegno e passione ad occuparci del Centro e della Rivista, in modo approfondito come stiamo cercando di fare con questo Editoriale, a fronte di un biennio di grandi, ed anche tragiche, novità, caratterizzate dal momento storico e dagli assetti globali, economici e sociali, interni ed internazionali, che appaiono travolti funditus dalla guerra in Ucraina.

In un’intervista apparsa, qualche settimana fa, su di un organo di stampa nazionale nel nostro Paese, il linguista e politologo Noam Chomsky, guru dei democratici radical-marxisti statunitensi, ha offerto una dura, ma incontestabile, chiave di lettura dell’attuale conflitto di cui è difficile vedere la conclusione, ed impossibile determinare i devastanti effetti economici e sociali, specie per i Paesi più deboli e più poveri. La sentenza è chiara: “Mosca è decaduta, Washington è in decadenza”. Tranchant, ma incontestabile. Al grande politologo statunitense – (e sarebbe ora di usare debitamente e correttamente questo termine al posto dell’abusato e scorretto aggettivo “americano” molto più vasto ed onnicomprensivo, concernendo oltre 500 milioni di anime, tutti gli “americani” delle tre Americhe, Nord, Centro e Sud, dai canadesi ai messicani, dai boliviani o venezuelani agli argentini, ai cileni e agli oltre 200 milioni di brasiliani…) – sfugge solo che il terzo soggetto determinante negli equilibri internazionali è la Cina, non certo interessata, almeno per ora, a questo sanguinoso autodafé tra due potenze, sempre più del passato, e restie o incapaci di rinnovarsi nei valori, ormai solo di ispirazione capitalistica, nelle istituzioni e nella gestione della politica di potere in campo internazionale.

Nell’intervista a Chomsky viene proposto un parallelo, invero stimolante – nell’inquadrare e leggere il conflitto russo-statunitense, con la guerra che per secoli vide contrapposti l’Impero Romano all’Impero Persiano… Allora come ora! L’ex Impero Russo, storicamente improbabile e pertanto improponibile, consuma ora le sue energie, in una pseudo guerra artatamente alimentata attraverso un… interposto dittatorello ucraino, da un altro, il reale avversario, gli Stati Uniti, ormai ex-Impero che vede ridotta la sua leadership mondiale, svuotati gli antichi valori di democrazia capitalistica con un sempre più ridotto spazio nella gestione della finanza mondiale. Una guerra… verso lo sfinimento. Nel primo caso, romani contro persiani, l’equilibrio si spezzò con la vittoria dei Romani, ma in realtà l’unico risultato storicamente rilevante fu la grande diffusione dell’Islamismo, terzo grande e fresco protagonista sulla scena mondiale, col tracollo dei due contendenti ormai esangui. Proseguendo nell’analogia, potrà comprendersi perché la Cina non è oggi impegnata, in prima persona, in attesa com’è, restando seduta sul fiume… della storia, aspettando che passino e finiscano… nel mare degli eventi, i due ex grandi imperi.

Questo “contesto” – ha determinato l’implosione e la modifica di modi di produrre, di generare profitto, di piegare al consenso, più o meno drogato, volontà di interi stati e popolazioni: non poteva, questo contesto, che condizionare anche il respiro, il ruolo ed i contenuti di Centri e Riviste nate, come la nostra, per studiare e vivere i cambiamenti epocali.

Il nostro pensiero, nello sforzo di raccogliere il contributo di intelletti e culture sempre meno lontane, va all’esigenza di quanto suggeritoci da grandi intellettuali dei quali, con il dovuto interesse, si celebra il centenario della nascita in quest’anno di pandemie e guerre. Pierpaolo Pasolini, un intellettuale “luterano” ed insieme “clerico vagante” di una cultura italiana del Secondo Novecento, nella “Lettera luterana” ad Italo Calvino, pubblicata su “Il Mondo” del 30 ottobre 1975, il giorno prima della sua morte e ripubblicata postuma nel 1976 nel volume Lettere Luterane, concludeva, more solito profeticamente, una dolente ed amara analisi su funzioni e ruoli degli intellettuali: “Oggi pare che solo platonici intellettuali…magari privi di informazioni ma certamente privi di interessi e complicità, abbiano qualche probabilità di intuire il senso di ciò che sta veramente succedendo: naturalmente però a patto che tale loro intuire venga tradotto – letteralmente tradotto – da scienziati anch’essi platonici, nei termini dell’unica scienza la cui realtà è oggettivamente certa come quella della Natura, cioè l’Economia Politica”.

Il riferimento all’oggettività dell’Economia (scritta con la maiuscola significativamente come chiave di lettura oggettiva della vita degli uomini) appare, specialmente oggi un po’ “platonico”. Era, per il grande e controverso scrittore, un tentativo di cercare una interpretazione “vera”, o almeno credibile, della realtà in quegli anni, allora come ora, complessa e ricca di contraddizioni. Allora gli intellettuali cercavano, imbevuti ed arricchiti dai valori della Resistenza, riversati poi nella Costituzione repubblicana, di interpretare il decennio precedente, quello forse più vivo e fertile dopo metà degli anni ’60 ed i primi anni dei ’70, che avevano portato l’Italia a collocarsi nei primi posti di un capitalismo, venato di istanze neo-liberali, quando non socialiste e, comunque, democratiche.[1]

Allora, come ora. In realtà, riallargando il quadro e le conseguenti valutazioni, può ben dirsi che gli equilibri all’interno del sistema capitalistico “democratico” – con molte crepe sempre più evidenti da un lato, autocratico dall’altro, se non plutocratico e, nel caso del “continente” Cina, neo-comunista, con regime burocratico – hanno arricchito e confuso uno scenario che, dal grande politologo statunitense Chomsky, è stato fotografato e “congelato”, con riferimento solo alla fine dello scorso secolo. Lo svolgimento dell’ultimo ventennio, invece, ci porta oggi a cercare di ricostruire ruolo, compiti e capacità di nuotare nel mare magnum, molto agitato dell’oggi, così da ricostruire, giustificando e insieme superando, la trahison de clers che Julien Benda attribuì ai “chierici”, intellettuali negli Anni ‘27-’30, durante e appena prima dell’infame degenerazione fascista e nazista nel nostro Continente. E noi, con il nostro Centro e con la nostra Rivista, appresa la lezione ed attualizzatala, non vorremmo essere i “chierici traditori” del terzo millennio, passivamente ed acriticamente trascinati dal fiume della Storia.

DAL CONTESTO ALLA RIVISTA ED AI COMPITI DEL CENTRO RINNOVATO

Dal quadro molto articolato ed incerto, nelle tinte e nei contenuti sopra esposti, si è cercato di ricavare alcune guidelines che hanno permesso di selezionare e proporre i primi fra i molti ed interessanti contributi pervenuti in questo biennio alla Redazione, anch’essa rinnovata, ed al Comitato Scientifico, profondamente modificato ed arricchito di nuove Firme, non solo legate al Diritto del Lavoro, ma più aperte alla cultura umanistica e scientifica, nonché a mondi, oggi sempre più ampi ed interessanti, per il lavoro umano e le prospettive del nuovo homo faber.

In sintonia e cercando di inserirci con coerenza nel “contesto” precedente, nonché per giustificare i mutamenti e la rigenerazione del Centro e della Rivista, il numero si apre, con il saggio sull’impresa, più specificamente l’impresa industriale, all’interno della quale si assiste alla progressiva “erosione” dei diritti della parte più debole nel rapporto di lavoro subordinato. Il saggio, ci viene offerto da Nicola De Marinis, antico collaboratore del Centro e della Rivista, un tempo valido accademico, oggi impegnato Magistrato tra gli “ermellini” della Cassazione, ricostruisce il difficile equilibrio fra poteri e diritti contrapposti tra datore di lavoro e lavoratore, anch’esso sempre più mutevole nel suo ruolo ed attività. Il lavoro è rigorosamente scritto con arricchimenti di dottrine e giurisprudenza, secondo i “canoni” dei contributi scientifici nel campo umanistico e del diritto del lavoro stricto sensu.

Segue un secondo saggio, anch’esso impostato secondo i canoni della scientificità per una Rivista come la nostra, che insieme però cerca la nuova strada più onnicomprensiva, quella dell’analisi dei lavori, più esplicitamente e dolorosamente impostato sugli effetti dello squilibrio sopra accennato, e cioè sulla “ingiusta prevalenza”, che affronta il noto e grave tema dell’amianto (o asbesto), fibra usata nell’industria per secoli, con la tolleranza e la copertura, comunque nel silenzio di scienza, dottrina e giurisprudenza, fino a qualche decennio addietro. L’Autore è l’Avv. Ezio Bonanni, anch’egli già collaboratore impegnato nel Centro e nella Rivista, nonché presidente dell’ONA, il grande Osservatorio sull’amianto: l’A. presenta un articolato lavoro anche con riferimenti storici e nel contesto internazionale, completato ed arricchito da una nota dell’Avv. Emanuela Sborgia, penalista e lavorista.

Segue un terzo tema, un saggio sullo smart-working. È la punta di un iceberg che si scioglie, quello di un lavoro nuovo, impropriamente e parzialmente, nella nostra lingua tradotto come “lavoro a distanza” ma, in realtà, più ampiamente definibile come lavoro “ibrido”, nel quale dipendenti e “datori di lavoro” trovano soluzioni, nella prestazione lavorativa, che conciliano sempre più il loro spazio lavorativo e di vita con quello personale. Il contributo è offerto da Pasquale Maiorano, Ingegnere Informatico, dirigente sindacale ed attualmente fra gli impegnati collaboratori della nuova Redazione, in una lettura che sempre più allarga il suo spazio in questa rivoluzione post-industriale ancora tutta da definire ed inquadrare.

Quasi per un contrappasso dantesco, si è ritenuto di proporre, a fronte dello smart-working, un saggio, breve ma provocatorio, sul lavoro “primario” dell’uomo, il lavoro nell’agricoltura, più esattamente sulla patologia dello stesso. Giulio D’Imperio, docente universitario e libero professionista impegnato, analizza cause ed effetti di questa piaga che turba gli equilibri economici e sociali nel Mezzogiorno del nostro Paese. Il tema è sempre più attuale anche per emigrazioni dovute, sempre più, a grandi tensioni e guerre, come nel caso odierno per l’Europa orientale, con ricadute tutte da approfondire sugli equilibri economico-sociali e soprattutto sui – estremamente e incontrollati, ma pur necessari – riassetti demografici in paesi in crisi istituzionali.

Infine, a completamento e giustificazione delle nuove aperture del Centro e della Rivista, si presenta un lavoro sui nuovi confini nella cura fisica dell’uomo, la medicina nel campo accademico e, soprattutto, nell’organizzazione e gestione delle prestazioni medico-sanitarie a supporto dell’assistenza medica. Antonio Esposito, docente universitario ed attivo operatore ed esponente della Società Scientifica AITIC, offre, nel suo breve ed articolato contributo, il quadro di una figura tipica di Tecnico Sanitario in un laboratorio biomedico, proponendo l’occasione di “aprire gli occhi” sulla fioritura e lo sviluppo di nuove professioni, funzionali alla nuova realtà di vita, di relazioni e di lavoro dell’uomo, particolarmente e, per antonomasia, nel campo della sanità.

CONCLUSIONI

In conclusione della presentazione del primo numero della Rivista, di cui si auspica la ripresa periodica non più interrotta da eventi cui resisti non potest, abbiamo voluto cogliere l’occasione per ampliare ulteriormente i nostri orizzonti di lavoro e di interesse. Da oggi il nostro Centro Studi – accogliendo un invito ed insieme una ripresa alla collaborazione antica tra lo scrivente e gli operatori del mondo dello sport, nel quale ormai girano interessi, persone, nuove professionalità e, soprattutto, decine, centinaia di milioni di euro, con la sua punta di diamante il calcio – dagli operatori tecnici o amministratori agli agonisti, sempre più “professionisti” e pertanto legati da contratti di vario tipo, e servizi funzionali alla sua vita e allo sviluppo – ha chiesto di approfittare della nostra tribuna per approfondire, discutendo norme e regolamenti, analizzando giudicati di organismi giurisdizionali o amministrativi sui temi di questa realtà, con una partecipazione anche diretta. Trattandosi di un mondo in rapido sviluppo, con enormi e non ancora ben delimitati spazi economici per il nostro e per tutti gli altri Paesi, Europei e non, il Centro Studi  ha accettato l’offerta, inserendo anche nel Comitato Scientifico e nella Redazione della Rivista, due esponenti di primissimo piano, per rappresentatività e spessore culturale, del mondo del calcio, preannunciando dei prossimi contributi nonché una selezione di giurisprudenza e/o documenti ufficiali della Giustizia e degli Organi amministrativi decisionali federali  del calcio professionistico.

Per ora, grazie alla AIC (Associazione Italiana Calciatori) e al nostro redattore Mario Assennato che ha collaborato attivamente a questa apertura ad un mondo del lavoro, meglio “dei lavori”, sempre più ampia e stimolante, in attesa delle pubblicazioni ad esso concernenti.

Last, but not least, ecco alcune novità che, per scelta di ampliamento di orizzonti di conoscenza sempre più necessari, caratterizzeranno, l’ ”albero del lavoro”, ragione e motivo della nostra scelta.

La nostra Rivista ha scelto la strada dell’ampiamento anche nel Comitato Scientifico, nonché nel Centro Studi a studiosi del campo umanistico lato sensu, per rafforzarla ed innovarla profondamente, sia nella scelta degli argomenti, sia nei contributi dedicati agli stessi, con iniziative o saggi, nello sforzo di offrire sempre qualcosa che possa avere il crisma della “verità”. Così si giustifica la collaborazione di Annalisa Paradiso, antichista, studiosa cosmopolita, ora componente del rinnovato Comitato Scientifico e della nostra Rivista, che, con i suoi primi “asterischi” (o “stelloncini”, come anche possono definirsi), offre brevi flash illuminanti. Questi, operano uno “stacco” tra uno e altro argomento degli articoli, cercando di inculcare attimi di riflessione, magari alleggerendo l’altrimenti forse gravoso peso dei saggi proposti in questo numero.

Sia permesso, tra gli “asterischi”, segnalarne uno che, ricordando la figura di Gino Strada, anche come generosa e politicamente, a suo modo impegnata, appare l’espressione dell’intellettuale che spende le sue energie nell’unica vera “guerra”, senza armi, combattuta per quei valori solidali, universali, base ed espressione della solidarietà umana, oggi rilanciata dal Soglio di Pietro, con l’inascoltata voce di Papa Francesco. Il tutto con il respiro della cultura dei secoli addietro.

Altre collaborazioni, di questo tipo e di questa valenza sono già in arrivo ed il nostro Centro e la nostra Rivista ne trarranno beneficio, insieme con tutti i Soci, i lettori ed i collaboratori, nel virtuoso ed arricchente scambio tra conoscenze, problemi e proposte e la più ampia cultura umanistica che rilegge funditus le ragioni del passato, gli errori e gli insegnamenti nella storia del nostro Occidente.

Una postilla. La scelta di allargare, sin da oggi, il nostro interesse ai problemi ed alla cultura, anche quella amministrativa, si concretizza con l’ingresso nel Comitato Scientifico di un alto esponente della Direzione Generale dell’Inps. Non è un ingresso formale, ma culturale, quello che verrà espresso dalla collaborazione della Dott.ssa Maria Sciarrino, alla quale, augurando buon lavoro, chiediamo, timidamente ma molto caldamente, una concreta collaborazione editoriale.

De hoc satis: ed era ora, state per dire voi cari lettori.

Ma, per noi e per tutti i nostri collaboratori, è solo una doverosa ripresa per un: avanti, ad maiora!

 Gaetano Veneto


[1] Queste considerazioni venivano anticipate nell’Editoriale del novembre 2020 (Anno XIV n.2) di questa Rivista.

Venti anni di AITIC: impegno e riflessioni sulla Formazione e Ruolo del TSLB in Italia e la sua evoluzione in un Sistema globale.

AITIC è l’Associazione Tecnico Scientifica, fondata nel 2002 e riconosciuta dal Ministero della Salute con Determina 0047944 -P- 23/09/2021, che si occupa di Informazione e Formazione specifica per la figura di Tecnico Sanitario di Laboratorio Biomedico (TSLB) operante nelle Strutture di Anatomia Patologica.

AITIC si è sempre distinta, in questi 20 anni di attività, sia nella Qualità della Formazione ECM sia Universitaria; In ambito di ECM il XVIII Congresso Nazionale e gli innumerevoli Corsi territoriali ne sono la testimonianza mentre il contributo al miglioramento continuo del Sistema Universitario è stato possibile attraverso sia la Convenzione con il Dipartimento di Scienze Mediche, Orali e Biotecnologiche dell’Ateneo “G. d’Annunzio” di Chieti-Pescara sia con i propri Associati che ricoprono Funzioni, in diversi Corsi di Studio (CdS) in Tecniche di Laboratorio Biomedico (TeLaB), di Direttori Didattici Professionalizzanti (DAD), di Docenti a Contratto e di Tutor.

Da diversi anni, nel contesto del SSN, si sta assistendo ad una significativa evoluzione delle componenti organizzativo-assistenziali a cui si associa la costante e profonda evoluzione scientifica e tecnologica applicabile nella Medicina di Laboratorio.
Il generarsi con forza di nuove esigenze rende peculiare, pertanto, la costante trasformazione del Ruolo professionale dato dal “Sapere, Saper fare e Saper essere” delle 22 Professioni Sanitarie e, nel caso specifico, del TSLB.

La ridefinizione degli ambiti, con modalità multi professionale, presuppone che alle Competenze e Responsabilità acquisite dal TSLB nel percorso formativo “di base” facciano seguito, anche, specifiche esigenze formative “post base” nell’Ambito dell’AP e nel rispetto della Normativa vigente.

In tale contesto si rende necessario, quindi, definire competenze “distintive” della Professione che in tal modo possano garantire un giusto “value” ai Processi di Cura ed Assistenza.
I nuovi Processi, pertanto, hanno sempre di più bisogno di un esercizio professionale flessibile, dinamico ed integrato che renda necessario sia l’innovazione dei rapporti fra le diverse professionalità sia la riorganizzazione dei processi produttivi del SSN attraverso la ridefinizione “in progress” di spazi ed attività “integrative-specialistiche” al fine di garantire sostenibilità, equità, appropriatezza, efficacia ed efficienza.
Per attuare quanto evidenziato risulta necessaria, dunque, ripensare l’integrazione/definizione delle Competenze del TSLB, attraverso la Formazione (sia di base sia post base), nel rispetto dei requisiti definiti a livello europeo e nazionale, quali, ad esempio:

  1. indirizzi generali enunciati nel Patto della Salute;
  2. Accordo Stato-Regioni con i relativi indirizzi per la gestione del Sistema Salute e Sviluppo Professionale;
  3. implementazione di modelli organizzativi della Medicina di Laboratorio basati sul Sistema Hub&Spoke;
  4. revisione delle Convenzioni fra Università e Regioni per l’attivazione dei Corsi di Studio (CdS) di base e post base;
  5. Linee Guida (L. n° 24/2017) necessarie al Piano Sanitario Nazionale, ai Piani Sanitari e Socio Sanitari Regionali;
  6. definizione dell’accesso alle Scuole di Specializzazione;
  7. Regolamenti per la collaborazione tra le Associazioni Scientifiche (AS) e le Associazioni Tecnico Scientifiche (ATS) per la stesura delle Linee Guida (LG);
  8. operatività della Legge 190/2015 – comma 566 – che pone le basi per intervenire su ruoli, funzioni e modalità operative dei Professionisti Sanitari con relativa integrazione del DM; 745/94 (Profilo Professionale);
  9. individuazione e ruolo dei TSLB nei Percorsi Diagnostico Terapeutico Assistenziali (PDTA);
  10. definizione/uniformità delle Competenze da svilupparsi nei Percorsi di Studio di base in aderenza agli standard europei ed internazionali (Processo di Bologna);
  11. il PNRR (nelle Missioni 4 e 6) in cui “Prossimità, Innovazione e Formazione” sono alcuni dei principali temi che guideranno la grande stagione di investimenti.

Diviene fondamentale, quindi:

 che il Sistema-Paese orienti azioni programmatiche e piani di studio che valorizzino i concetti precedentemente illustrati;

 che i Ministeri della Salute e dell’Università e Ricerca, in condivisione con le Regioni, producano atti e strumenti di “pianificazione, attuazione e valutazione” dell’impatto Formativo sia sulla Salute dei Cittadini sia nel rispetto delle specifiche competenze professionali.
Di non secondaria importanza la necessità di orientare il Professionista TSLB verso l’Accreditamento Professionale, sui diversi indirizzi di carriera, basato dalla certificazione delle Competenze (Dossier formativo individuale e/o di gruppo). Tale Sistema di certificazione da attivare a livello di ogni Regione al fine di garantire coerenza tra lo sviluppo del Sistema salute e la capacità del/i Professionista/i di rispondere in termini di “performance” adeguate.
Dal 2006, anno di emanazione della L. 43, abbiamo assistito ad una offerta formativa universitaria “di base” abbastanza uniforme (anche grazie all’applicazione progressiva della L. 270/2004) ma “post base” totalmente “free” e non “appetibile” ai Professionisti in quanto carente della dovuta valorizzazione, professionale/economica, da riconoscere nelle singole realtà lavorative.
La “quadratura del cerchio” è finalmente avvenuta (ma “forse” nell’applicazione) con la sigla del CCNL del Comparto Sanità – Periodo 2016 – 2018 in cui, con Art. 14 e seguenti – Definizione degli incarichi di funzione -, sono stati istituiti, nei ruoli sanitario, tecnico, amministrativo e professionale, le seguenti tipologie:

  •   di posizione;
  •   di funzione organizzativa;
  •   di funzione professionale. con la relativa introduzione delle figure di “Professionista specialista” e di “Professionista esperto”. Il 21/12/2018 il MIUR deliberava la Proposta dell’Osservatorio delle PS dei 90 Master Specialistici dove non veniva presa in considerazione alcuna specializzazione nell’Ambito della Anatomia Patologica (AP); ne deriva, di fatto, la necessità di definire ed integrare, al più presto, le tipologie di Master necessarie a garantire la migliore Qualità assistenziale specifica. Aspetto sul quale si è concentrata la nostra attenzione da anni e la relativa proposta è stata ufficializzata e discussa durante l’ultimo Congresso Nazionale Virtuale SIAPeC (Società Italiana di Anatomia Patologica e Citologia), il 17-23 Novembre 2021, su Ambiti/Formazione/Competenze del Tecnico Specialista di Citologia, di Sala Settoria e di Campionamento (Pathology Assistant – PathA). La relativa Proposta, pertanto, vagliata dai rispettivi Direttivi potrà essere inviata ai Ministeri di competenza per l’opportuna valutazione e deliberazione. Una ulteriore necessità riguarda la rapida diffusione delle nuove tecnologie digitali legate al progresso scientifico (esempio: LIS e Telepatologia) che ci obbliga a considerare una “trasversale” figura specialista in grado di raccogliere e codificare dati, strutturati e non strutturati, prodotti dalle attività della Medicina di Laboratorio. La più semplice risoluzione possibile potrebbe essere ricondurre, tale Specialista, nella Area “Master interprofessionali – TSLB e TSRM – Informatica ed Amministratore di Sistema” oggi prevista per i soli Tecnici di Radiologia Medica (TSRM).
AMBITODENOMINAZIONEFORMAZIONEPERCORSO DIDATTICOABILITÀ/OBIETTIVI
Anatomia PatologicaSpecialistica in:
Scienze Tecniche Diagnostiche di Pathologists’ Assistant – PathA
Master I° Livello120 CFUScienze Tecniche e di Management: in collaborazione con il Patologo per:
Riconoscere, descrivere e campionare; Management del Laboratorio di istopatologia
Citodiagnostica e Screening di PopolazioneSpecialistica in:
Scienze Tecniche Diagnostiche di Citologia e Screening di Popolazione
60 CFUScienze Tecniche e di Management:
-Lettura di preparati citologici di triage -Management degli Screening di popolazione
Sala Settoria e Medicina LegaleSpecialistica in:
Scienze Tecniche Diagnostiche Autoptiche e Forensi
60 CFUScienze Tecniche e di Management:
-Assistenza al Patologo e/o Medico Legale -Management dell’evento decesso
-Management della Sala Settoria -Management Biobanca in ambito Medico Legale e Forense -Esperto nei confronti del Giudice o delle Parti (CTU)

L’esperienza maturata ha consentito ad AITIC, pertanto, di evidenziare le criticità che il Sistema Formativo dei TSLB rileva, sia in Ambito dell’UE sia nazionale, in una visione necessariamente globale.

Ambito UE:

 Nonostante l’Italia sia stata uno dei primissimi Paesi UE ad adattare il proprio Sistema universitario al sistema delineato nel Processo di Bologna (1999-2001):

o ritardi applicativi dell’ Accordo della Sorbona, del 25 Maggio 1998, inerente “L’armonizzazione dell’architettura dei sistemi di istruzione superiore in Europa” da parte dei Ministri competenti che, di fatto, rendono estremamente difficoltoso la mobilità degli Studenti e dei Docenti e l’uniformità degli Ordinamenti Didattici dei Cicli formativi.

o difformità delle terminologie dei Titoli al termine dei Cicli:

  •   primo ciclo:
    •   Dottore in ….. (ITA)
    •   Bachelor (UK)
    •   Grado (ESP)
    •   Diplôme (FRA)
  •   secondo ciclo:
    •   Denominato Master (Tutti);
    •   Lauree Specialistiche/Magistrali (ITA);
  •   terzo ciclo:
     “Ph. D.” – Doctor (Tutti);

 Dottorato di Ricerca (ITA)

o Classificazione in Master universitari di primo/secondo livello (ITA). Ambito ITA:

  •   Assenza della Scuola di Specializzazione professionale;
  •   Assenza di Docenti universitari TSLB (MED 46) nel Sistema formativo delle PS dove solamente il 12% dei Docenti appartengono alle Professioni (56/457 in totale MED45-50 ed un “deprimente” 0/171 nel MED46);
  •   “Simpatica” rivoluzione del “Decreto n° 1154, del 14/10/2021 (MIUR) – Autovalutazione, Valutazione, Accreditamento iniziale e periodico delle Sedi e dei Corsi di Studio, con il successivo (correttivo) DR n° 2711, del 22/11/2021, per “riconoscere” il nostro ruolo di Docenti (ovvero requisito di “Accreditamento”, per il numero di Docenti universitari dei MED45-50, da 5 ad 1!!!);
  •   Colpevole ignoranza dell’importanza della messa a disposizione del Personale del SSN, con funzioni di DAD, Docenti e di Tutor, nella quantità adeguata al numero di studenti per garantire l’efficacia e l’efficienza dei CCdS?;
  •   Assenza di Linee Guida nazionali, condivise con le Regioni e con gli Organismi Rappresentativi dell’Università, per rendere omogenee le Regole di coinvolgimento delle singole AO/ASL in termini di partecipazione alla sostenibilità dei CdS delle PS?;
  •   Convenzioni a pochi “Professori a Contratto” del SSN con l’Incarico da Bando “a titolo gratuito” per le Università e, se sei in una realtà “fortunata”, percepisci € 25,82, lordi, ad ora di lezione dall’ ASL/SSRegionale.
  •   con l’incarico di Tutor, forse, una “una tantum” annuale; Ambito Professionale:
  •   Percorso Accademico come attività lavorativa ignorato dalla Professione;
  •   Scarsa propensione alla Ricerca;
  •   Assenza di Progetti finalizzati e finanziati dell’Ordine;

Ambito del PRNN:

Confidiamo sia il “vaccino” per curare la pandemia italica da “scarsa Cultura per il Futuro”, in un Paese dove “la Formazione non è investimento ma spesa” e “Con la Cultura non si mangia”;
La Missione 4 ci permetta di ridefinire, concretamente, i Percorsi di Formazione al cui centro sia realmente l’interesse del Cittadino;

La Missione 6 ci permetta di istituire un processo di “ reale” valutazione delle Competenze necessarie per essere efficaci ed efficienti;

Ambito Globale:

 Progettare e realizzare un Polo formativo globale (Accademia della Conoscenza) con il contributo di Università, Servizi Sanitari ed Industrie Private al fine di uniformare la Formazione e condividere le Conoscenze:

o Cosa: Global vocational training;
o Perché: Shared knowledge;
o Dove: University;
o Chi: Docenti universitari e Professionisti;
o Dove: Global education hub (Public and Private); o Quando: Longlife learning.

L’ultima riflessione non può che riguardare la domanda inerente la Figura Professionale dell’attuale TSLB così come “individuato” dal DM 745/1994. Ha ancora senso formare il solo TSLB ad indirizzo SSN (Pubblico e Privato) visto che siamo immersi in una Medicina delle quattro “P”: personalizzata, preventiva, predittiva e partecipativa ?

Attualmente nel Macro Sistema “Scienze della Vita” (Pubblico e Privato) operano Professionisti formati con Percorsi diversi (esempio: TSLB, Biotecnologi, Biologo Junior, ecc..), si potrebbe, pertanto, ipotizzare un nuovo Professionista con nuova denominazione, Formazione di base comune e diverse specializzazioni dell’Area Preventiva&Predittiva derivanti da necessità attuali e future?

Vedremo…..
Il prossimo futuro ci prospetta la necessità, quindi, di dover accelerare il Processo di modernizzazione del Sistema Paese con reale inclusione nel Sistema Globale ed il PNRR costituirà il più ingente pacchetto di misure di stimolo mai finanziato in Europa.
Tra gli attori necessari ci sarà anche AITIC con la propria esperienza e suggerimenti.

Bibliografia:

  •   http://www.uniroma1.it/didattica/master/citopatologia-diagnostica-e-screening-di popolazione
  •   Notiziario dell’Istituto Superiore di Sanità (Volume 10 n° 12 del dicembre 1997)
  •   Gruppo di lavoro per definire il Test di Competenza dei CT (E. McCoogan – A. de Bellis) G.U. n° 127 del 1 gennaio 1996
  •   Branca M. Screening del cancro della cervice uterina: guida pratica per i docenti. Progetto Leonardo da Vinci – Cytotrain,ISS 2003;16(4)
  •   Manuale strutturato in 37 lezioni, gli argomenti trattati ricalcano le LG per la formazione approvate dai membri della Federazione Europea delle Società di Citologia nel 1994
  •   Anic V. Eide L. Survey of training and education of cytotechnologists in Europe. Cytopathology 2014, 25, 302- 306
  •   https://italiadomani.gov.it/it/home.html
  •   Esposito A. Riflessioni sull’ipotesi di nuove Competenze ed applicazioni contrattuali del Tecnico Sanitario di Laboratorio Biomedico (TSLB). Quotidiano Sanità 02 luglio 2018. https://www.quotidianosanita.it/abruzzo/articolo.php?articolo_id=63453
  •   Atti Convegno ECM Il Tecnico del terzo millennio: cosa è cambiato alla luce delle moderne biotecnologie. 24- 25 settembre 2021, Napoli, Italy
  •   DM MIUR. Master Specialistici, 17 dicembre 2018
  •   Esposito A. SIAPeC-AITIC: esempio di sinergismo nel SSN. Atti del XXVIII° Congresso Nazionale in Tecniche di Laboratorio Biomedico. AITIC 25-27 ottobre 2021, Padova, Italy
  •   Dichiarazione della Sorbona. Parigi 25/05/1998 http://www.miur.it/0002univer/0052cooper/0064accord/0335docume/1381dichiacf2.htm
  •   Esposito A. Cronaca di una morte annunciata (Ovvero….. del TSLB “Specialista in Tecniche diagnostiche autoptiche e forensi (Pathology assistant)” – Osservazioni ed analogie al Documento MIUR del 17/12/2018: “Master Specialistici delle PS”. Convegno UNICATT, Roma 11/06/2019
  •   Esposito A. et altri. Competenze professionali nel contesto lavorativo. Abstract Congresso Nazionale Virtuale SIAPeC. Sessione AITIC, 23-17 Novembre 2021
  •   PRNN. https://ec.europa.eu/info/strategy/recovery-plan-europe_it
  •   https://www.diapath.it/it/risorse-per-la-formazione